Ferdinando Scianna davanti a un suo scatto alla mostra a Palazzo Reale di Milano (Ansa) 

Il colore ritrovato

Valentina Bruschi

Dopo il film di Paola Cortellesi è scoppiata le febbre del bianco e nero. Cinema e mostre fotografiche. Svettano Scianna, Scafidi, Minnella

Già prima del grande successo del film di Paola Cortellesi, sempre più si era diffusa la tendenza di tornare alla produzione di pellicole in bianco e nero, nell’èra del cinema a colori. Nel nostro immaginario, il bianco e nero fa pensare soprattutto ai classici di Hollywood e di Cinecittà, capolavori intramontabili. Oggi si assiste a “un ritorno all’origine”, in cui molti cineasti riscoprono la scala dei grigi e la loro profondità. Con il digitale, inoltre, la transizione dal colore al bianco e nero può essere effettuata facilmente, come ha fatto il regista sudcoreano Bong Joon-ho che ha realizzato una seconda versione in bianco e nero della propria pluripremiata commedia-thriller, “Parasite” (2019), dopo aver vinto la Palma d’Oro a Cannes e l’Oscar per la versione a colori, con l’obiettivo di trasformare il suo film in un “classico”. 


Le motivazioni attuali del fascino per il bianco e nero sono diverse e talvolta opposte: alcuni registi lo utilizzano per narrare vicende storiche, altri per ragioni opposte, in cerca di un mondo onirico e immaginario, come Tim Burton nel film d’animazione “Frankenweenie” (2012); altri ancora per eliminare le distrazioni dovute al colore nei film d’azione, nei drammi o nelle commedie. Oggi, la definizione del colore ha raggiunto un livello talmente preciso che forse si cerca di tornare a un’estetica diversa, che possa distanziarsi dalla troppa aderenza alla realtà, definendo la sequenza visiva come opera d’arte.


Nel 1963, anno mitico per il cinema italiano, quando i “sublimi registi avversari”, come li ha definiti lo scrittore Francesco Piccolo, giravano contemporaneamente due capolavori agli antipodi, Luchino Visconti aveva scelto il colore per raccontare la Storia nel suo “Gattopardo”, mentre Federico Fellini aveva scelto il bianco e nero per rappresentare la crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo in “Otto e mezzo”, alternando i bagliori notturni al chiarore abbagliante del giorno. Nello stesso momento storico, Francesco Rosi in “Salvatore Giuliano” sceglieva il bianco e nero per il suo film-inchiesta sulla controversa storia del bandito siciliano, con una narrativa innovativa fatta di flashback e l’utilizzo sperimentale di attori non professionisti, dove il protagonista appare poche volte, ed è inquadrato sempre da lontano e di spalle, con un impermeabile bianco. 


 L’elenco dei film contemporanei in bianco e nero è lungo. Come non citare Woody Allen con “Manhattan” (1979)? Una dichiarazione d’amore verso la Grande Mela fotografata in modo da divenire “un’astrazione della mente”, tra le grigie foschie del mattino e gli scuri contorni dei grattacieli. Anche per “Schindler’s List”, sette premi Oscar nel 1994, il bianco e nero fu utilizzato da Stephen Spielberg perché “l’Olocausto fu vita senza luce”. Tutti questi grandi registi ci hanno già mostrato come il cinema in bianco e nero non sia mai stato destinato a morire. Tra i più recenti, Alfonso Cuarón ha realizzato “Roma” (Premio Oscar 2019), ambientato negli anni Settanta nell’omonimo quartiere di Città del Messico, e Michel Hazanavicius ha addirittura girato un film muto, “The Artist”, solo con musica e cartelli su cui sono scritte le (rare) battute dei personaggi, protagonista degli Oscar 2012. 


In queste settimane, Paola Cortellesi con “C’è ancora domani” ha portato il bianco e nero a un successo così travolgente, nel nostro paese, da diventare il film italiano più visto dell’anno. Come ha detto la regista, il suo film parla di “donne comuni che non hanno fatto la storia ma che popolavano i racconti di mia nonna, vicende drammatiche, narrate però con la volontà di sorriderne. E che io mi sono immaginata in bianco e nero”. Un trionfo che ha determinato una vera e propria “febbre” per le forme di rappresentazione visiva che non utilizzano il colore ma l’infinita scala dei grigi. Un identico successo che si riscontra anche nelle tante mostre fotografiche dedicate ai maggiori interpreti di questa tecnica utilizzata per catturare momenti epocali e visioni personali: dal Palazzo delle Esposizioni di Roma che ospita la più ampia mostra mai dedicata a Don McCullin, fotografo britannico di fama internazionale, noto per aver documentato alcuni dei conflitti più tragici e significativi del XX secolo, al Museo civico di Bassano del Grappa con “Dorothea Lange. L’altra America”, che presenta l’opera della celeberrima fotografa statunitense, co-fondatrice nel 1952 di Aperture, la più autorevole rivista fotografica al mondo, e prima donna fotografa cui il MoMa di New York dedicò una retrospettiva nel 1965, proprio pochi mesi prima della sua scomparsa.

  

Ferdinando Scianna, allievo di Cartier-Bresson, e il legame con la sua Sicilia: “Un luogo in cui la luce è un privilegio ma anche una maledizione”

 
Maestro del contrasto in chiaro scuro, Ferdinando Scianna, allievo di Cartier-Bresson, quest’anno ha compiuto ottant’anni ed è stato celebrato con diverse mostre e libri, tra cui una personale ancora in corso al Museo Civico del Castello Ursino di Catania. Primo fotografo italiano a far parte, dall’inizio degli anni Ottanta, della prestigiosa agenzia Magnum, Scianna è autore di diversi testi in cui ha sempre sottolineato il legame con la sua terra d’origine, la Sicilia. Terra che ha determinato anche la scelta per il bianco e nero: “Vengo da un luogo in cui la luce è un privilegio ma anche una maledizione. Conosco persone che hanno vissuto il dramma dell’insolazione. Un libro di Gesualdo Bufalino ha per titolo: La luce e il lutto. La luce, dunque, è un privilegio ma può anche essere metafora della vita, della Storia, del destino. I viaggiatori del Grand Tour e i fotografi di oggi che dal nord vengono nel sud dell’Europa cercano l’apollineità; le loro immagini sono assolatissime. Le mie sono spesso nere. Il sole mi interessa perché fa ombra”.

  

Bagheria, un ragazzino che fa la verticale appoggiato alla ringhiera della piazza, i pescatori con le nasse e i tuffi dalle rocce dell’Aspra

   
La mostra “Ti ricordo, Sicilia” presenta una selezione di più di 80 fotografie in bianco e nero per evidenziare la relazione stretta che unisce Ferdinando Scianna all’Isola. Il percorso espositivo inizia con un omaggio alla sua città natia, Bagheria, con un ragazzino che fa la verticale appoggiato alla ringhiera della piazza, i pescatori con le nasse e i tuffi dalle rocce dell’Aspra, a picco sul mare. Poi si passa agli iconici scatti di moda dedicati alla modella olandese Marpessa, realizzati per gli allora esordienti Dolce & Gabbana, nel 1987, quando il fotografo ha sostituito al chiuso ambiente del set l’imprevedibile vitalità della strada, fotografando l’indossatrice davanti al carnezziere della Vucciria oppure tra le signore che prendevano il sole nelle viuzze di Modica. Da sempre Scianna ha avuto numerosi legami con personalità del mondo dell’arte e della cultura che hanno segnato la sua carriera e che ha ritratto in immagini celebri, da Milan Kundera, che ha frequentato regolarmente quando viveva a Parigi, a Jorge Luis Borges, che ha fotografato a Palermo nel 1984 quando lo scrittore argentino, ormai cieco, “borgesianamente” si divertiva a diventare il soggetto di immagini che non avrebbe mai visto. Il legame più importante è stato quello con Leonardo Sciascia, al quale è dedicato un intero capitolo della mostra, in omaggio alla loro profonda amicizia. Con lo scrittore ha realizzato il suo primo libro, Feste religiose in Sicilia (1965, premio Nadar) e poi Ore di Spagna (1988), annotazioni di viaggio in un paese che lo scrittore ha portato sempre nel cuore, pubblicate originariamente da Sellerio e, recentemente, in una versione aggiornata da Contrasto. Tra i suoi amici anche il suo collega d’agenzia alla Magnum, Elliot Erwitt, scomparso poche settimane fa a New York a 95 anni, noto come “il poeta del bianco e nero”, famoso per aver catturato l’anima di Marylin e di Nixon, oltre che per le evoluzioni aeree dei suoi amati cani. Scianna scrisse per lui il testo d’introduzione a una mostra, nata grazie alla loro affinità culturale e umana, che si tenne quasi dieci anni fa alla Galleria dell’Incisione di Brescia: “Succede spesso che, al telefono, alle persone che mi chiedono se stanno parlando con Ferdinando Scianna io risponda: ‘sì, sfortunatamente’. E se qualcuno cade nella trappola e mi domanda: ‘perché, sfortunatamente?’, io regolarmente rispondo: ‘Perché mi piacerebbe essere Elliott Erwitt’… Alle mostre di Elliott le persone si guardano con simpatia, si sorridono. Penso che bisognerebbe includere le sue fotografie nei kit di sopravvivenza. Nei momenti di sconforto un libro di Elliott Erwitt può costituire un rimedio potentissimo per ritrovare il sentimento di umanità, lo struggimento lieve e malinconico della vita. Ti può salvare”. 

  

Ripercorrere gli scatti realizzati da Nicola Scafidi è come snocciolare la recente storia italiana: dallo sbarco degli Alleati agli anni della guerra di mafia

   
Finalmente, a quasi vent’anni dalla sua scomparsa, Palermo ha dedicato una grande mostra antologica a Nicola Scafidi, uno dei fotoreporter palermitani che ha immortalato la grande cronaca del secolo scorso. Ripercorrere gli scatti in bianco e nero realizzati da Scafidi lungo l’arco della sua carriera, esposti al Loggiato San Bartolomeo, sede della Fondazione Sant’Elia, è come snocciolare il paradigma della recente storia italiana: dallo sbarco degli Alleati agli anni Ottanta con la guerra di mafia, l’obiettivo del fotografo ha colto tutte le personalità che hanno attraversato questo territorio, dai politici come Palmiro Togliatti a Ted Kennedy, incluso il presidente dell’Eni, Enrico Mattei, mentre sale sulle scalette dell’aereo per il suo ultimo volo, dopo aver fatto un giro dell’Isola per annunciare la prosperità che sarebbe derivata dall’estrazione del petrolio. Le sue immagini esaltano le sfumature dei grigi e creano un’atmosfera evocativa nel racconto di una società in continua trasformazione attraverso la vita colta nei mercati palermitani, i ragazzini che corrono e giocano per i vicoli dell’Albergheria, i bagnanti sulla spiaggia di Mondello o sugli scivoli dei lidi più popolari della “costa sud”. 


Scafidi raggiunge la fama dopo il fotoreportage del 1950 dedicato proprio al bandito Salvatore Giuliano, che riesce a incontrare solo perché accetta di essere trasportato bendato in un rifugio segreto. Diventa fotoreporter per le pagine del mitico piccolo grande quotidiano palermitano, “L’Ora”, le cui inchieste rappresentano un punto fermo nella cronaca degli eventi del nostro paese. A metà degli anni Cinquanta il direttore, Vittorio Nisticò, imprime un cambio di rotta al giornale che include anche lo svecchiamento dell’impaginazione grafica, con una cura particolare nella scelta delle fotografie, soprattutto quelle della prima pagina, rigorosamente in bianco e nero, che dovevano catturare il lettore vista la vita breve del giornale che usciva di pomeriggio. Negli anni Sessanta e Settanta Scafidi fotografa per il giornale i set di tutte le più importanti produzioni cinematografiche che passano nell’isola, dai già citati “Il Gattopardo” di Visconti e “Salvatore Giuliano” di Rosi, a “Il giorno della civetta” di Damiani e “I racconti di Canterbury” di Pasolini, pagine decisive della storia del cinema italiano ambientato in Sicilia. Ma è il pathos di “esserci” e di raccontare la cronaca la vera rivoluzione del giornale più antico d’Italia: “Il primo a scarrozzarsi sul luogo del delitto era lui, Nicolino Scafidi, il fotografo con la Rolleiflex sempre appesa al collo e un impermeabilino a tre quarti che lo incaramellava ‘come un pupo di zucchero’, così diceva. Un furetto”, come lo descrive Giuseppe Sottile, collega di redazione in un testo pubblicato su una monografia dedicata al glorioso quotidiano “L’Ora”. Continua, “della cronaca nera conosceva ogni anfratto e ogni debolezza, e non c’era tana dove non riusciva a inconigliarsi. Sapeva come affrontare i parenti del morto ammazzato che, manco a dirlo, maledicevano giornali e giornalisti; e sapeva come inquadrare di nascosto il delinquente che usciva dalla Squadra Mobile o come parare e sopportare gli sputi dei mafiosi ammanettati che varcavano il portone dell’Ucciardone. In un mondo di lupi voleva essere il più lupo di tutti. Voleva appartenere a quel popolo ‘cavo, giallo e infossato’, per dirla con Balzac, che non aveva paura né della vita né della malavita. E del suo cinismo era persino orgoglioso. Raccontava di quando Nisticò, il terribile Nisticò, lo rispedì in via Perpignano, in casa del morto ammazzato Calogero Manzella, perché tra le foto non c’era ‘quella della madre che piange’. E lui ci ritornò. Ma la mamma non piangeva. E allora lui, per farla piangere, cominciò a imprecare, nel pieno del lutto, contro i ‘cornuti assassini’ e a disperarsi come fosse un parente stretto: ‘Così si ammazza il padre di quattro figli? … Così si ammazza un galantuomo?’. E andò avanti ancora fino a quando la donna, povera donna, non scoppiò in un urlo ancora più disperato, di lacrime e sangue, e lui sparò finalmente il flash, fissando nella sua Rolleiflex quello strazio. Era il suo pezzo forte il racconto della mamma del cocchiere ucciso in via Perpignano. Era la sua gloria, perché Nisticò gli fece pure un regalo. Non soldi, ci mancherebbe altro; ma una firma: ‘Foto di Nicola Scafidi’”.


“L’Ora” non è stato solo una fucina che formava giornalisti e un laboratorio di impegno civile attraverso le inchieste politiche e sociali, ma ha anche formato l’archivio visivo di un’epopea siciliana in bianco e nero che ha plasmato il nostro immaginario se ripensiamo alla cronaca che va dal dopoguerra al 1992, anno di chiusura del giornale. Per la sua redazione hanno lavorato importanti fotoreporter: oltre a Scafidi anche Gigi Petyx, Letizia Battaglia, Franco Zecchin (milanese trapiantato in quegli anni a Palermo) e Fabio Sgroi. Le immagini di questi ultimi tre, insieme a quelle di Enzo Sellerio, tra i decani della fotografia in Sicilia, editore e collaboratore delle riviste più importanti del mondo, e Lia Pasqualino Noto, sono state presentate recentemente alla Fondazione Merz di Torino in una mostra dal titolo “Palermo Mon Amour”. Un amore impossibile e in bianco e nero, il cui titolo rimanda a quello del film diretto dal maestro della Nouvelle Vague, Alain Resnais, in una Hiroshima post-trauma nel 1959, dal romanzo della scrittrice francese Marguerite Duras. 

  

Le immagini di Minnella “sono tracce di una Sicilia in parte scomparsa, cancellata dalla società dei consumi e da un tempo utilitaristico”

  
Tra gli allievi di Enzo Sellerio, Melo Minnella è oggi presente con una mostra al Museo civico di Castelbuono con le sue immagini caratterizzate dai contrasti forti tra luce e ombra che scavano nelle fisionomie e nei paesaggi per coglierne l’essenza. L’obiettivo di Minnella ha colto migliaia di vedute e ritratti degli abitanti di cinque continenti, anche se questa mostra è dedicata alle sue immagini siciliane, come racconta la curatrice Maria Rosa Sossai, “sono tracce di una Sicilia in parte scomparsa, cancellata dalla società dei consumi e da un tempo utilitaristico che scorre sempre più veloce. Una memoria che ha un valore di monito, perché insieme a forme di arretratezza sociale ed economica oggi non più accettabili, sono scomparsi anche modi di vita e rituali le cui radici affondano in un passato remoto, nei quali la comunità si riconosceva perché costituivano il collante identitario dei suoi membri. Così le fotografie di Minnella svolgono un ruolo sociale e politico perché il loro sguardo retrospettivo aiuta a comprendere il presente in cui viviamo”.