La legge, l'egoismo, la giustizia

Libero mercato, l'occidente non dimentichi la lezione di Adam Smith

Alberto Mingardi

Il filosofo autore della “Ricchezza delle nazioni” fa trecento anni. Illuminò l’intreccio di sentimenti morali e interessi razionali alla base dell’economia moderna. Per anni snobbato, oggi riscoperto

Nel 1990 ricorrevano i duecento anni dalla morte, quest’anno sono trecento dalla nascita. Adam Smith fu tenuto a battesimo il 5 giugno, all’epoca non era infrequente che i bambini fossero battezzati lo stesso giorno in cui venivano al mondo, specialmente quelli apparentemente più fragili. Il calendario era ancora quello giuliano, per cui ci si divide fra chi lo ha festeggiato il 5 di giugno e chi ha atteso il 16. Nel 1990, le celebrazioni furono festose: mezza Europa cercava di recuperare la grammatica dell’economia di mercato. Persino in Italia nasceva, dopo lungo travaglio, un’autorità garante della concorrenza e del mercato. Smith non avrebbe mai potuto immaginare economie presidiate da stati che controllano all’incirca il 50 per cento del prodotto, com’è nell’occidente di oggi, e men che meno “economie pianificate”, nelle quali le decisioni di produzione dipendono in toto dalla classe politica. Già nel 1755, però, osservava come “per condurre uno stato dalla più infima barbarie al più alto grado di opulenza serve ben poco, se non pace, una tassazione leggera e una ragionevole amministrazione della giustizia”. Il resto verrà da sé. “Quando un governo cerca di sviare questo corso naturale, forzando le cose in un diverso canale o sforzandosi di arrestare in un punto particolare il progresso della società, esso è innaturale e, se vuole perpetuarsi, sarà obbligato ad essere oppressivo e tirannico”. Innanzi al muro in frantumi, nel 1990 suonava come una profezia.

 

“Per condurre uno stato dalla barbarie all’opulenza serve ben poco: pace, una tassazione leggera e una giustizia ragionevole”. La smithologia è diventata un’industria fiorente, sparpagliata in mille rivoli, molti impegnati a fare a pezzi il santino “liberista”

 

Oggi il clima è ben diverso. Dell’anniversario in Italia non si accorgono nemmeno gli organizzatori non di uno, bensì di due festival dell’economia. I politici e i commentatori di fatti politici lo hanno rimesso nel recinto in cui sempre si accompagnano le idee sgradite: quello delle teorie ingenue, troppo candide per il mondo degli uomini. Che ne sapeva Adam Smith di Putin e di Xi Jinping, che ce ne facciamo del libero scambio se ci sono di mezzo il gas russo o le macchine elettriche cinesi?

Invece, la reputazione di Smith, fra gli studiosi, è più scintillante che mai. La smithologia è diventata un’industria fiorente. Man mano che è cresciuta d’importanza e di volume, s’è sparpagliata in mille rivoli, buona parte dei quali impegnati a fare a pezzi il santino “liberista”. Smith è finalmente riconosciuto come uno tra i dieci (o poco più) pensatori davvero imprescindibili della storia dell’occidente. Per questo ciascuno vuole un frammento del suo mantello. Far storia, e storia del pensiero, vuol dire contestualizzare, non confondere il pensiero politico con un repertorio di ricette pronte all’uso e non prendere la storia per una cabina armadio di “lezioni”. In qualche modo, però, l’interpretazione di Smith sconta le opinioni consolidate, soprattutto fra gli intellettuali, non solo su che cosa sia l’economia di mercato ma anche su ciò che implicherebbe sostenerne le ragioni. Il padre della scienza economica non può essere un filosofo “egualitario”, convinto che fra filosofi e portantini non ci sia poi tanta differenza, e men che meno mettere sull’avviso circa i rischi di una plutocrazia mercantile.

Le dispute sull’interpretazione di Smith non sono una novità. Nella Germania del secondo Ottocento emerse quello che è ancor oggi noto come Das Adam Smith Problem. Gli economisti tedeschi non amavano Smith, al quale imputavano di aver confezionato un’economia politica a misura dell’Inghilterra. Se la prendevano con lui per dardeggiare la talassocrazia britannica, una società nella quale effettivamente ciascuno era in qualche misura un mercante, e fino a prova contraria un debosciato bevitore di Porto. Smith era e voleva essere l’autore di due libri, da lui scrupolosamente curati e rivisti per la pubblicazione: la Teoria dei sentimenti morali del 1759 e la Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, del 1776. La seconda propone l’autointeresse come principio regolatore dei rapporti economici, la prima comincia con parole memorabili: “Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla”. Perbacco, com’era possibile che quest’uomo, questo teorico della simpatia, si fosse poi ridotto a ragionare di birrai e macellai? La risposta, talvolta, era perfida: il cuore dello scozzese era stato guastato da un viaggio in Francia e dall’incontro col materialismo che vi dominava. E’ probabile che le cose fossero più semplici e più lineari e che in un libro e nell’altro Smith fosse sempre lo stesso: cioè un osservatore della cooperazione fra umani, che assume forme diverse in diversi contesti.

Smith nasce a Kirkcaldy. Non conosce il padre, morto prima che venisse al mondo, e ama molto la madre Elizabeth, la donna della sua vita. “Dopo la scuola secondaria di Kirkcaldy, nel 1737 egli fu inviato all’università di Glasgow, ove rimase fino al 1740, quando raggiunse il Balliol College di Oxford” (Dugald Stewart). Di quella città e di chi vi insegnava non ha una grande impressione. Un po’ perché, come ricordava il suo miglior biografo, il compianto Nicholas Phillipson, non ci arriva “armato di attese particolarmente elevate. I circoli riformisti Whig che frequentava a Kirkcaldy e a Glasgow avevano sempre considerato Oxford come una sentina di fanatiche fazioni giacobite”. Un po’ perché la qualità dell’insegnamento gli pare lasci a desiderare. “Nell’università di Oxford, la maggior parte dei professori ha da molti anni completamente abbandonato anche l’apparenza d’insegnare”, scrive nella Ricchezza delle nazioni. La spiegazione è limpidamente smithiana: all’insegnante “è proibito ricevere onorari o tasse dagli studenti e lo stipendio costituisce tutto il reddito che gli proviene dal suo ufficio. In questo caso il suo interesse contrasta al massimo col suo dovere”. Se i suoi emolumenti “sono esattamente gli stessi sia che assolva sia che non assolva” il suo compito, tenderà a passare dove l’acqua è più bassa.

Al Balliol però c’è una biblioteca delle più fornite d’Inghilterra e Smith ci si immerge. Per sette anni non torna a casa, a sua mamma scrive solo tre lettere, scusandosi ripetutamente d’essere un pessimo corrispondente (lo conferma, in generale, la sua corrispondenza poi pubblicata). Perfeziona il suo francese, con tutta probabilità esercitandosi a tradurre. Legge Bayle, Descartes, Malebranche, Pascal, ma anche Racine. “I poeti e gli scrittori di racconti fantastici, che meglio di tutti tratteggiano le raffinatezze e le tenerezze dell’amore e dell’amicizia, e di tutti gli altri affetti privati e domestici, sono migliori insegnanti di quanto non lo siano Zenone, Crisippo o Epitteto”, scrive lo stoico Smith, nella Teoria dei sentimenti morali, per dire che la tenerezza eccessiva si perdona più volentieri dell’apatia.

L’incontro cruciale è però quello con un altro scozzese, David Hume, di dodici anni più vecchio. E’ improbabile che a Oxford Smith abbia letto il Trattato, “nato morto dal torchio”, il primo volume il gennaio 1739 (quando Smith era ancora a Glasgow) e il secondo il novembre 1740 (quand’era già a Oxford). Il Trattato un giorno sarebbe diventato celeberrimo. Intanto, però, Hume si convince che per farsi leggere doveva scrivere breve. I suoi Saggi affrontano spesso temi che Smith riprenderà poi: dalla bilancia commerciale, alla natura della moneta, alla “gelosia del commercio”. I due s’incontrano nel 1750 e ne nasce un’amicizia. Sono entrambi orfani di padre, entrambi scozzesi, Smith apprende da Hume, ne assorbe lo scetticismo, capisce che la ragione è una carrozza aggiogata ai cavalli delle passioni, impara a leggere gli uomini per le creature imperfette che sono. Dei due, Hume, in sospetto d’ateismo, è tenuto lontano dall’accademia mentre Smith, più accorto, ottiene la cattedra all’Università di Glasgow, nel 1752, dopo quattro anni passati a Edimburgo.

 

Analizza la divisione del lavoro e la “mano invisibile del mercato”. David Hume gli insegna che la ragione è una carrozza aggiogata ai cavalli delle passioni

 

Fra il 1752 e l’inizio del 1764, Adam Smith insegna filosofia morale. Le sue lezioni abbracciano temi diversi, dall’etica a quella che si sarebbe chiamata economia politica. Forniscono il materiale per i suoi due libri. A Glasgow, Smith conduce un’esistenza “all’insegna dell’austerità stoica, presbiteriana, lontana dall’alcol e probabilmente dal sesso – non si sposò mai, non si ha notizia di fidanzate e le voci su presunte relazioni hanno tutte tinte irreali – dedicata all’insegnamento e allo studio”. Così scrive Mario Vargas Llosa, che appende il ritratto di Smith primo della galleria dei suoi maggiori, ne Il richiamo della tribù (2019). Impeccabilmente casto o meno, Smith teme “l’entusiasmo religioso” (entusiasmo nel Settecento significa fanatismo, e forse è così anche oggi) come il suo amico Hume, anche se prescrivono cure diverse. Hume “l’infedele”, per citare il titolo di un libro di Denis Rasmussen, parteggia paradossalmente per una Chiesa di stato, ritenuta tutto sommato un argine, proprio grazie alla coincidenza con gli interessi del sovrano, al moltiplicarsi delle sette eversive. Smith sostiene il pluralismo confessionale. Anche solo da questo dissenso nell’assenso, è chiaro che l’uno e l’altro pensano la storia come una trama di conseguenze inintenzionali. Con quest’espressione, non intendiamo solo quelli che altrimenti potremmo chiamare “effetti perversi”: se metto un tetto al prezzo degli affitti, va a finire che si riduce l’offerta di alloggi in locazione. Gli effetti perversi esistono, e sia Hume che Smith hanno fiuto per scovarli. Però ad andare oltre le intenzioni degli agenti sono tutte le azioni umane. Le loro conseguenze più rilevanti non sono quelle immediate ma quelle di lungo periodo, spesso ignote a chi oggi calca la scena. La lingua che parliamo, il diritto sotto il quale agiamo, le istituzioni all’interno delle quali viviamo, a cominciare dal “mercato”: sono l’esito inconsapevole di una fitta trama di scelte individuali. “Il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: questo è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile”, scrive Rousseau. Il primo uomo che recintò un terreno non sapeva quello che stava facendo, replicherebbero Hume e Smith. Però ha trovato degli imitatori, le terre recintate si sono rivelate più produttive delle altre e per questo ha trovato altri imitatori ancora. I rapporti sociali non obbediscono a idee e piani consapevoli, non stanno dove li metti, la goccia ci mette generazioni a scavare la pietra. Cent’anni dopo Darwin ci spiegherà la selezione naturale, un gigantesco setaccio i cui fori consentono il passaggio di miriadi di forme diverse, sorte indipendentemente dal processo di selezione, a condizione che siano piccole abbastanza da passarci. Per Friedrich von Hayek, Hume e Smith, i due pilastri del cosiddetto illuminismo scozzese, sono “darwiniani prima di Darwin”: anche se non riflettono sull’evoluzione biologica ma sulle istituzioni umane.

Bernard de Mandeville, nella sua Favola delle api, aveva avuto la medesima intuizione. Nel suo alveare, “il peggiore di tutta la moltitudine / ha fatto qualcosa per il bene comune”. Ma questo verso non è, come ebbe a scrivere sempre Hayek, che “il seme dal quale scaturì più tardi il suo pensiero”. Nel vasto tesoro di brillanti postille della seconda edizione della Favola delle api si legge che la maggior parte delle leggi “sono il prodotto, l’opera congiunta di diverse generazioni”. La saggezza del diritto non è quella del singolo uomo, per brillante che sia, ma quella del setaccio. Mandeville però sembra suggerire che non c’è azione che non sia un atto di egoismo, manifesto o camuffato, e che una buona azione è per forza un inganno. Attira l’indignazione generale, inclusa quella di Francis Hutcheson, che dell’effervescenza intellettuale nella Scozia di quegli anni è considerato se non il padre il padrino. Hutcheson tiene a distanza Hume e invece aiuta il più diplomatico Smith.

La Teoria dei sentimenti morali viene pubblicata nel 1759. E’ il suo primo, grande libro. La morale di Smith è empirica. Ciascuno di noi ha immaginazione morale, sa mettersi nelle scarpe degli altri (“Giudico la tua ragione attraverso la mia ragione, il tuo risentimento attraverso il mio risentimento, il tuo amore attraverso il mio amore”) e desidera che gli altri ne abbiano stima. Non esiste una condotta retta, incardinata su pretesi sentimenti “naturali”, destinata a svilirsi col progredire della società. Al contrario, è vivendo e parlando assieme che ognuno di noi impara “a comportarsi” e vedendo come fanno gli altri riesce a guardarsi allo specchio. Ogni essere umano ha il suo “spettatore imparziale”, che un po’ somiglia al grillo parlante di Collodi e un po’ al super-io di Freud, ma a differenza dell’uno e dell’altro riflette ciò che gli altri pensano, nella società in cui viviamo. Non c’è etica senza società e proprio per questo la prima non può essere un “progetto”, un sistema calato dall’alto sulla base di considerazioni superiori ed estranee agli individui in carne ed ossa. Grazie al libro e alla reputazione che gliene viene, Smith è ingaggiato dal patrigno del giovane duca di Buccleuch, per un salario annuale tre volte quello di professore e un vitalizio poco meno generoso, come precettore. Quando lascia Glasgow, vorrebbe restituire agli studenti l’onorario che gli hanno pagato, quelli rifiutano, lui forza loro la mano. Un piccolo gesto di coerenza, notato dai meno distratti fra i posteri.

Con il duca, va in Francia e qui, a detta dei tedeschi, il suo animo verrebbe irreparabilmente corrotto. Le lezioni tenute a Glasgow, recuperate e pubblicate dal principe degli smithologi, Edwin Cannan, a fine Ottocento, testimoniano che Smith rifletteva da anni sui temi della Ricchezza delle nazioni. Ma in Europa conosce i fisiocrati e prende sul serio il loro sistema. Tornato a Kirkcaldy, fra il 1767 e il 1773 scriverà il grosso del suo trattato più famoso. La tesi centrale della Ricchezza delle nazioni è già nelle prime righe del primo capitolo: “Sembra che il grandissimo progresso della capacità produttiva del lavoro e la maggiore abilità, destrezza e avvedutezza con le quali esso è ovunque diretto impiegato siano stati effetti della divisione del lavoro”. Nessun altro, né prima né dopo, dirà perfidamente Joseph Schumpeter, ha mai pensato di mettere un fardello così pesante sulle spalle della sola divisione del lavoro. La locuzione è ambigua: riguarda la specializzazione all’interno di una stessa unità produttiva, che Smith presenta con l’esempio celeberrimo della fabbrica di spilli. Lo stesso artigiano, lavorando da solo e prendendosi in carico l’intero processo produttivo, “non avrebbe potuto fare venti e nemmeno forse uno spillo al giorno”, cioè “la quattromilaottocentesima parte” di ciò che realizza con altri, complice il lavoro ben diviso. Ma divisione del lavoro è anche quella che avviene nella società nel suo complesso. L’esempio che Smith fa è quello dell’abito di lana del lavorante a giornata che, “per quanto grossolano e ruvido possa apparire”, è il frutto di una collaborazione che abbraccia spesso paesi interi, l’esito del lavoro congiunto di operai, tintori, cardatori, tessitori, filatori, apprettatori, e che dire delle macchine che hanno utilizzato e di chi le ha costruite, e delle navi su cui hanno caricato materie prime, tinture, beni lavorati, eccetera.

Nella fabbrica di spilli è chiaro al singolo individuo su che cosa sta lavorando, nel caso dell’abito del lavorante a giornata no. Nella Teoria dei sentimenti morali, Smith spiega come impariamo a regolarci gli uni con gli altri, finché gli altri li conosciamo. Nella società civile, però, ciascuno “ha continuamente bisogno della cooperazione e dell’assistenza di un gran numero di persone” per ottenere i beni e servizi che desidera, mentre “la durata di tutta la vita gli basta appena a guadagnarsi l’amicizia di pochi”. Grossomodo 150, per usare il numero di Dunbar. Se noi dipendessimo, per soddisfare i nostri bisogni, solo da coloro coi quali possiamo permetterci d’interagire con fiducia d’esser compresi, a cui possiamo parlare delle nostre necessità come si fa a un amico che ha voglia di aiutarci, potremmo soddisfarne ben pochi, di questi bisogni. E’ per questo che col macellaio, col birraio e col fornaio parliamo dei “loro vantaggi”: cioè offrendo loro un mezzo di pagamento, in cambio di carne, birra e pane.

L’idea non è che tutti gli uomini debbano essere egoisti, e nemmeno che sotto sotto lo siano, ma semplicemente che mai avremmo modo di convincere gli altri ad aiutarci tanto quanto ne abbiamo bisogno. Appellarci all’autointeresse è una scorciatoia. E non è affatto una scelta deliberata. Gli esseri umani vengono al mondo con una “propensione” a scambiare e barattare, che è una caratteristica che avrebbero potuto avere oppure no, fatto sta che ce l’hanno. Ci viene dall’essere animali parlanti. Nessuno ha mai visto un levriero e un bracco, scrive Smith, a cui i cani dovevano piacere parecchio (anche Hume aveva il suo pomerano), entrare in uno scambio deliberato. Le persone invece parlano e non solo parlano, spiegava a lezione, molto spesso s’inalberano nel discutere cose di cui sanno poco o nulla, ma su cui vogliono avere ragione ugualmente. Lo scambio monetario è una maniera per oliare il processo, è la logica conclusione di questo bisogno d’ottener ragione, per ottenerla da quanti più possibile. Con l’affermarsi della divisione del lavoro, le differenze fra persone si accentuano, perché ognuno cerca il modo d’essere utile agli altri. Di per sé, però, queste differenze sarebbero minime: Smith non pensa che la società debba essere divisa in classi, corrispondenti a chissà quale gerarchia di abilità, ma che se ti capita di fare il portantino imparerai a riconoscere il viaggiatore che ha bisogno di te e se finisci a fare il professore a poco a poco parlerai in pubblico sempre meglio.

La teoria di Smith è fatta di propensioni, di atteggiamenti, di condotte che non necessariamente si spiegano alla luce di scelte razionali. E’ una teoria in cui conta molto lo spazio: noi ci comportiamo meglio con le persone che conosciamo e che ci assomigliano, ciò che ci è più prossimo ci è più caro, se domani dovessimo perdere il mignolo non dormiremmo la notte e invece se un terremoto s’inghiotte mezza Cina anche i più sensibili se la cavano sdottoreggiando sul cambiamento climatico. Smith è a suo agio coi chiaroscuri, l’unico servizio che vuole rendere agli esseri umani è raccontarli più o meno come sono (anche questo l’ha imparato da Mandeville e Hume): dunque la divisione del lavoro aumenta la nostra produttività, ma attenzione che a furia di spacchettare funzioni e mestieri si finisce per diventare stupidi come le macchine. Il sistema mercantile inglese è una fabbrica di soprusi, ma dopotutto è meno peggio degli altri. Tranne che per gli schiavi: il fatto che una colonia sia retta da un’assemblea, evidentemente composta da possessori di schiavi, leva loro l’unico amico che possono avere, un sovrano che voglia tenere a bada i signori.

Nel terzo libro della Ricchezza delle nazioni, Smith tratteggia la nascita dello stato dopo il feudalesimo e la prima età moderna non come l’esito di un contratto, ma come un accidente storico dovuto all’afflusso di beni di lusso, alla loro produzione nelle città e alla fame che ne avevano i signori delle campagne. Le città si rafforzano perché danno loro le merci che questi agognano, e con loro indirettamente il sovrano, che ha più agio nell’avere a che fare con signorotti disarmati. Pensate a un Don Rodrigo che a furia di comprar tesori non ha più di che pagare i bravi. E’ così che “commercio e manifatture introdussero gradualmente l’ordine e il buon governo e con essi la libertà e la sicurezza individuale”, argomento che Smith stesso riconosce prima di lui aveva sostenuto l’amico Hume. “Libertà e sicurezza individuale”, ha ricordato Paul Sagar in un libro recente (Adam Smith Reconsidered, 2022) sono carissime a Smith. Nel modo in cui pensa la libertà dei moderni è essenziale il concetto di rule of law. Che di per sé è tanto popolare quanto vago ma, secondo lo studioso del King’s College, per Smith equivale alla common law britannica, un diritto cementato dall’uso, rampollato nelle spire del sociale e sottratto all’arbitrio del legislatore. Arbitrio che altrimenti induce le persone a condotte servili. Smith le disapprova: meglio pagare il macellaio, il birraio e il fornaio, che scodinzolargli attorno per le briciole.
Smith muore nel 1790, apparentemente dopo un banchetto. Anche chi non ne ha mai letto un rigo lo ricorda per la “mano invisibile”. L’espressione ricorre solo una volta, nella Ricchezza delle nazioni: l’industriale investe nella produzione nazionale anziché in quella straniera perché è più vicina, più “controllabile” (come l’agricoltura rispetto al commercio), e così fa l’interesse della sua comunità anche se non ci pensa neppure.

Sono due le cose che Smith vuol dirci, entrambe attualissime. La prima è che quali siano gli impieghi di capitale più convenienti non lo determina lo stato. La seconda è una critica a coloro che dicono di voler esplicitamente realizzare l’interesse pubblico e in realtà vogliono solo privilegi. C’è di peggio di essere una nazione di bottegai: essere una nazione il cui governo è influenzato dai bottegai. Sostituite a bottegai industriali o banchieri di questo o quel tipo, pensate ai mille modi in cui oggi si mira a distorcere l’allocazione del capitale (dalla transizione ecologica in giù), e capirete quanto Smith sia attuale e perché molti, oggi come ieri, preferirebbero non lo leggessimo affatto.

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