facce dispari

Marco Ottaiano e i tesori (smarriti) della letteratura spagnola

Francesco Palmieri

"Dal boom di García Márquez e dall’interesse per gli autori del realismo magico, la narrativa tradotta è stata prevalentemente ispanoamericana". Il professore di lingua e traduzione spagnola all’Università di Napoli L’Orientale ci spiega perché ci siamo dimenticati dei libri spagnoli

È curioso considerare, nei giorni del Salone del Libro di Torino, la sorte di una letteratura più trascurata che goduta dal pubblico italiano. Se un buon lettore medio (figura tanto realistica quanto immaginaria) può snocciolare decine di nomi di autori inglesi e americani, francesi e tedeschi, e di russi, sudamericani e giapponesi, interrogato sulla Spagna spesso non andrà più in là di cinque o sei scrittori. Come se, per storica disattenzione, la letteratura spagnola occupasse un reparto periferico degli scaffali, dove con disinvolto salto in lungo si può passare da Cervantes a Javier Marías o Javier Cercas ignorando le opere che altri grandi autori hanno consegnato alla storia. Questo è argomento di conversazione crucciata e divertita con Marco Ottaiano, professore di lingua e traduzione spagnola all’Università di Napoli L’Orientale.

 

Cosa avrà mai congiurato, se congiura c’è stata, contro la letteratura spagnola?

Traduttori, editori, intellettuali. Ciascuno per la sua parte. Prendiamo un solo esempio: Beníto Pérez Galdós, un gigante del realismo ottocentesco che in Italia non è percepito come un classico anche se è al livello di Dickens, di Balzac. Tra Otto e Novecento veniva regolarmente tradotto, poi con la guerra civile e il franchismo, che determinò l’isolamento della cultura spagnola, la nostra intellighenzia guardò con sospetto quanto proveniva da quel paese, penalizzando anche la produzione precedente. Se il lettore medio di Galdós qualcosa conosce, è grazie ai film che Buñuel trasse dalle sue opere.

 

Altre ragioni di dimenticanza?

L’industria editoriale ha pubblicato gli autori spagnoli senza una sistematizzazione. Prendiamo il caso di un altro grande del passato, che visse e produsse anche a Napoli: Ramón Gómez de la Serna, dal peso specifico pari a quello di una Virginia Woolf in Inghilterra. È rimasto quasi sconosciuto in Italia perché occorreva una programmazione che lo aiutasse a circolare, non qualche traduzione episodica.

 

Gli ispanisti intanto cosa facevano?

Prevaleva, tra le generazioni precedenti di studiosi, la provenienza dalla filologia romanza. Spesso si fermavano a Góngora, trascurando cosa fosse accaduto dalla seconda metà del Seicento in poi. Dello stesso Cervantes si ignorano molte cose e un genio come Lope de Vega restava e resta, in fondo, autore per intellettuali. C’è infine una ragione riguardante la lingua: ritenendo che lo spagnolo “si capisce”, gli editori affidarono spesso le traduzioni, anche di notevoli scrittori del Novecento, a non addetti ai lavori, persino a germanisti, “tanto basta un dizionario”. Così lo scollamento tra ispanisti e mondo editoriale si accentuò. Ora si sta recuperando, per esempio con le traduzioni di nuovi autori come Sara Mesa e Isaac Rosa. Ma occorre continuità affinché conquistino un pubblico stabile.

 

    

Mentre perdura la strepitosa, meritata fortuna della letteratura sudamericana in generale.

Sicuramente, sin dal boom di García Márquez e dall’interesse per gli autori del realismo magico, la narrativa tradotta dalla lingua spagnola in italiano è stata prevalentemente ispanoamericana.

 

Nel prossimo autunno uscirà un suo saggio per Carocci sulla traduzione letteraria, dal titolo significativo: ‘Un modo di sentire la realtà’.

Nasce dall’esperienza di traduttore da cui ho ricavato alcune norme “di buona condotta” per affrontare un testo, con l’equilibrio necessario tra operazione filologica e destinazione editoriale, perché non dimentichiamo che i libri sono tradotti per essere letti dal pubblico generalista. Ho fatto miei gli insegnamenti di Antonio Tabucchi, di cui fui studente a Siena e anche se da lusitanista ci irrobustì nella teoria della traduzione.

 

Quali sono i problemi specifici di trasposizione dalla lingua spagnola?

È un paradosso, ma talvolta è più semplice tradurre da idiomi distanti perché consentono un margine di ricreazione più ampio. Lavorando sullo spagnolo si rischia di propendere verso il calco e di cadere nei tranelli di quella che George Steiner definiva la “tensione contraddittoria” tra lingue vicine. C’è anche un altro aspetto: la lingua spagnola, e più in generale la Spagna, per il grande pubblico italiano ha risposto a un immaginario esotizzante che è diventato quasi pregiudizio. È avvenuto anche al cinema, dove l’autore che si è più imposto è Pedro Almodóvar perché ha coniugato alla sua maniera certi stilemi: l’eccesso, il colore, il folklore.

 

Oltre all’attività accademica, lei ha coltivato nel suo lato dispari l’esperienza editoriale ed è stato amico di Ermanno Rea e Tullio Pironti. Cosa ne ricorda?

Al di là del lavoro, Tullio mi ha insegnato a vivere: è stata una di quelle persone che proseguono il lavoro di un padre. Rea mi ha spiegato meglio di chiunque altro come osservare i meccanismi sociali e i processi che muovono una città. Devo molto anche a David Trueba, scrittore e cineasta come il fratello Fernando: mi introdusse nel ‘Gruppo Azcona’, intitolato allo sceneggiatore che lavorò con Marco Ferreri e che ancora si riunisce, una volta a settimana, nel ristorante italiano Mercato Ballarò di Madrid. Ho adottato una frase di David che sembra assai semplice (sembra): “Le cose vanno sempre fatte”. Seguendo questa massima, ho appena cominciato un’altra cosa di cui sentivo un bisogno creativo: un memoir su vicende autobiografiche partendo dal quartiere dove sono nato, Ponticelli, alla periferia orientale di Napoli.