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L'iniziativa

Il Festival delle Lettere raccontato dal suo direttore: “Scrivere è un gesto raro”

Maurizio Baruffaldi

Il 13 e 14 maggio in Villa Clerici a Milano verranno letti alcuni degli 800 scritti raccolti. Dal carcere agli influencer, tutti radunati attorno a carta e penna: “Nella calligrafia c’è la sostanza di un messaggio e la forza di un sentimento”

Conservo in una scatola di metallo vintage le lettere ricevute fino ai trent’anni, prima dell’avvento delle parole touch. Rileggerle è un’operazione a cuore aperto. Leggere epistolari, sempre un godimento. Il ‘Festival delle lettere’ mi chiama. Nelle sue diciassette edizioni, il festivaldellelettere.it ne ha raccolte la bellezza di 27 mila, e delle 800 ricevute quest’anno, il 13 e 14 maggio in Villa Clerici a Milano alcune verranno lette, musicate, illustrate, selezionate per darne vincitori. Ed esposte, alla ‘Casa delle lettere’, dove si potranno per l’occasione sfogliare. O anche solo sbirciare. Il Festival è organizzato dall’Associazione Culturale 365gradi, il direttore artistico è Marco Corbani, con il quale ci sediamo in una stanza vetrata, dopo aver solo ammirato un serie ancora vergine di pouf realizzata per l’occasione: si leggono prima di sprofondarci.

Una prima curiosità: la calligrafia. A volte mi ritrovo perso davanti alle mie parole.

“Richiediamo lettere scritte a mano (accompagnate dalla versione dattiloscritta) perché dietro alla calligrafia c’è la sostanza di un messaggio, la forza di un sentimento, i tratti di un carattere: ce lo insegna L’Associazione Calligrafica italiana, nostro compagno di viaggio con la quale organizziamo performance, corsi di calligrafia, che in molti paesi, il Giappone su tutti, vanno fortissimo. Soprattutto ai manager, proprio perché è un’esperienza fisica.”

Il gesto atletico da scrivania. Le parole non si possono sprecare.

“Scrivere una lettera è un gesto raro, non è certo cosa di tutti i giorni. Può persino accadere lo si faccia anche solo una volta nella vita, ma ha un valore che non passa. Mentre tutto scivola via.”

Come una storia su Instagram. Dove nasce questa idea delle Lettere?

“In metropolitana. Arrivavo da Bergamo e facevo i conti con Milano. La mattina sentivo l’energia di quel “qualcosa” che deve accadere, poi la sera, al ritorno, vedevo solo teste piegate sul giornale, sguardi intenti a leggere lo schermo di un telefono (ancora non c’erano gli smartphone), o isolate nel pensiero della famiglia, i figli, del cosa devo fare...”

Il dramma del milanese: testa sempre al da farsi.

“Questo quadro mi ha fatto pensare alla necessità di uno strumento che fosse in grado di mettere in connessione chiunque, che fosse alla portata di tutti. La lettere ha questo potere: ti parlo senza essere costretto a parlarti; lo faccio quando voglio; ti lascio i tuoi tempi. Questo è stato l’inizio del Festival e mi dicevo: tanto non scriverà nessuno…”

Invece.

“Il primo anno di lettere ne arrivano 850. Da tutta Italia. Il terreno era fertile così come il potenziale dello strumento lettera. Abbiamo mandato alcune di queste al direttore artistico di un Festival di Cortometraggi a Londra, lui ha selezionato i registi e dopo sei mesi arrivarono i film. Capolavori assoluti.”

Ogni edizione ha tre categorie. Destinatario dell’anno, con sezione a parte dedicata gli under 14. Lettera a tema libero. Lettera nel cassetto. Partiamo dal destinatario. Qual era il primo?

“Lettera a un nemico.”

Mi vien subito ‘Lettera al mio giudice’ di Simenon. Che nel mio caso sarebbe il ghisa. Che nemici vincevano?

“Non quelli che ti aspetti. Come è successo con Lettera a uno straniero. La maggior parte degli under 14 ha scritto a un genitore. Siamo noi, i nemici, gli stranieri. Perché non sei mai in casa. Perché non ascolti. Perché non ti accorgi. Ma anche tra gli adulti, su 100 lettere, giusto due raccontavano dello stereotipo brutto, sporco, lavavetri, barconi, eccetera. Le altre 98 erano scritte al vicino di casa, al marito, insomma a persone vicine, davvero estranee.”

Non c’è il rischio dell’invenzione, per compiacimento, o per stupire la giuria?

“Forse, ma se sono incisive, emozionanti, se svelano un sentimento potente, le premiamo. Per esempio quella di una mamma che ha scritto al figlio che doveva ancora nascere: era lui lo straniero. Una lettera che è diventata un corto strepitoso.”

Lettera a un bambino mai nato ha precedenti illustri.

“Ma il bambino, in questo caso, era già nato. Quella lettera era il viaggio nel tempo di una mamma che tornava ai sentimenti di trenta anni prima, sentimenti comunque veri e che scriveva a suo figlio che stava per nascere. Per lei era lui il vero straniero: come sarà, cosa farà, cosa vorrà! E quel ragazzone, ormai uomo, era sul palco a ritirare il premio con sua madre. Così hai azzerato tutto quello che si narra dello straniero. Tra l’altro ci è capitato di scegliere un destinatario e trovarci l’anno dopo nel boom di quel tema.”

Culo o veggenza?

“Fortuna… ma è anche vero che nel nostro lavoro non è difficile intuire un panorama fertile.”

Lettere in un cassetto. Di almeno 25 fa. Dammene una.

“Scritta su una cartina da sigarette, quelle da rollare, tra due fratelli al fronte, Prima Guerra Mondiale. Il fratello in trincea scrive all’altro che è a 2 km di distanza: ‘Se va bene ci vediamo qui domani. Se va male bacia mamma, per me.’ La lettera venne passata di mano in mano in trincea. Chi la scrisse morì quella notte. Ci mandò l’originale la nipote, smangiata, con l’inchiostro slavato, ma intera. E ancora leggibile. Valore scrittura zero, valore storico pazzesco. Non ci sentimmo di tenere l’originale e lo restituimmo.”

Sono avido di altre lettere uniche. E Marco me ne mostra una, dichiarazione d’amore, con le parole scritte seguendo una spirale. L’amore dà le vertigini, d’altronde. C’è un limite di lunghezza?

“Un foglio A4, non di più. Perché poi le leggiamo durante la due giorni del Festival, e devono durare due minuti, massimo tre.

Percentuale di genere?

“Il 67 per cento di quelle che riceviamo sono spedite da donne.”

Più allenate a fare i conti con il proprio intimo. Cosa nascondono gli Under 14, a parte la distanza da noi genitori?

“L’anno della Lettera al mio dio (volutamente minuscola l’iniziale!), ne sono arrivate parecchie dove il dio era la bilancia. Soprattutto ragazze, appunto.”

Verrebbe da sorridere. Invece spaventa.

“Infatti sono lettere che danno da pensare. Pesanti. A volte sono confidenze inconfessabili. E tu, come direttore artistico ti chiedi: cosa faccio, avviso il genitore, o comunque qualcuno che possa intervenire? Perché qui si manifesta un problema grave. Per un paio d’anni abbiamo valutato di collaborare con un sociologo, poi abbiamo scelto di non procedere fuori dalla nostra intenzione.”

Come in un confessionale. Si confessano anche i bambini?

“I bambini sono agganciatissimi al contesto. Uno ha scritto a Giulio Cesare, perché lo stava studiando a scuola. Un altro alla coccinella, chiedendole di cambiare colore, perché i suoi amici erano tutti interisti. Che poi in termini numerici le coccinelle rosse con pallini neri sono in minoranza.”

E hanno perso l’andata. Quanto conta la forma, nella selezione dei vincitori?

“La giuria, che cambia nel tempo, non dà priorità all’aspetto stilistico. Chi ascolta le lettere, lette da altri, capisce subito il perché. Abbiamo avuto tanti attori a interpretarle, scegliendo tra cinema e teatro. Ricevono prima gli scritti, li preparano, eppure sul palco del Festival qualcuno si è commosso, si è fermato, non ce l’ha fatta ad andare avanti. Perché? Sono completamente destrutturate, e ti spiazzano. Anche la giuria va in difficoltà. Ci sono lettere con errori, anche grossi, di grammatica, che ti colpiscono, lasciano il segno.”

Credo di capire. La verità scardina. E veniamo a quest’anno. Lettera a un influencer.

“Ancora una volta siamo stati stupiti. Per dire: lettere arrivate al nome da milioni di visualizzazioni, Ferragni e simili, nemmeno una. Influenzano per il vestito, il ristorante, il locale, ma in realtà la mia vita va avanti per quelli che, nel bene e nel male, incontro. O che mi hanno cresciuto. Loro incidono. Uno ha scritto la lettera alla nonna, un testo struggente.”

L’influenza di una generazione antica, lontanissima dalla loro, ma intima. Mi struggo a pensarlo. Anche se c’è il Dio bilancia, a fare da bastian contrario all’ottimismo.

“Abbiamo tutti, che ci piaccia o no, bisogno di dire qualcosa di intimo agli altri. E questa necessità non ha tanti sbocchi. Quando fai creatività hai due strade. Puoi accendere il computer, e fare, elaborare, quello che lui ti mette davanti, e ti costringe, in fondo, a immaginare solo qualcosa che già c’è. Oppure passi al foglio e sei costretto a tirar fuori il tuo, quello che hai immagazzinato… Poi non credo che conserveremo una mail per i prossimi duemila anni. Che dici?”

Non si sa. Nel frattempo, stampare, stampare, stampare.

“A leggere certe lettere respiri, esclama così, da muto pensiero, Marco Corbani. Respirare inteso come: vale la pena vivere. Anche per chi passa le giornate allo stesso modo, e non accumula nessun ricordo… Ma il Festival è anche molto divertente. Lettera a un bugiardo: un ragazzo l’ha scritta al bugiardino, delle medicine. Sulla parola le persone viaggiano.”

A scavare vengono fuori le visioni. Il prevedibile e il conformista, prendono calci nel culo.

“E abbiamo uno spaccato semantico, dai 5 ai 97 anni, secondo me abbastanza realistico.”

Mi racconta delle quattro lettere, “stupende”, scritte di pugno da Gassmann, una dedicata alla città di Roma, lette al Festival, con grande copertura di stampa nazionale. Di quando rispose alla chiamata di uno sconosciuto americano, per scoprire che era il nipote di Harvey Milk, il politico interpretato da Sean Penn nel film biografico di Gus Van Sant. Voleva dargli quattro lettere dello zio. E si sono incontrati a Milano. Poi mi passa sotto gli occhi un numero di Topolino. Copertina dedicata al Festival. Apri e c’è la storia: La magica giornata della posta ritrovata. Certificazione pop assoluta.

“Capitano cose che spiazzano. Ed esaltano.”

Ho letto ci saranno fuori concorso Lettere dal carcere.

“Le lettere sono una delle poche cose che esce dal carcere. E quest’anno abbiamo coinvolto la casa penitenziaria di Busto Arsizio, con il diversivo ludico della birra fatta dai detenuti, dal nome inequivocabile: Prison Beer.”

Fa molto Topolinia.

“Ma le lettere sono pesanti, gente in 41 bis. Alcune non si possono raccontare.”

Non è Mare fuori, insomma. Anche se tra gli attori che leggeranno c’è Ludovica Coscioni, attrice della serie. Come invitare una popstar. Immagino una folla di ragazzi fuori da Villa Clerici.

“Può essere, loro sono davvero seguitissimi. La serie è ambientata in un carcere minorile, e secondo me la sfida sta nel dare a questa ragazza, che il carcere l’ha solo recitato, una lettera scritta veramente da dietro le sbarre e vedere come saprà interpretarla fuori dalla fiction.”

La realtà scritta in corsivo.

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