Pascal Dagnan-Bouveret, “Il duetto”, 1883 (Wikipedia) 

il racconto

Il pianista con tre mani

Francesco Palmieri

Così Napoli riscopre la memoria del grande Sigismund Thalberg: uno studio svela la sua mummia immacolata

Fosse per curiosità morbosa o per incongrua compassione, difficilmente capiremo cosa infondeva il coraggio di accettare un invito a cena nella villa di Francesca Lablache a Posillipo, che in quegli anni settanta dell’Ottocento offriva ancora ai pittori i paesaggi più leggiadri di Napoli. Coraggio ne occorreva parecchio perché la signora, prima che i camerieri servissero il pasto, rimuoveva delicatamente il corpo imbalsamato dell’adorato marito dalla bara di cristallo appoggiata a una parete del salone. Quindi lo accomodava a capotavola, vestito con l’impeccabile gusto dell’uomo di classe che si giudica dai dettagli: fermacravatte col diamante, preziosi gemelli da polso e guanti bianchi per celare le impareggiabili mani di colui che era stato il più grande pianista del secolo.

Il macabro cerimoniale per Sigismund Thalberg, austriaco nato a Ginevra nel 1812 e morto a Napoli nel 1871, si protrasse sei anni e otto mesi: dal 29 novembre 1872 al 26 luglio 1879, quando la polizia, non potendo più ignorare, obbligò la vedova a traslare la salma nell’imponente cappella edificata nel frattempo al cimitero di Poggioreale. Pochi giorni dopo, il 10 settembre, la città omaggiava l’artista con l’inaugurazione di un monumento che tuttora signoreggia in Villa Comunale. “Le onoranze che gli furono tributate resteranno fra le più clamorose tra quante ne abbia mai immaginate il secolo d’oro della retorica funebre”, scrisse Vincenzo Vitale, grande esponente della “scuola pianistica napoletana” che rivendica proprio Thalberg come suo precorritore. Il musicista austriaco “fu troppo incandescente meteora perché la scia immediata del suo passaggio non brillasse di tutte quelle esteriorizzazioni del sentimento che il costume dell’epoca generava senza risparmio”. Poi però calò su di lui un progressivo silenzio, a differenza della fama che presso i posteri non ha mai volto le spalle a Franz Liszt, “l’avversario” con cui Thalberg si misurava davanti alle platee mondiali. Memorabile restò la sfida parigina del 31 marzo 1837, promossa dalla principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso per raccogliere fondi a favore dei rifugiati politici italiani. Alla fine i tifosi di Thalberg lo acclamarono “premier pianiste du monde”, mentre quelli dell’altra fazione ribattevano “mais Liszt est le seul!”.

Questione di musica, sì, ma anche di scelta stilistica nel sempiterno contrasto fra l’incandescente e l’algido, tra irruenza solare e delicatezza lunare. Nelle esibizioni dal vivo “Liszt lasciava intontiti e stupefatti gli ascoltatori non solo per le sue intrinseche doti di virtuoso e di musicista”, spiegava Vitale, “ma anche per la prova di resistenza cui sottoponeva gli strumenti, gesticolando, scuotendo la testa leonina, dimenando e squassando il corpo”. Thalberg al contrario ostentava “angelica, quasi impassibile tranquillità” increspata soltanto da un lieve rossore e da movimenti minimi delle labbra nei più impetuosi passaggi esecutivi, quelli per cui conquistò, grazie alla particolare diteggiatura che aveva elaborato, il soprannome di “pianista con tre mani”. Purezza di stile e bellezza di tocco senza impiegare il peso delle braccia né la spinta del busto, con la “gran sobrietà nei movimenti del corpo” che avrebbe raccomandata “ai giovani artisti” nell’opera L’art du chant appliqué au piano.

Ritiratosi dai concerti per votarsi alle cure del vigneto napoletano che suo suocero, il cantante Luigi Lablache, aveva lasciato alla figlia Francesca, Sigismund consegnò gli ultimi anni di vita e quelli dopo all’incandescente e algida, irruente e delicata Partenope, che con i suoi resti mortali “tenet nunc” quelli di altri illustri forestieri come Virgilio e Giacomo Leopardi. Mentre li onora se li dimentica e mentre li sfregia se ne ricorda. Si sa così che i turisti visitano da secoli uno scabro colombario dove solo per ipotesi le ossa del poeta latino sarebbero state deposte illo tempore. E che un mistero pure avvolge le spoglie assai più recenti del genio recanatese, di cui quasi più nulla si trovò quando furono trasferite a Piedigrotta nel 1938 per sistemarle in un sacello prossimo a Virgilio, né fu mai fatta luce sulla sparizione del suo cranio, già constatata in una ricognizione della prima sepoltura alla chiesetta di San Vitale. E’ accaduto il contrario per Thalberg grazie alla follia di una vedova e alla cupa sapienza dell’anatomista sardo Efisio Marini, il quale preservò quel corpo dalla corruzione grazie a un procedimento di cui non volle svelare la formula, chiudendo i propri giorni tra l’estrema indigenza e un’incipiente pazzia nell’anno 1900 a Napoli, dove la sua perizia di mummificatore aveva lenito i lutti di diverse famiglie.

Eppure, se la vicenda Thalberg oggi riemerge dal dimenticatoio, si deve proprio a uno sfregio partenopeo: la profanazione della tomba nel marzo del 2017 (un furto sacrilego turbò pure i sepolcri di eminenti figli della Sirena come Enrico Caruso e Totò, ma per entrambi con resipiscente restituzione del bottino). I ladri violarono il tempietto thalberghiano per trafugare l’ottone che ornava il suo sarcofago e quello di Francesca Lablache, sicché nell’ottobre 2020 la paleopatologa Marielva Torino, dell’Università Suor Orsola Benincasa, fu autorizzata da donna Giulia Ferrara Pignatelli, discendente naturale del pianista, a eseguire un esame della salma prima della risistemazione. Centocinquant’anni dopo, la scienziata ha confermato gli strabiliati giudizi espressi dai testimoni sui giornali del 1872: “Una conservazione perfettamente riuscita, una reliquia laica, una testimonianza d’amore che mi commuove appena ci ripenso”, ricorda la professoressa Torino, aggiungendo che il corpo di Thalberg è stato nuovamente accomodato nel tessuto damascato sotto cui riposava, tranne il capo e la mano destra tenuti scoperti per volontà della moglie e pertanto lasciati così.

Per un virtuoso effetto di quel furto sacrilego, è scaturita una indagine condotta a più cuori e raccolta in un volume approdato in libreria il 13 gennaio scorso, che è oggetto di ulteriore sorpresa considerando la valenza dell’artista nella storia della musica: perché non esisteva, prima di questa, alcuna monografia su di lui. In nessuna lingua. Il segreto di Sigismund Thalberg – Il pianista che suonava con tre mani, pubblicato da Colonnese Editore, è firmato da Marielva Torino, dal decano dei musicologi italiani Piero Rattalino e dal pianista Francesco Nicolosi, allievo di Vitale e fondatore del Centro Studi Internazionale Sigismund Thalberg. L’opera è stata curata da Candida Carrino, direttrice dell’Archivio di Stato di Napoli dove i ricercatori hanno scovato il testamento olografo del musicista, che illumina significativi dettagli e che fu rinvenuto nell’esatto giorno dei centocinquant’anni dalla morte, il 27 aprile 2021 (gli scettici ostinati parleranno senza dubbio di “casualità”).

I particolari della vicenda ereditaria nulla invidiano ai coevi feuilleton: le ultime volontà del musicista furono stilate a Vienna otto anni prima del decesso e affidate a un amico d’infanzia, con l’esplicito desiderio che fossero le leggi austriache a regolare la successione e che il suo corpo fosse sotterrato, “in modo semplice e senza sfarzo”, dopo avere “con tutti i mezzi della medicina assicurata con certezza la mia morte per non correre il rischio di essere seppellito ancora vivo”. La vedova, come sappiamo, ignorò; né si curò di una lettera fuori del testamento con cui il marito le dettava in via riservata disposizioni a beneficio di una imbarazzante erede, Nazzarena, che al momento della sua scomparsa aveva tredici anni. Nata nel 1858 a New York, era frutto di una relazione extraconiugale con la figlia diciottenne del contralto Elena d’Angri, che accompagnava Thalberg durante una trionfale tournée americana. Il grande giro di concerti, circa 350 in un anno e mezzo di cui 50 nella sola New York, gli aveva procurato una fortuna equivalente a tre milioni di dollari attuali, ma la miniera d’oro venne bruscamente chiusa quando Francesca Lablache, informata dell’incidente sentimentale, attraversò l’oceano per riportarsi indietro il marito, assieme al leggendario pianoforte a coda Erard e alla conculcata dignità matrimoniale. Troppo tardi però: Nazzarena detta Zarè (ava di donna Giulia Ferrara Pignatelli) sarebbe stata sempre registrata sui certificati con il cognome del padre naturale.

Mentre Francesca affidava il corpo di Sigismund alle cure del dottor Marini, divampava una duplice contesa giudiziaria e umana sul cospicuo patrimonio del defunto: la prima, che opponeva i tribunali di Napoli e Vienna, assunse aspri risvolti diplomatici con l’intervento della Legazione austroungarica; la seconda si disputò tra la vedova e Elena d’Angri, accorsa a rivendicare i diritti della nipotina Nazzarena. Francesca Lablache vinse entrambe le battaglie: la pratica legale fu sbrigata nella patria di Thalberg con un esiguo versamento di tasse in Italia; la bambina restò esclusa dalla successione grazie a un atto notorio compilato con la falsa testimonianza di tre frati cappuccini, secondo cui il musicista era trapassato “senza aver lasciato ascendenti né discendenti di sorte alcuna”. La vedova si sarebbe ravveduta solo alla propria morte, nel 1895, lasciando a Nazzarena una somma di cinquecentomila lire (due milioni e 214 mila euro di oggi) e il pianoforte a coda, ma assicurandosi che non sarebbe stata sepolta nel tempietto di Poggioreale. E così fu.

Curiosando fra le intime vicende trapelate dalle magioni napoletane, si può appurare che il caso di Francesca Lablache non fu l’unico di illustre follia vedovile. Elisa Avigliano, sopravvissuta a Salvatore Di Giacomo, trascorse gli ultimi anni nella casa di via San Pasquale a Chiaia imboccando con regolarità un personaggio raffigurato su una tela settecentesca prediletta dal poeta. E rinomanza triste conseguì Sabina Frattarola, che girava velata per la città con la fotografia del defunto marito, lo scultore Eduardo Rossi, appesa al collo. Nell’estate 1930, quattro anni dopo il lutto, la vedova come una Miss Havisham dickensiana ma all black ricevette il giornalista Roberto Minervini nel suo appartamento a Palazzo Donn’Anna (l’edificio sul mare noto per le leggende di fantasmi e perché vi abitò da ragazzo Raffaele La Capria, che lo descrisse in Ferito a morte). In una stanza “dai balconi chiusi, soffocati dalle tende di damasco, vidi, al centro, come un catafalco, un altissimo letto dalla coltre bianca, a merletti, che il tempo aveva ingiallito. Su quella coltre polverosa, cosparsa di fiori e foglie marciti, taluni ridotti in polvere come tabacco, era stata esposta la salma del fu Eduardo Rossi, fra quattro ceri che ancora si trovavano lì, consumati a metà, nei loro candelieri di legno argentato”. E Minervini, senza dire parola, scappò.

Non sempre, però, è sufficiente fare appello ai costumi di un’epoca per inquadrare alcune circostanze. Sicuramente non quella che segue, per la quale chi scrive delega al lettore le risposte non avendone di proprie. Pubblicato nel 1851, vent’anni prima della morte di Thalberg, il romanzo Il mio cadavere di Francesco Mastriani è reputato da Luca Crovi il primo esempio di narrativa poliziesca italiana assieme a Il cappello del prete di Emilio De Marchi (entrambi ambientati a Napoli). Le pagine più sconcertanti del libro sono quelle in cui il baronetto Edmondo, ossessionato dal timore di essere sepolto vivo, stringe un “bizzarro contratto” con il pianista Daniele de’ Rimini, che diventerà erede delle sue enormi sostanze a patto di custodirne per nove mesi il cadavere imbalsamato, cui “ogni giorno se gli cambierà la biancheria, ed ogni settimana i vestiti”; in più gli suonerà tutte le sere un pezzo al piano e gli canterà un’aria di sua scelta dopo avergli servito il caffè. Senza altro rivelare del libro per chi volesse leggerlo, le assonanze con la storia di Thalberg sono evidenti né si esauriscono qui. La letteratura spesso precede (o produce) la realtà. Perché avvenga è mistero, ma come afferma la direttrice dell’Archivio di stato “ben vengano le storie dimenticate”.

P.S. sbaglierebbe chi ricavasse dalla pagina l’impressione che il delirante amore vedovile abbia avuto solo muliebre connotazione. Marielva Torino ci informa di una “Biancaneve napoletana”, capolavoro del dottor Marini, nelle fattezze ancora intatte di donna Marianna de’ Sangro duchessa di Bagnoli, morta a soli trent’anni il 10 febbraio 1887 lasciando tre figli e un marito che, adagiatola in un sarcofago di cristallo con lo sportello a scrigno, probabilmente andava a parlarle anche dopo. Che tutte le anime qui ricordate o scomodate requiescant in pace.

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