Un murales di Masaniello con il volto di Pino Daniele in piazza Masaniello (Ciro Fusco/Ansa) 

Chi vuol essere Masaniello, paragone immortale per tutti gli arruffapopolo

Francesco Palmieri

Una “Revolution” che Sal Da Vinci mette in scena al teatro Augusteo, parabola di chi vorrebbe aprire le istituzioni come scatolette di tonno ma si ritrova chiuso dentro

Non fatevi ingannare: nessuno dei cento volti con cui lo hanno raffigurato è veramente il suo. Ciascuno lo ha effigiato come più gli conveniva o gli piaceva. Né lasciatevi confondere dai cento volti – o forse mille – cui il suo nome è sovrapposto: per restare alle notizie degli ultimi giorni, è stato associato a Elon Musk, a Diego Armando Maradona, al deputato verde Francesco Emilio Borrelli e lo sarebbe a chi di voi domani decidesse, per esempio, di promuovere una petizione popolare per invertire il senso di marcia nella strada in cui abita. Alludiamo a Masaniello, il pescivendolo napoletano che capeggiò l’effimera rivolta contro i soprusi fiscali e sociali nel viceregno spagnolo per dieci giorni del luglio 1647, al quale il potere di vita e di morte conquistato all’improvviso diede alla testa e gliela fece perdere. Prima con la pazzia, poi in senso letterale. Osannato, deprecato e riosannato dalla stessa folla che lo decapitò e subito dopo lo pianse.


 

 

Musk è “il Masaniello di Twitter”, Maradona “il più grande Masaniello di Napoli”. E si parva licet Borrelli, il quale avendo denunciato l’occupazione abusiva di uno stabile precisa: “Non sono un Masaniello, ma basta prepotenze”. Perché peculiarità di chi diventa provvisorio titolare di quel nome di persona trasformato in sostantivo è respingere l’attribuzione: “Non sono Masaniello ma…” ha dichiarato agli inizi del mese il più papabile al ruolo, il leader dei Cinque stelle Giuseppe Conte, visitando Scampia dove la difesa del reddito di cittadinanza ha premiato il Movimento come in quell’estate del Seicento la richiesta di abolizione delle gabelle, su frutta fresca e frutta secca, premiò il rivoltoso di piazza Mercato. E “non sono Masaniello” proclamò a più riprese – incluse scaramantiche ragioni – Luigi de Magistris che difatti durò un po’ di più dei dieci giorni dell’illustre referente. Dieci anni a Palazzo San Giacomo. Chissà en passant cosa pensano, i succitati, dell’opposta aspirazione di Benedetto Spinoza, che sorprese persino l’altro Benedetto filosofo, Croce, il quale riportò l’accertata notizia del “savio e santo” olandese vagheggiante con simpatia “la figura dello scalzo pescivendolo napoletano”, al punto da farsi ritrarre come lui dentro la veste a tela e col berretto a forma di calza rovesciata. Perché nel passato, anziché ricalcare il capopolo più emblematico della Storia salvo rinnegarne il confronto, tanti e tali avrebbero voluto essere Masaniello se solo avessero potuto.
Persino i nobili e i borghesi della Repubblica napoletana del ’99, collocati per censo, ideologia e aspirazioni all’opposto di Tommaso Aniello d’Amalfi detto Masaniello, lo spacciarono come un precursore (lui che fu, come da sempre la plebe di Partenope, monarchico convinto). Per non parlare dei belgi, ai quali invece riuscì la rivoluzione che li rese indipendenti e che scoppiò una sera di fine agosto del 1830 quando videro al Teatro de la Monnaie a Bruxelles l’opera di Daniel Auber La muta di Portici, dedicata all’epopea del ribelle. Dalla piazza al palcoscenico, dal palcoscenico alla piazza, secondo il pendolo della misteriosa legge di corsi e ricorsi che non a caso fu ancora un filosofo napoletano a teorizzare, il mito laico di Masaniello fa satira di se stesso proprio in queste settimane all’Augusteo, eminente teatro napoletano, con la commedia musicale Masaniello Revolution, mattatore Sal Da Vinci, messinscena di Ernesto Lama, diciottomila biglietti già venduti fino al 15 gennaio, ultima replica. La vicenda è trasposta ai giorni nostri quando il commerciante di pesce surgelato Tommaso, stanco delle vessazioni fiscali, del pizzo alla camorra e della burocrazia si ribella e si fa un partito suo con cinque àncore nel logo – perché ogni riferimento non è puramente casuale. Vorrebbe aprire i palazzi della politica, restando nella metafora da pescivendolo, come le scatolette di tonno, ma una volta assaggiato il potere rischia di ripetere la fine dell’illustre e sventurato archetipo (o di assai più recenti emulatori). “E’ un testo di attualità sconvolgente perché attualissimo resta il personaggio di Masaniello”, spiega il coautore Ciro Villano, “ma i più ricordano solo la prima parte del suo mito, quella della rivolta, e dimenticano che quando ebbe potere di vita e di morte il pescivendolo cominciò a uccidere, così come in Masaniello Revolution, quando Tommaso prende l’80 per cento dei voti, il potere gli dà alla testa e non vuol ragionare con gli altri politici ma poi… non sveliamo il finale”. Per carità. Ricordiamo solo quanto scrisse nell’Ottocento il dovizioso storico Bartolommeo (due emme) Capasso dopo accurate ricerche: “Ed era pure meravigliosa cosa notare con quanta prontezza e con che cieca obbedienza i suoi ordini, anzi i suoi cenni, erano eseguiti. Una leggiera fregatina di collo fatta coll’indice della mano era sentenza del tagliamento del capo; il pollice uncinato e premente il disotto della mascella era più sentenza che indizio di forca”. “Insomma quel misero plebeo era divenuto”, raccontò il cardinale di Napoli al Papa, “un re in questa città, ed il più glorioso e trionfante che abbia avuto il mondo”.
 

“Dopo quattrocent’anni le cose sono molto diverse?” si domanda Sal Da Vinci, che ha provinato per lo spettacolo 300 ragazzi, lo stesso numero di quanti si radunarono, armati di canne, al primo scoppio della rivolta di Masaniello. “No, non sono molto diverse. La signora che rimestando il ragù decide di votare un candidato perché promette di cambiare tutto, ma poi s’accorge che non ha cambiato niente, non assomiglia al popolo che vide Masaniello fasciato nella tunica d’argento sedersi a tavola col viceré, manovrato dagli stessi ‘poteri forti’ contro cui s’era ribellato? La politica è difficile, si sa, ma chi promette dovrebbe mantenere buona parte degli impegni e se una cosa non l’ha fatta spiegarne la ragione”. S’aggiunga l’incostanza degli affetti collettivi, a Napoli più accentuata che altrove, per cui sembra profeta chi ne ha semplicemente appreso i volubili diagrammi. Nel 2011 il compianto Francesco Durante scrisse del trionfo di de Magistris con la bandana arancione in piazza Municipio, della “naturale sintonia con i suoi sostenitori, treccine rasta e t-shirt col faccione del Che, popolo viola col Fatto Quotidiano sottobraccio, musica rap e grandi smanettamenti su internet”; e rievocò anticipando il futuro “certe parabole dagli esiti fatali, che poi s’assomigliano tutte: dalla proclamazione di una santità all’apostasia, dal trionfo al momento in cui si leva una voce e formula la domanda retorica che segna il passaggio dalla fase adorante a quella dissacrante: ‘Ma chillo, po’, ch’ha fatto?’”. “I rischi di chi riesce a diventare la bandiera della città di Napoli”, ammoniva Durante, “sono dunque chiarissimi, poiché tutte le bandiere che oggi garriscono dai pennoni più alti potrebbero un giorno cadere nella polvere”. (Certo, una decina d’anni dopo ci fu il coro degli “io l’avevo detto”).

Nei vorticosi giri della Rota Fortunae ci sono poi i maestri che restano dietro le quinte, quelli che indottrinano i Masaniello e quando il capopopolo si lascia prendere la mano si sfilano. E’ certezza degli storici che il cervello della rivolta secentesca, l’ispiratore del pescivendolo, fu l’anziano giurista Giulio Genoino, un Casaleggio ante litteram che quando la creatura inebriata dal potere non gli obbedì più contribuì a farne rotolare la testa pazza. Sempre però nell’ombra perché all’indomani dell’assassinio di Masaniello, all’immediato rincaro del pane, la plebe nuovamente glorificò il ribelle, ne ricucì il capo al corpo e rivestitolo di panni sontuosi gli celebrò un santificante funerale di massa. Era nato il mito, forse lo spettro, che ancora s’aggira per l’Europa o almeno per le vie di Napoli tentando – questo è il mestiere dei fantasmi –  l’incorporazione in un sempre diverso personaggio. (Parentesi leggera: Masaniello è anche il nome par excellence nei pedigree dei mastini napoletani, di cui fu emblema, come Lassie per i Collie e Rin Tin Tin per i pastori tedeschi, il molosso appartenuto nel secondo dopoguerra al popolano Giacchettella, protagonista di imprese immortalate dalle cronache cinofile).

 

Dalla piazza al palcoscenico, dal palcoscenico alla piazza. Perché il teatro fa rivivere i fantasmi come il presepe la natività. Quel che accadde in Belgio nel 1830 si sarebbe ripetuto a Napoli su scala minore nel 1974, sorprendendo gli stessi autori e interpreti del Masaniello di Elvio Porta e Armando Pugliese, musiche di Roberto De Simone, protagonista Mariano Rigillo. Lo spettacolo esordì timidamente alla Certosa di San Martino il 9 agosto, tre giorni prima che al termine di un ennesimo giro di poltrone l’ingegnere democristiano Bruno Milanesi accettasse la carica di sindaco. Era una delle ore buie di Partenope, quelle in cui per dirla col Pilato di Bulgakov le tenebre giunte dal Mediterraneo avvolgevano la città: mortificata dal colera un anno prima, con Palazzo San Giacomo assediato dai cortei di disoccupati e senzatetto, tra la nascita dei Nuclei armati proletari e la guerra fra contrabbandieri. “Il nostro Masaniello, per la potenza del testo e delle musiche, rappresentò l’invito a una seria riflessione sulla condizione del popolo di allora, quello del Seicento e del ’74”, ricorda Rigillo con un piacere che quasi cinquant’anni dopo non s’è affievolito. “Volevamo dimostrare che Napoli non era solo un luogo di ricezione passiva della Storia, ma di riscatto”. E avvenne la magia del transfert: mentre Masaniello/Rigillo metteva a morte sulla scena i profittatori del suo tempo, dal pubblico si levavano i nomi dei politici locali del ’74 con una confusione emozionale che sfociò in tumulto quando la troupe fu invitata a replicare lo spettacolo a Palazzo Reale, nel Cortile delle Carrozze. “Il sindaco commise l’errore di organizzare la prima serata per inviti, sicché in piazza Plebiscito si addensò una folla che protestava per l’esclusione. Perciò la sera successiva”, prosegue Rigillo, “lo spettacolo fu aperto a tutti”. Eccitati dal Masaniello, al termine gli spettatori diedero vita a una violenta manifestazione contro il sindaco che si concluse con l’intervento della polizia. La protesta da finzione scenica s’era rifatta realtà. “Sono convinto che il nostro spettacolo funse da testa d’ariete per la prima giunta di sinistra che presto avrebbe governato Napoli”. Dopo le elezioni amministrative del giugno seguente, e 104 giorni di trattative, s’insediò difatti il comunista Maurizio Valenzi che avrebbe retto la città per otto anni.

 

 

Si capisce, parlando con Rigillo, cosa diede potenza al suo Masaniello e ancora gliene dà, ma il paragone offenderà vieppiù i masaniellidi politici già riluttanti ad accettare l’eredità del loro archetipo. Ossia la sua natura pulcinellesca: “La sbruffonaggine, che non è sempre negativa ma è anche accattivante, una sorta di caustica comicità di cui ostentava l’uso quel rivoluzionario anche quando stava spargendo sangue”. L’intuizione la manifestò forse per primo Antonio Ghirelli, nella Storia di Napoli che uscì pochi mesi avanti lo spettacolo e influenzò la recitazione di Rigillo. Andiamo a rileggere cosa aveva scritto: Masaniello è “il primo personaggio storico che riassuma intensamente, anche se ad un livello istintivo e con tutti i condizionamenti possibili, l’essenza della napoletanità, ossia il primo napoletano che si presenti in un preciso contorno storico con una personalità fortemente caratterizzata da quello stesso ambiente di cui, sulle scene, Pulcinella è stato e sarà la maschera emblematica”. Cosa curiosa, ennesima testimonianza che in certi momenti un’idea vaga nell’aria viene catturata da più teste, fu pubblicato nel marzo del ’74 – fra il libro di Ghirelli e lo spettacolo – il romanzo di Luigi Compagnone Ballata e morte di un Capitano del Popolo, in cui Masaniello è completamente riassorbito nel Pulcinella Cetrulo protagonista.

Così, sfruttando tali precedenti artistico-letterari, abbiamo almeno stabilito che se chiamare qualcuno Masaniello non porta querela, tampoco la giustifica quando lo definite un Pulcinella. Per proprietà transitiva. O forse no.

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