La recensione

Scommemorare Giorgio Manganelli

Luigi Azzariti-Fumaroli

A cento anni dalla nascita due volumi ricordano lo scrittore di "Centuria" e di "Lettetarura come menzogna", colui che “con le sue proposizioni “non verificabili” e le affermazioni 'prive di senso, ha inventato inesauribili universi"

Quantunque una “narratività senza narrazione” fosse una possibilità che l’attraesse, precipitato di quell’idea sterniana della letteratura che ha attraversato con la sua purezza aerina tutta la letteratura europea giungendo fino a lui, Giorgio Manganelli non sembrò mai volersi limitare a “raccontare senza avere niente da raccontare”. E se con l’ultimo suo libro, Encomio del tiranno, egli ha ottenuto lo scopo di scrivere qualcosa non dicendo niente, neppure con esso Manganelli sembra aver ottenuto replica all’interrogativo che chiede come può, e a quale prezzo, un autore cercare di cogliere il proprio non detto. Si tratta peraltro d’una domanda posta soltanto per rendere più esplicita l’assenza di risposta, dal momento che il modo in cui un autore lascia apparire il suo non detto senza formularlo definisce inevitabilmente il rango di tutto ciò che dice. In tal senso può sostenersi – ha di recente notato Giorgio Agamben, filosofo al quale Manganelli presta a più riprese attenzione, venendone con joy d’amor ricambiato – che “in ogni libro vi è un centro per allontanarsi dal quale – per lasciarlo non detto e indelibato, pur dandone in qualche modo testimonianza – esso è stato scritto”.

 

Manganelli esplicita il significato di questa aposiopesi, reticenza, contornandola con una messe idealmente infinita di parole, costituenti un sistema retorico che si presenta come un modo che associa sostantivi e aggettivi, affinché i primi possano sbocciare “nella jungla acquitrinosa dell’espressione”, a sua volta percorsa da “certi aggraziati salti irrazionali, non riducibili a statistica, meravigliosamente vitali e inquietanti”. Una misteriosa, emblematica epifania di parole, raggrumatasi in significati eterogenei costituirebbe allora la trama della letteratura, quale artificio universale che “possiede e governa il nulla” nella misura in cui ne è posseduto.

 

Come rileva Michele Mari in uno dei contributi raccolti nell’ultimo numero di Riga 44. Giorgio Manganelli, (a c. di A. Cortellessa e M. Belpoliti, Quodlibet, Macerata 2022, pp. 514, euro 26) a Manganelli dedicato, se uno dei più saldi principi estetici è la corrispondenza fra la cosa e la forma, qualora si accettasse la convinzione manganelliana secondo la quale è illogico supporre esistente l’universo, essendo il nulla assai più ragionevole, occorrerebbe riconoscere come realistica quella letteratura che si proponesse di inventariare il nulla sfiorato dalle parole, che assumerebbero perciò il valore d’una “reliquia”, offrendosi alla lettura come “segno presente d’una cosa morta”. Troverebbe qui spiegazione – suggerisce, proponendo un confronto con Landolfi, Mariarosa Bricchi, sempre su “Riga” – l’attitudine di Manganelli ad avere un certo commercio con le parole desuete, scelte non per omaggio ad uno sterile purismo, ma perché capaci di evocare quanto giace nascosto ed esangue “nel grembo del linguaggio”, là dove si consuma “un colloquio con dei fantasmi”, che non sono da intendersi alla stregua di allusive visioni terrorifiche, ma d’una mancanza. È infatti “l’assenza il nucleo della vita fantasmatica”.

 

Per questo motivo chi intenda commemorare Manganelli oggi, a cento anni dalla nascita, anziché limitarsi a specillare le pagine dei romanzi, delle poesie, delle raccolte antologiche o della gran messe d’inediti, dovrebbe curarne la memoria per commenta (e commentum in latino significa “finzione” e “invenzione”). È quanto si propone di fare Andrea Cortellessa in “Filologia fantastica. Ipotizzare, Manganelli”, appena pubblicato da Argolibri. Dopo le ventisei piccole monografie manganelliane raccolte in “Il libro è altrove” (Sossella, 2020), Cortellessa (al quale, con Marco Belpoliti, si deve pure la cura dei Manga-fascicoli di “Riga”: di quello già menzionato e di quello apparso nel 2006 per Marcos y Marcos) torna a riflettere su Manganelli con le risorse che gli provengono più ancora che dal percorrere “itinerari marginali” e “lisci cunicoli” testuali, dal permiscere l’acribia del filologo con la sagacia del deduttore, onde restituire l’immagine dell’autore di “Hilarotragoedia” sotto il segno della “descrizione compendiosa e simbolica di una serie di mosse”: d’una congettura, d’una speculazione che espone l’opera di Manganelli (e la sua stessa figura) ad un’infinita interrogazione, ad una asintotica tensione all’effabilità di tutte le ipotesi possibili. Il che in primo luogo avviene in virtù di un mimetismo ermeneutico, se non d’autentica imitatio, che aderisce al testo lasciandolo “pressoché nudo a fine d’ingannare”, nella consapevolezza che “il suo linguaggio fu quasi il nostro”, ma che ora non potrà più esserlo. Infatti – osserva ancora Cortellessa –, non appartenendo, per Manganelli, l’alternativa vero/falso alla letteratura, questa non potrebbe che sprofondare in se stessa, così da porre le premesse per finalmente uscirne – se solo si potesse.

 

La letteratura come pensata da Manganelli, con le sue proposizioni “non verificabili” e le affermazioni “prive di senso”, inventa inesauribili universi dai quali sarebbe possibile allontanarsi solo per trapassare in altri, sicché la costante, lacerante coazione a ripetere toglierebbe ogni speranza di tregua, e neppure la morte potrebbe pacificare, risolvere, concludere; anzi, “è forse appunto la morte il verbo reggente senza il quale tutte le proposizioni perdono di senso”: il non-ineffabile della letteratura, il suo essere, nel senso stretto e originario del termine, “favola”, la consegna ad un linguaggio del simulacro che mette in scena un dire che afferma tutto simultaneamente e simula senza fine l’opposto di ciò che dice.

 

Segue questa medesima logica quanto Manganelli scrive a proposito d’ogni commemorazione che lo vedesse protagonista, e la sua conseguente proposta di celebrare, a contrario, la propria “scommemorazione”. Questo rito, in quella quinta della mia vita che è stata ed è tutt’ora Piazza Cardinal Ferrari, dove, come si apprende dall’affettuosa biografia scritta dalla figlia Lietta, “Giorgio Manganelli. Aspettando che l'inferno cominci a funzionare” (La Nave di Teseo), lo scrittore visse nella sua infanzia milanese, l’ho officiato spesso anch’io, domandandomi quale fosse la casa “ancora esistente” nella quale Manganelli aveva vissuto, ed alla quale andrebbe forse assegnato il medesimo statuto ch’egli ipotizzava spettasse alla Casa Usher di Poe: quello d’una fantasia che accoglie e salda in sé parodia e terrore senza creare dissonanze, e che si presta perciò ad essere oggetto d’una liturgia, ovvero d’un mysterion.