L'intervista

Jhumpa Lahiri ci racconta la sua "magnifica ossessione per Roma"

Giuseppe Fantasia

"È stato proprio nella Capitale che ho iniziato a scrivere i miei racconti, finito poi sul New Yorker". Il colloquio con la scrittirice Premio Pulitzer, in visita a Pordenone

Ci sono amori che nascono a prima vista, che si costruiscono e si fortificano nel tempo. Anni fa, Jhumpa Lahiri – scrittrice di successo insignita da Obama nel 2015 della National Humanties Medal, autrice di otto libri e vincitrice di numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Pulitzer nel 2000 e il recente Premio FriulAdria alla 23esima edizione di Pordenonelegge – è arrivata a Roma e non l’ha più lasciata. “O meglio: ho iniziato a fare da spola con gli Stati Uniti, ma il mio cuore batteva sempre molto forte per la vostra Capitale”, spiega al Foglio in un hotel della città friulana. “È stato proprio a Roma che ho iniziato a scrivere i miei racconti, a cominciare da Il confine, ad esempio, scritto già nel 2014 e pubblicato anche sul New Yorker”. Il risultato di quel lavoro e di quell’attesa, sono i Racconti romani appena pubblicati da Guanda come tutti gli altri suoi libri, l’ultimo dei quali, l’autrice del fortunato L’interprete dei malanni, ha deciso di scrivere direttamente in italiano, operazione non certo facile per una londinese nata da genitori bengalesi. “Scrivo nella lingua di Dante per ottenere un contatto più puro con l’anima e con la realtà che mi circonda”, ha dichiarato altre volte e ce lo conferma anche in questa. E a proposito del grande poeta, uno di quei racconti, l’ultimo, si intitola Dante Alighieri, “perché è il mio faro – precisa - perché Dante è il poeta italiano/simbolo della lingua, della poesia, del viaggio che facciamo tutti noi, della condizione dell’esiliato che lui stesso ha vissuto sulla propria pelle, delle distanze, delle separazioni dalla propria lingua, del dolore di trovarsi fuori luogo”.

Della condizione umana con i suoi pregi e difetti, con i suoi vizi e virtù, ci permettiamo di aggiungere.

Certo. Degli errori e dei peccati, della via sbagliata, del bivio, del ‘dove mi trovo’, del ‘dove vado’.

Dove va adesso Jhumpa Lahiri?

Torno finalmente e felicemente a Roma (ci sorride, ndr).

Una città, una sua magnifica ossessione. In uno dei racconti, Le feste di P., una donna dice di suo marito che amerebbe vivere lì per sempre: lo vorrebbe anche lei?

(Sorride di nuovo, ndr) Anche nel mio caso è così. Cerco in tutti i modi di stare a Roma. È una città in cui voglio tornare e in cui ho scelto di vivere insieme a New York dove insegno al Barnard College della Columbia University. Amo viaggiare per l’Italia, ma Roma è un’altra cosa. L’altro giorno ero a Trieste con mio marito, siamo stati benissimo, ma quando lui mi ha chiesto come sarebbe stato per me vivere lì, gli ho risposto con un solo aggettivo: impensabile. Questo per dire che c’è per me solo Roma. Roma è per sempre.

Eppure, in uno dei suoi racconti scrive che è la città “dove tutti tradiscono tutti”

Basta tornare a Giulio Cesare: il lato oscuro Roma ce l’ha nel suo DNA. La storia lo dimostra.

Il male e l’oscuro che affascinano. Cos’è per lei il male?

Oltre alle cose più ovvie, pandemia e guerre comprese, per me il male è l’identità, la questione di un’identità così netta, l’identità che chiude le porte agli altri. Questo per me è un grande problema come il ‘noi siamo noi e loro sono gli altri, per cui noi siamo qui per la nostra identità’. L’identità è un lavoro in corso per tutti.

C’è un modo per risolvere questo problema?

Bisogna ridefinire certe parole e capire che siamo tutti stranieri, che dobbiamo apprezzare l’altro che esiste dentro di noi.

Il 15 settembre non voterà in Italia, però dalle sue parole capiamo già chi non voterebbe mai

Non mi piacciono certe forme di chiusure e di discriminazione totale, il razzismo che si perpetua oggi giorno sia fisicamente che verbalmente. Io andrei verso un futuro per l’Italia in cui gli italiani capiscano finalmente la definizione di nazionalità che è essa stessa un concetto, che capiscano davvero chi è italiano. Non guardo mai la tv, ma in questi giorni che sono in hotel, l’ho accesa e mi ha colpito molto una pubblicità con dei giovani che parlano della loro prima esperienza di voto, ma sono tutti bianchi. Come mai? Ci sono invece tanti ragazzi giovani nati e cresciuti a Roma, in Italia, che sono italiani e non voteranno domenica prossima, questo non è giusto. Hanno genitori che provengono da altri Paesi e non votano: perché? Da anni parlo di ius soli: almeno chi nasce, chi va a scuola e chi ha una formazione italiana, è italiano. Punto. Altrimenti questo Paese non va avanti.

Altri difetti?

Certe parole ed espressioni in italiano, anche a Roma, non le sopporto. ‘Vado dal mio indiano’, oppure: ‘viene la mia filippina’. Sono espressioni che fanno parte del lessico e che tutti capiscono e accettano, ma non è giusto definire un popolo così. Chi non ha una visione più cosmopolita e non viaggia, pensa sempre che un indiano sia sempre quello lì. Tutti abbiamo un ruolo nella società che va rispettato, ma usare parole del genere è dannoso. Chi le usa, non si sente neanche razzista, perché è così da sempre, ma se io sento una signora che le usa, mi fa effetto. Non mi piacciono molte cose che accadono negli Stati Uniti, ma certe frasi lì non le diresti mai.

Che cos’è che non gli piace degli Stati Uniti?

Degli Usa non mi piacciono le tante chiusure, i problemi e le paure verso lo straniero,  l’essere un Paese molto diviso tra sinistra, che è un mondo a parte, e tutto il resto, con città come New York, che è l’unica città in cui vivrei abbastanza felicemente, anche se durante la pandemia è stata pericolosa, ma non pericolosa come l’hanno dipinta in tv.

A proposito di tv: avrà sentito che da noi c’è stata una polemica per la storia di Peppa Pig e le due mamme

Sì. Che si intervenga su un cartone animato e che la politica, in particolar modo, intervenga, è semplicemente allucinante.

‘Bella ciao’, invece, lei la canterebbe?

Non ne so nulla, mi spieghi.

Laura Pausini ha dichiarato che non canta “né canzoni di destra né di sinistra”, ma canta e basta e non vuole deludere il suo pubblico. Lei ha mai avuto paura di deludere i suoi lettori?

Quando scrivo non penso in realtà al lettore, perché sono io la prima lettrice. Scrivo per capire delle cose, poi il lettore può essere chiunque. Non è qualcosa che è sotto il mio controllo, non è un qualcosa a cui penso.

Questo la salva?

Certamente, perché quando scrivo sono chiusa dentro me stessa, in una stanza completamente chiusa e questa è per me la libertà. Appena pensi a cosa si aspetta l’altro, può essere paralizzante, si crea un’aspettativa. Ci sono già passata. Ho scritto di una comunità specifica in America, in inglese. Molti lettori mi hanno chiesto: non scrivi più di noi? Cosa è successo? Mentre scrivo non posso essere in ascolto, magari dopo, quando la gente mi chiede e le reazioni mi vanno bene, ma non riguarda la creatività.

Restando in tema chiusure, cosa le ha insegnato la pandemia?

Mi ha fatto pensare molto alla realtà dei miei genitori negli anni ’70, quando loro erano così lontani dall’India. L’impossibilità dell’avere contatto con i propri cari, l’idea di essere bloccati che non è più la stessa cosa oggi, perché ormai ci sono mille voli e mille modi per esserci. Quando mia madre stava morendo, stava lì da Calcutta con il telefono e vedeva tanti parenti cari che vedevano anche lei. In passato non è stato così. L’idea di non poter essere accanto ai propri cari è terribile. Questo è accaduto durante il Covid-19. Il dolore di essere in due mondi separati mi ha fatto molto riflettere.

In questo ‘dopo’ pandemia, saremmo - come dicono - tutti più cattivi ed egoisti?

Mi auguro di no. Spero che ci sia più tolleranza, perché – e questo la pandemia lo ha dimostrato - siamo tutti vulnerabili e tutti connessi. Trattiamoci con cura.

 

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