AGOSTO CON NOBIL GIUOCO - 3

Giocare a scacchi fino alla morte

Massimo Adinolfi

Condannato per omicidio, Claude Bloodgood in carcere non mollava mai la scacchiera, nemmeno a un passo dall’esecuzione. Un caso che avrebbe fatto discutere Pascal e Spinoza. E un’idea per un campione d’oggi

È il 29 giugno 1972 ed è un giorno in cui Bobby Fischer non ne vuole sapere. I bagagli sono già stati imbarcati, fotografi e reporter sono già sulla pista per immortalare il momento in cui l’americano salirà sull’aereo che lo porterà a Reykjavík, per la sfida mondiale contro Boris Spassky (il  “match del secolo”: l’abbiamo raccontato la scorsa settimana), ma lui cambia improvvisamente idea: niente volo, niente viaggio, e, forse, niente match. 

 
Quel giorno, mentre il mondo degli scacchi è in subbuglio – ci vorranno la pazienza del campione del mondo, le mediazioni del presidente della Federazione internazionale, Max Euwe, l’intervento del Segretario di stato americano Kissinger e soprattutto quello del miliardario Jim Slater (che rimpolpò la borsa in palio) per convincere Fischer a partire – quello stesso giorno la Corte suprema degli Stati Uniti, con la storica sentenza Furman v. Georgia, dichiarò incostituzionale la pena di morte, commutando automaticamente in ergastolo le oltre seicento condanne a morte in attesa di esecuzione.

 
Durerà poco: solo quattro anni dopo, nel 1976, la Corte cambierà avviso e la pena di morte tornò a essere  costituzionalmente legittima negli Stati Uniti – un obbrobrio che dura ancora – ma intanto, quel 29 giugno, mentre gli scacchisti di tutti il mondo sono in preda al timore che il match del secolo tra il campione russo e lo sfidante americano possa saltare, c’è almeno uno scacchista che esulta: Claude Frizzell Bloodgood III, nato a Norfolk, in Virginia, nel 1937 e morto di cancro, all’età di 64 anni, nel 2001, nel Powhatan Correctional Center di Richmond, la capitale dello stato, dove era rinchiuso per aver pugnalato e strangolato la madre, Margaret Belma Howell, per una questione di soldi. 

 

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Non uno stinco di santo, il buon Claude. Piuttosto un truffatore, un falsario, un imbroglione, uno a cui piaceva millantare storie, falsificare i propri natali e inventarsi un passato di spia: dietro le linee tedesche, tra documenti sottratti ai nazisti e fughe rocambolesche. In mezzi a tutte queste storie ci stavano pure le sfide scacchistiche coi gerarchi del Reich: Bloodgood contro Wilhelm Canaris, l’ammiraglio che tramò contro Hitler; Bloodgood contro Erwin Rommel, la Volpe del deserto; Bloodgood contro Heinrich Himmler, con i suoi occhi di ghiaccio. La lista delle frottole è, in realtà, molto più lunga, e posso risparmiarvela. Ma quel 29 giugno 1972, il giorno in cui Bloodgood scampò definitivamente alla pena capitale, merita di entrare tra gli highlights di un’ideale storia degli scacchi.
L’uomo della Virginia ha provato a entrarci anche in altro modo, per la verità. Ha, per esempio, scritto ben tre libri a tema scacchistico: se siete interessati al gioco permettetemi però di sconsigliarvi vivamente di cominciare dai suoi studi. Perché sono come lui: sono dedicati ad aperture – l’apertura è la fase iniziale della partita, dedicata allo sviluppo dei pezzi – a dir poco stravaganti, e a esser più precisi semplicemente scorrette. Linee di gioco minori, cadute in disuso, buone forse per tendere qualche trappola a un giocatore sprovveduto ma che a gioco corretto vengono confutate dall’avversario. 

 
Poi Bloodgood ci ha provato in un’altra maniera. Ristretto in prigione, prende a giocare assiduamente con gli altri detenuti, che straccia sistematicamente, essendo l’unico, tra le mura del carcere, a possedere qualcosa in più oltre ai primi rudimenti del gioco. Succede così che, gioca oggi, gioca domani, dal chiuso della sua cella Bloodgood comincia a scalare la classifica dei giocatori più forti del paese. Come nel tennis il punteggio Atp, così negli scacchi il punteggio Elo viene assegnato in base ai risultati conseguiti in ogni partita ufficiale, tenuto conto della forza dell’avversario. Giocando contro avversari dilettanti Blodgood racimola pochi punti alla volta, ma lì in prigione non ha altro da fare: le partite sono migliaia e il gruzzolo di punti cresce. Tempo un quarto di secolo (ma cosa conta il tempo, per un ergastolano?) e Blodgood sfonda il muro dei 2700 punti Elo – una soglia sopra la quale oggi sono solo una quarantina, in tutto il mondo – e guadagna clamorosamente il diritto a disputare la finale del campionato nazionale americano. A quel punto la Federazione decide di intervenire: accusa Bloodgood di frode, lo squalifica e lo depenna dalla classifica. Ma almeno quella volta Bloodgood – il bugiardo seriale: così lo aveva definito il suo stesso avvocato, nel processo per l’assassinio della madre – non aveva imbrogliato. Aveva solo sfruttato i limiti del sistema di calcolo adottato dalla Federazione (che infatti in seguito fu costretta a modificarlo). E soprattutto aveva giocato a scacchi ininterrottamente: per mesi, anni, decenni, contro chiunque gli capitasse a tiro nella sua prigione, in Virginia. 

 

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Che è poi la ragione per cui sto raccontando questa storia vecchia di cinquant’anni. Insomma: c’è un uomo che ha ucciso la madre, l’ha avvolta in una coperta e ha provato a occultare il cadavere gettandolo in una palude (con l’unica delicatezza di sistemargli sotto la testa un cuscino sporco di sangue). Viene arrestato un paio di mesi dopo, portato a processo e condannato a morte nel giro di 48 ore. E cosa fa? si dichiara innocente, certo: è abituato a mentire. Ma poi? Poi gioca a scacchi, non fa altro. Continua a giocare per tutta la vita. Per ben sei volte arriva a un passo dall’esecuzione e per ben sei le volte la scampa. E tutte le volte non rinuncia a farsi la sua ultima partita. Lui è quello che anche nel braccio della morte continua a giocare. Quello che prende a giocare pure per corrispondenza, cioè tramite cartoline postali, e che alla morte lascia in eredità ai posteri nove grossi scatoloni, oggi depositati presso la Public Library di Cleveland, pieni zeppi di materiali scacchistici, oltre che di inutili effetti personali.

 
Perché gioca? Possibile che non abbia nulla di meglio da fare? D’accordo, è in carcere. Ma quando si avvicina la sua ultima ora, possibile che non senta il bisogno di dedicarsi ad altre e più serie occupazioni, che non voglia, che so, incontrare un prete e pensare a salvarsi l’anima? Bloodgood: la scacchiera, una sigaretta tra i denti, e nient’altro. Blaise Pascal, che prima di ritirarsi nell’abbazia di Port-Royal ebbe tra i suoi amici fior di spiriti libertini (siamo nel Seicento, e tutto il Seicento gioca, diceva José Antonio Maravall, grande storico dell’età barocca), pensava che per scuotere le loro coscienze e portarli a credere, o perlomeno a interessarsi del loro destino metafisico, bisognasse sbattergli in faccia il pensiero della morte. Riuscirebbero a giocare a dadi, o a trascorrere le ultime ore al tavolo da gioco, sapendo di dover morire nel giro di una settimana? Alla faccia di Pascal, Bloodgood ci è riuscito, e io non so davvero se pensare che un simile accanimento è la dimostrazione di una mostruosa insensibilità per i più alti fini dell’esistenza umana – era questa la spazientita opinione del geniale pensatore francese – o piuttosto la più alta prova della libertà dello spirito, come avrebbe probabilmente sostenuto un altro grande filosofo del Seicento, Baruch Spinoza, per il quale l’uomo libero a nulla pensa meno che alla morte. 

 

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Ma soprattutto non sono sicuro che funzioni davvero così, che da una parte stanno le cose serie, e dall’altra quelle futili, e che gli scacchi rientrino in queste ultime. Lo so: il direttore del Foglio mi ha chiesto di srotolare queste pagine nel mese di agosto, mese delle vacanze e del tempo libero: credo stia dalla parte di Pascal (ma Dio e la Federazione scacchistica italiana gliene rendano merito comunque). E pure tanta filosofia temo sia dalla stessa parte: l’uomo è chiamato a scegliere fra il vizio e la virtù, fra un modo di vita autentico e un modo inautentico. Se prendi la prima strada, ti interroghi sul senso della vita, lasci stare i divertimenti e gli svaghi e affronti le grandi questioni della metafisica, della politica o della religione. E se ti dice bene, magari diventi pure filosofo. Se invece imbocchi la seconda strada, vuol dire che ti accontenti delle bagattelle quotidiane, ottundi l’anima in svaghi e passatempi e ti lasci sfuggire il serio della vita. E se ti dice male finisci addirittura come Bloodgood.

 
Ma gli scacchi sono soltanto un futile passatempo? In un saggio giovanile che di scacchi non parla affatto, Walter Benjamin – che però a scacchi giocava e come, per esempio con Bertolt Brecht – dice che ha senso parlare di una lingua delle cose: di una lingua della musica, o della giurisprudenza. Ebbene, lingua vuol dire mondo. La musica forma un mondo perché chi l’ama trova in essa tutto quel che gli occorre per esprimersi ed essere veramente se stesso. E trova incomprensibile, sicuramente irritante, la richiesta di sporgersi oltre le note del pentagramma per vedere se non vi sia altro per cui valga la pena di vivere. Ora, se anche gli scacchi formano un mondo – e per Bloodgood era proprio così – allora ha poco senso incaponirsi, come faceva Pascal, e pensare di poterglieli strappare via. Quel che riescono a fare cose come gli scacchi, capaci di formare un mondo e un universo d’espressione, è dare persino all’esistenza sgangherata di un fuorilegge le parole per dirsi e farsi mondo. Senza alcun motivo, neanche una condanna a morte sul punto di essere eseguita, per separarsene.

 

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Claude Frizzell Bloodgood non è l’unico giocatore di scacchi che abbia conosciuto il disonore del carcere. In gattabuia son finiti, tra gli altri, ben tre campioni del mondo. Bobby Fischer, anzitutto, beccato a volare in Giappone dopo la revoca del suo passaporto, e Garry Kasparov, quindici anni fa, arrestato a Mosca insieme a centinaia di manifestanti durante un corteo contro Putin. Più indietro nel tempo la brutta esperienza è capitata ad Alexander Alekhine e ai maestri russi che si trovavano in Germania al momento dello scoppio della Prima guerra mondiale. Alekhine fu trattenuto per sei settimane. Ma, se è vera, di tutte queste storie di reclusione la più curiosa è quella che si dice occorsa a William Steinitz, il primo che abbia potuto fregiarsi ufficialmente del titolo di campione del mondo. Steinitz fu arrestato perché un anonimo telegrafista scambiò le mosse di scacchi spedite dal campione per un messaggio in codice, e allarmato fece intervenire la polizia.

 
Tra le storie di fantasia, invece, due meritano di essere ricordate. Una vede per protagonista Thomas Paine, filosofo illuminista autore del celeberrimo “I diritti dell’uomo”, fiero avversario della pena di morte, arrestato in Francia negli anni del Terrore giacobino. Evitò la ghigliottina grazie alle pressioni del governo americano, pare, ma la leggenda vuole che fu invece la moglie, che frequentava il Café de la Regence, il più famoso ritrovo di scacchi nella Parigi di fine Settecento, a trarlo in salvo, sconfiggendo Robespierre in una partita a scacchi la cui posta era la vita del marito. Storia del tutto implausibile, ma indicativa di una certa idea degli scacchi, per cui è la nostra stessa esistenza a essere in gioco, come nel “Settimo sigillo”,  il film di Ingmar Bergman in cui il cavaliere Antonius Blok strappa alla Morte, sfidandola a scacchi, gli ultimi scampoli della sua vita terrena.

 
La più bella è però la “Novella degli scacchi” dello scrittore austriaco Stefan Zweig, l’autore dello splendido  “Il mondo di ieri”. Durante una crociera, uno sconosciuto dott. B racconta i mesi trascorsi nell’isolamento di una cella (siamo immediatamente dopo l’annessione nazista dell’Austria), senza nulla che potesse aiutarlo a passare il tempo, finché un giorno riesce a trafugare fortunosamente un libro. Dopo l’iniziale entusiasmo, lo sconforto: il libro è scritto in una lingua sconosciuta. E’ infatti un libro di scacchi, infarcito di partite trascritte secondo la notazione algebrica standard. Con l’aiuto di qualche mollica di pane, a mo’ di pezzi, l’autore, “schiavo del nulla” della prigione, riesce poco a poco a ricreare un mondo: a rivivere le partite nella fantasia, a seguirle in uno spazio puramente mentale, a giocare persino nuove partite contro se stesso, sempre più febbrilmente, fino all’ossessione, fino all’“avvelenamento da scacchi”. 

 
Il resto non ve lo dico, sperando che vogliate leggere la “Novella”, ma il racconto è una metafora perfetta della capacità del gioco di valere, per chi lo possiede, come un mondo intero. Con la vertigine e l’eccesso che ciò può comportare. (Dice qualcosa anche sulla crisi del linguaggio nell’Europa della prima metà del Novecento, ma questa è un’altra storia).

 

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Epilogo. Ho detto prima che le aperture studiate nei libri di Bloodgood sono desuete, ed è vero, e fondamentalmente scorrette, e pure questo è vero. Però se finiscono tra le mani di Magnus Carlsen può succedere di tutto. In una partita blitz, giocata nel 2014 nel corso di un importante torneo internazionale l’attuale numero 1 optò, con i Bianchi, per il Gambetto Norfolk (1. Cf3 d5 2. b3 c5 3. e4), una delle strampalate aperture amate da Bloodgood. Gli ci vollero solo ventuno mosse per battere l’avversario. Che non era un malcapitato detenuto, ma Vishy Anand, a cui Carlsen aveva strappato pochi mesi prima la corona mondiale. Ludwig Wittgenstein diceva che il mondo del felice è altro dal mondo dell’infelice. Carcere o no, è vero anche del mondo che solo un campione è capace di esplorare.

 

Continuiamo, come ogni venerdì d’agosto, la serie di articoli sugli scacchi. Massimo Adinolfi,  filosofo e scacchista, ha scritto fra l’altro “Problemi magnifici. Gli scacchi, la vita e l’animo umano” (Mondadori 2022). I primi due articoli sono stati pubblicati il 5 e il 12 agosto.


 

Ecco gli altri episodi della serie sugli scacchi che il Foglio pubblica ogni venerdì d’agosto. L’autore, il filosofo Massimo Adinolfi, ha scritto fra l’altro “Problemi magnifici. Gli scacchi, la vita e l’animo umano” (Mondadori 2022).