(Foto Ansa) 

Il Foglio del weekend

Ecco chi in questi anni ha tradito Salman Rushdie

Giulio Meotti

Pochi si mobilitarono e alcuni lo attaccarono. I “versetti” del fallimento della cultura (in Italia ci fu solo omertà)

Salman Rushdie prese posto al servizio funebre in ricordo di Bruce Chatwin in una chiesa greco-ortodossa a Bayswater. C’era tutta la literary London. Rushdie sedeva accanto a Martin Amis. “Siamo preoccupati per te”, disse Amis. “Sono preoccupato per me”, rispose Rushdie. Seduto dietro c’era lo scrittore Paul Theroux. “Saremo qui per te la prossima settimana, Salman”, disse Theroux, ridacchiando.


Molti risero, pochi lo difesero, alcuni lo attaccarono. Il motivo lo ha spiegato Bruce Fudge in un articolo su Aeon, “Islam after Salman”. “Nessuno avrebbe oggi le palle di scrivere ‘I versetti satanici’. Tre decenni dopo, il romanzo è ancora ristampato e disponibile. Se la battaglia dei ‘Versetti’ è stata vinta, una guerra più importante è stata perduta. Chi oserebbe oggi scrivere un romanzo provocatorio sulle origini dell’islam?”. Oggi sono tutti Rushdie, come l’8 gennaio 2015 erano tutti Charlie. Ma quando Khomeini lanciò la fatwa contro lo scrittore, come quando Charlie entrò in clandestinità per le minacce di morte (fra bombe contro la  redazione e processi per “islamofobia”), pochissimi furono Rushdie e Charlie. La lezione  dell’affaire Rushdie è sconfortante. Per dirla con André Glucksmann, “pochi  rimasero turbati salvo qualche artista, giornalista o letterato”.


Vacillò l’editoria. La Viking, che pubblicò il libro, spese tre milioni di dollari in sicurezza solo durante la prima metà del 1989. Sussultò solo una volta, quando richiamò e mandò al macero un’edizione tascabile dei “Versetti”. La determinazione dei vertici dell’azienda a portare avanti il proprio lavoro e a non cedere a nessuna forma di paura li ha resi tra i pochi eroi di questa saga. Presses de la Cité a Parigi  aveva una scorta della polizia e sbarre di metallo alle finestre. La casa editrice rimosse la targhetta in ottone nell’edificio. Alcuni editori, come quello greco, posticiparono la pubblicazione a tempo indeterminato, cancellando il libro. In Olanda, la casa editrice Veen annunciò che si sarebbe “consultata” con  le organizzazioni islamiche. In Francia l’editore ha esitato così a lungo che Jean-Edern Hallier, uno scrittore satirico, ne ha pubblicato un’edizione pirata. Quando Christian Bourgois pubblicò il romanzo lo fece senza promuoverlo o permettere (come è consuetudine) alle librerie di restituire le copie invendute. Bourgois decise, d’accordo con il traduttore, che quest’ultimo avrebbe usato uno pseudonimo.

 

Non uno qualsiasi: Alcofribas Nasier, anagramma inventato da Rabelais per Pantagruel e Gargantua. William Nygaard è il capo della più grande casa editrice norvegese, Aschehoug. Gli sparano tre colpi di pistola fuori casa, alla periferia di Oslo. Il premier norvegese non gli mandò alcun messaggio. Negli Stati Uniti, all’inizio di marzo, l’Fbi è informata di settantotto minacce alle librerie, solo una piccola parte del numero totale. Solo Waldenbooks ha ricevuto quaranta minacce anonime; B. Dalton trenta in meno di tre ore. Le grandi catene – Waldenbooks, B. Dalton e Barnes & Noble negli Stati Uniti, Coles in Canada, W. H. Smith in Gran Bretagna, Vroom en Dreesman in Olanda – hanno rapidamente ritirato il libro. Per promuovere la sicurezza nei negozi, l’American Booksellers Association istituì una linea diretta di emergenza ventiquattro ore su ventiquattro. La Canadian Booksellers Association chiese che il libro non fosse messo in vetrina. La libreria dell’aeroporto  Dulles a Washington espose un cartello: “Non disponiamo dei ‘Versetti’”.

 

I seguaci dell’ayatollah diedero fuoco a una libreria a Padova  e distrussero le vetrine di quattro librerie che esponevano il libro. Incendi furono appiccati in due librerie a Oslo. A Londra attaccarono con le molotov due librerie di Charing Cross (Collets e Dillons). Liberty’s, un grande magazzino londinese, venne attaccato per la presenza della Penguin all’interno dei locali. Intanto, sul New York Times, l’ex presidente americano Jimmy Carter se la prendeva con Rushdie per aver “diffamato Maometto”. Il mondo del cinema fu al solito codardo. Premiata per la sua interpretazione  di Camille Claudel, Isabelle Adjani salì sul palco del Théatre de l’Empire  per ricevere il César come migliore attrice. Scelse di leggere un brano di Rushdie. “Scrivi perché possiamo rimanere liberi”, disse l’attrice. Non si ricordano altri gesti simili. 
Il 22 febbraio 1989 E. L. Doctorow, Frances Fitzgerald, Gay Talese e altri affermarono che Rushdie andava difeso e Susan Sontag che “la nostra integrità come nazione è messa in pericolo da un attacco a uno scrittore come a una petroliera”.

 

Ralph Ellison usò ironia: “Una condanna a morte è una recensione piuttosto dura”. Christopher Hitchens disse che “rischiamo molto cedendo anche solo un pollice ai bruciatori di libri e agli assassini”. Anthony Burgess, l’autore di “Arancia meccanica”, fu il migliore: “Ordinare ai figli del Profeta indignati di uccidere Rushdie e i direttori di Penguin Books sul suolo britannico equivale a una jihad. E’ una dichiarazione di guerra ai cittadini di un paese libero e come tale è un atto politico. Deve essere contrastato con una dichiarazione di sfida altrettanto schietta, anche se meno omicida”.


“Temo che il libro stesso lo abbia cercato”. Questo il commento di Joseph Brodsky, che avendo patito la censura sovietica avrebbe dovuto pensarci meglio. Diverso Adam Michnik dalla Polonia: “Un mondo in cui un fanatico che governa l’Iran può pagare assassini  in tutto il mondo è un mondo in cui nessuno è al sicuro”. O Heberto Padilla, il dissidente di Cuba: “E’ come avere l’intera comunità intellettuale mondiale in un unico aereo dirottato”. Un altro esule dalla Cortina di ferro, Czeslaw Milosz, fu chiaro: “Ho ragioni particolari per difendere i suoi diritti, signor Rushdie. I miei libri sono stati vietati in molti paesi o sono stati censurati. Sono grato alle persone che all’epoca si attenevano al principio della libertà di espressione, e ora, a mia volta, vi sostengo”. Norman Mailer fu  un po’ troppo retorico ed egocentrico: “E’ nostro dovere  dichiarare al mondo che se mai verrà assassinato diventerà nostro obbligo prendere il suo posto”. Nelle parole di Midge Decter, “alcuni dei più celebri leoni letterari  si pavoneggiavano nei loro sforzi per condividere il pericolo di qualcun altro”.


La Royal Academy of Letters in Svezia, che assegna il Nobel per la letteratura, rilasciò una dichiarazione senza spina dorsale in cui denunciava gli sforzi per ostacolare la libertà di espressione, ma non si riferì mai a Khomeini per nome. Quindi, con una mossa senza precedenti, tre membri dell’Accademia, due romanzieri (Kerstin Ekman e Lars Gyllensten) e un poeta (Werner Aspenström) rassegnarono le dimissioni dall’organizzazione. A Berlino l’Akademie der Künste si rifiutò di organizzare un reading di Rushdie per motivi di sicurezza. A Vienna, l’Associazione degli studenti è costretta a tenere un incontro di lettura dei “Versetti” in una tenda da campo poiché i professori vietarono lo svolgimento nei locali dell’ateneo. L’elenco di chi prese posizione a favore di Rushdie è a dir poco breve. Leon Wieseltier di New Republic dichiarò: “Si possono contare sul numero delle dita di una mano tremante”.


“Se non riusciamo a essere fermi su questo tema, è perché la la nostra benedetta libertà di parola non vale uno spillo”, gli fece eco  John Updike. Wole Soyinka, lo scrittore e Nobel nigeriano, fu il più oltranzista. Definì l’ayatollah “un codardo”. A Lagos, in Nigeria, migliaia di musulmani marciarono cantando “Wole Soyinka deve morire”. Keith Vaz, il parlamentare di Leicester del Labour, parlò a una manifestazione contro Rushdie. Max Madden, il parlamentare laburista di Bradford West – la città in cui le copie del libro furono date alle fiamme – suggerì a Rushdie di aggiungere un inserto nel libro che consentisse di spiegare perché i musulmani lo trovavano offensivo.  Hugh Trevor-Roper disse che non si sarebbe infastidito se i musulmani britannici avessero deciso di prendere da parte Rushdie in un vicolo e “migliorare” le sue maniere.

 

Il Principe di Galles Carlo fece sapere che non avrebbe sostenuto uno scrittore che aveva insultato le “convinzioni più profonde” dei musulmani. Roald Dahl, l’autore di libri per ragazzi, chiamò Rushdie “pericoloso opportunista”. George Steiner, uno dei più rispettati critici culturali, tagliò corto: “Rushdie ha fatto in modo di creare un sacco di problemi”. Poi John le Carré. Il grande scrittore di spy story non riusciva a convincersi ancora a condannare l’Unione sovietica, ma fu lesto ad attaccare Rushdie, che replicò dandogli di “asino sciocco filisteo”.


In Germania, silenzio totale. “Non è stata una sorpresa per me leggere commenti pieni di odio, schadenfreude e teorie del complotto, ma è stato scioccante vedere gli intellettuali abbandonare un compagno scrittore” ha scritto tre giorni fa sulla Neue Zürcher Zeitung il sociologo di origine egiziana Hamed Abdel-Samad. “Mi ha ricordato le reazioni di alcuni intellettuali tedeschi che, in quel periodo durante la vicenda Rushdie, invece di mostrare solidarietà al collega minacciato di morte erano impegnati a sottolineare che il suo romanzo non era una buona letteratura, come se la libertà di espressione fosse legato alla qualità del lavoro”.


E in Italia? “Perché uno scrittore come Umberto Eco non ha mai speso una sola parola in difesa di Rushdie?”, chiese nel 1993 Vincenzo Consolo. “In Italia nessuno ha difeso Rushdie. Nel nostro paese si fanno pettegolezzi squallidi e meschini”. Franco Cardini definì “porco” Rushdie. Guido Almansi parlò di un “silenzio incredibile a confronto con quanto è stato fatto in Inghilterra, America e Germania”. Tre anni dopo la fatwa  in Italia uscì  un volumetto, “Il silenzio dell’Occidente”, mentre lo scrittore Nico Orengo, responsabile dell’inserto Tuttolibri, diceva: “Vorrei rivolgere una domanda a  Rushdie. Ha voluto sfidare l’islam oppure ha semplicemente commesso una leggerezza?”. Inge Feltrinelli: “In quattro anni non c’è stato un solo gruppo di intellettuali e artisti che si sia schierato in difesa di Rushdie. E di questo mi vergogno profondamente”. 


All’interno della grande vergogna dell’occidente ci fu una ancora più grande  vergogna italiana. Nelle testimonianze di scrittori di tutto il mondo non c’era neanche un italiano. Ci fu solo un appello all’allora premier Giuliano Amato, firmato da una ventina di persone. Rushdie venne ricevuto da Barbara McDougall, ministro degli Esteri canadese, dicembre 1992; da Mary Robinson, presidente della Repubblica d’Irlanda, gennaio 1993; da Jack Lang, ministro della Cultura francese, marzo 1993; da John Major, primo ministro del Regno Unito, maggio 1993; da Mario Soares, presidente del Portogallo, luglio 1993; da Vaclav Havel, presidente della repubblica Ceca, settembre 1993; da Bill Clinton, novembre 1993; da Klaus Kinkel, ministro degli Esteri tedesco, dicembre 1993. Quale paese manca?  


Norberto Bobbio intervenne sulla Stampa quattro anni dopo a difesa di Rushdie: “In quale abisso precipiterebbe una grande civiltà se accettasse quel verdetto”
In tutta questa vicenda spicca l’eroismo di Andy Ross, il proprietario della Cody’s Books a Berkeley, i cui locali furono attaccati: “E’ stato abbastanza facile per Mailer e Sontag parlare di rischiare la vita a sostegno di un’idea. Dopotutto vivevano abbastanza in alto nei condomini di New York. Era tutta un’altra cosa essere un rivenditore che presentava il libro sulla strada”. Dopo l’attentato, Ross ha riunito il suo staff: “Dissi loro che dovevamo prendere una decisione difficile. Dovevamo decidere se continuare a vendere ‘I versetti satanici’ e rischiare la vita per ciò in cui credevamo. Oppure adottare un approccio più cauto e compromettere i nostri valori. Quindi abbiamo votato. All’unanimità per continuare a vendere il libro. Mi vengono ancora le lacrime agli occhi quando ci penso. Fu il giorno più orgoglioso della mia vita”. 

Era la fine degli anni 80. Oggi l’autocensura è la norma sull’islam. “Gli uomini buoni cederanno alla paura e la chiameranno rispetto. Gli uomini buoni commetteranno un suicidio intellettuale e lo chiameranno pace”. Rushdie lo aveva previsto. 

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.