Édouard Manet, "Nella serra", 1879

Quanta bellezza è stata immaginata con le terga adagiate su una panca

Mariarosa Mancuso

Un meraviglioso catalogo – molto illustrato – nel saggio di Michael Jacob intitolato “Sulla panchina” (Einaudi 2014). Filo conduttore: la panchina non è utile solo per riposare le stanche membra

Una gigantesca panchina a Central Park, circondata da aceri, attirò l’attenzione di Jonathan Lee, inglese del Surrey che da un po’ vive a New York. Incontro fortunato: la panchina in marmo commemorava Andrew Haswell Green, che volle fermamente  l’enorme parco cittadino, spianando le casupole. Prima, chi aveva voglia di passeggiare tra il verde in città aveva solo i cimiteri a disposizione.
   

Jonathan Lee cominciò a fare ricerche. Scoprì che Andrew Haswell Green (cocciuto provinciale che come tanti cercò fortuna in città, leggendo tutti i libri che trovava e ascoltando a scopo di istruzione i sermoni di tutte le chiese) aveva voluto Grande New York in cinque distretti. Gli dobbiamo – da urbanista – la costruzione del ponte di Brooklyn (se avete visto la prima puntata della serie “The Gilded Age” ricorderete che la ragazzina nera e istruita passa la notte nella casa sulla Fifth Avenue perché c’è maltempo e i traghetti non partono). Gli dobbiamo, sempre da urbanista e consigliere del sindaco, il Metropolitan Museum of Art, la Biblioteca pubblica, il Museo di Storia Naturale.
   

Da una panchina Jonathan Lee ha tratto un bellissimo romanzo intitolato “Il grande errore”, da Sur (l’errore della metropoli, pensate ai monzesi che a suo tempo non vollero la metropolitana per non diventare satelliti di Milano). Racconta la storia dell’autodidatta di successo, e c’è anche un giallo: Andrew Haswell Green morì ammazzato sulla soglia di casa, a Park Avenue, mentre tornava a casa per pranzo.
     

Un meraviglioso catalogo – molto illustrato – di altre panchine sta nel saggio di Michael Jacob intitolato “Sulla panchina” (Einaudi 2014). Filo conduttore: la panchina non è utile solo per riposare le stanche membra. In un giardino, per esempio, ritaglia un panorama, una prospettiva, uno scorcio. Non proprio come se fosse una finestra, ma ci andiamo vicino seduti sulla panchina, se non siamo poveri di spirito sprovvisti di vita interiore, e mettiamo subito mano all’iPad, la vista è in qualche modo obbligata.
   

Ai già inorriditi, vorremmo chiedere che differenza fa, accomodati sulla panchina, mettere mano a un Kindle oppure a un libro di carta – sulla copertina, una dama con il cappellino legge presissima un volume ben squinternato. O farsi importunare da un barbuto signore, come capita alla dama con il cappellino e l’ombrellino nel quadro di Édouard Manet del 1879 intitolato “Nella serra”. Forse lo sconosciuto non è proprio uno sconosciuto, ma la panchina è splendida, in mezzo ai fiori. Ci sono panchine più proletarie, per i nullafacenti o i senza fissa dimora. Scarsi i comfort, se paragonati al tettuccio mobile della panchina per senzatetto recentemente progettata da Stefano Boeri.
     

La panchina è politica. Lenin e Stalin siedono fianco a fianco, in una fotografia del 1922. Stessa identica posa, su una panchina di legno in mezzo alla natura, per Putin e Medvedev, occhiali scuri e abbigliamento sportivo, le biciclette a portata di mano. Era giugno, era il 2011. Magari erano arrivati in macchina, ma la panchina è molto più fotogenica.
 

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