Checco Zalone in “Tolo Tolo” (Medusa Film/Taodue Film, 2020) è un disoccupato pugliese che scappa in Kenya per sfuggire ai creditori  

bon ton in valigia

Dopo la pandemia si torna a viaggiare, ma il mondo là fuori può lasciarci a bocca aperta

Maurizio Stefanini

In “Viaggio con stile”, è il titolo di un libro nel quale con “suggerimenti e consigli per vivere con disinvoltura i viaggi del terzo millennio”, Francesca Pica e Laura Pranzetti Lombardini ci spiegano che anche culture dalle radici comuni possono arrivare a esiti di galateo opposti

Nei paesi islamici “si devono sempre coprire ginocchia e spalle, talvolta anche le caviglie”. “Non si va in giro in costume da bagno, mai”. Ma invece in Islanda “quasi ovunque troverete pozze d’acqua calda naturale o fiumi di acqua bollente in cui potrete farvi il bagno e rilassarvi con gli islandesi come nella più blasonata delle Spa del mondo. Ricordate che qui la nudità non è tabù: non siate imbarazzati e cercate di essere naturali. Se non ve la sentite di rimanere nudi cercate un altro posto o andate in un altro momento: stare con gli islandesi in costume li metterebbe a disagio. Se siete con un gruppo islandese chiarite questo aspetto prima. Non è escluso che indossino anche loro, tra le risatine, un costume per non urtarvi”. “Attenzione ai jeans, in molti paesi islamici non sono ben accetti e indossandoli potrebbe accadere che qualcuno per strada vi insulti o peggio. Canottiere e pantaloni corti sono un insulto al buon gusto anche se indossati da maschi”. “Un grande classico dell’abbigliamento australiano sono i pantaloncini corti indossati da tutti. Magri, grassi, adulti, bambini… non fa differenza, le gambe bene in vista sono ammesse. Uomini d’affari e lavoratori possono recarsi al lavoro con le ginocchia scoperte durante i mesi estivi. La leggenda narra di medici con il camice e i pantaloncini, professori con l’abito accademico e le braghe corte, avvocati vestiti in modo formale con giacca scura, colletto inamidato e cravatta di seta, bombetta in testa e pantaloncini, talvolta abbinati a delle classiche scarpe Oxford nere e perfino a dei calzini alti”.

 

Okey: era immaginabile che rispetto al mondo islamico islandesi e australiani si trovassero agli antipodi, non solo geografici. Ma per poter stare in “Viaggio con stile”, titolo di un libro edito da Gribaudo con “suggerimenti e consigli per vivere con disinvoltura i viaggi del terzo millennio”, Francesca Pica e Laura Pranzetti Lombardini ci spiegano che anche culture dalle radici comuni possono arrivare a esiti di galateo opposti. La mancia, ad esempio. “Non è un optional”, spiega un paragrafo nel capitolo dedicato agli Stati Uniti. “Negli States la mancia è ‘praticamente obbligatoria’ anche se in realtà non c’è nessuna legge federale che impone questa usanza. Non lasciare nulla infatti è universalmente ritenuto molto maleducato e irrispettoso della cultura americana”. Anche se ordinate una birra al bar, “ricordatevi di lasciare un dollaro al barista a ogni ordine”. “Anche in Canada la mancia si lascia sempre, tranne che nei locali dove non viene effettuato servizio al tavolo, come ad esempio nelle catene di fast food. Anche in quel caso, troverete sempre un barattolo per la mancia, che potrete lasciare o meno. Se invece venite serviti dal personale, non avrete scelta. Il minimo è il 10 per cento dell’importo totale”. 
Tradizione anglosassone? No, perché invece “in Australia non siete tenuti a dare la mancia. Qui si segue una regola lineare: dal momento che i camerieri e il personale turistico sono stipendiati in modo adeguato, non hanno bisogno di arrotondare con le mance, quindi gli extra non sono incoraggiati”. Però se uno straniero insiste, gli australiani prendono. Non come in Giappone, dove “la mancia non solo è inappropriata, ma suscita indignazione in chi se la vede offrire”.


Tutto il mondo è paese, dice un proverbio, ma paese che vai usanza che trovi, precisa un altro, e ciò che è buona maniera da una parte non è detto che lo sia da un’altra. In Francia, altro esempio, “la bise fa parte dei fondamenti della vita sociale”. “Non ci sono regole stabilite né sul numero dei baci, né sulla guancia dalla quale cominciare. Nella Francia centrale la regola impone due baci, uno per guancia; nel Nord, dalla Normandia al confine con il Belgio, nessuno se la cava con meno di quattro; nel Sudest, da Marsiglia alle Alpi, tre è il numero perfetto”. Ma invece negli Stati Uniti “dimenticate i baci. L’abitudine di baciarsi prima, durante e dopo ogni incontro è cosa sconosciuta negli Stati Uniti”. “Nella cultura americana esiste la regola del ‘no touching’. Non sono abituati al contatto fisico”. In comune tra Stati Uniti e Africa è il consiglio di non parlare di politica. Negli Usa è meglio disquisire del tempo: in Africa fa furore il calcio italiano. E attenzione anche a tavola. In Africa si mangia in genere con la mano da un piatto comune, seduti a terra in cerchio e a piedi nudi. Ma “non usate la sinistra, mano impura destinata all’igiene del corpo”. Mentre in Cina “non mettete ma le bacchette incrociate, può essere interpretato come sdegno per la loro compagnia: i cinesi associano al simbolo ‘X’ il concetto di rifiuto”. Sempre in Cina, è anche “irrispettoso toccare il cibo con le proprie bacchette dalla parte che metterete in bocca”. Per noi “insospettabile, perché non useremmo mai il manico della forchetta o del cucchiaio per servirci”. “Se scegliete il pesce dovete mangiare la parte superiore, quindi eliminare la lisca e poi continuare a mangiare l’altra parte senza girarlo, per non evocare il rovesciamento delle piccole barche dei pescatori”. Vietato anche mettere le bacchette in verticale nel riso: “richiamerebbe la tradizione di bruciare due bastoncini di incenso inseriti nel riso per onorare un defunto”. Non si sbattono le bacchette contro la ciotola: lo fanno i mendicanti. Non si alza la ciotola con una mano sola: porrebbe sembrare che con l’altra avete un’arma nascosta. E lasciare un boccone del piatto in Cina non significa “immangiabile” come in Italia, ma un opposto “ottimo e abbondante”.
“Sì”, ci conferma Francesca Pica. “Io ho girato molto. Prima per ragioni familiari, poi facendo giornalismo di costume, e alla fine sono diventata specialista in galateo e buone maniera comparate. Come ci si deve comportare quando si entra in contatto con altre culture. Ma anche Laura Pranzetti Lombardini si era molto occupata di queste cose. L’incontro con lei ha fatto nascere questa idea. Questa sorta di piccola guida, più ancora che di buone maniere, di attenzione per quando si va in giro per il mondo. L’idea è piaciuta all’editore e ne è uscito questo libro”. 


Non è un po’ quanto aveva fatto già Erodoto? Il “padre della Storia” nel V secolo avanti Cristo aveva già cercato di delineare una filosofia che spiegasse le vicende umane, ma riletto a due millenni e mezzo di distanza appare ancora di più l’inventore del reportage, e anche dell’etnologia, per il modo in cui a sua volta registra la varietà dei costumi  dei paesi che visita. “Gli Egiziani”, spiega ad esempio, “hanno quasi sotto ogni rispetto adottato consuetudini e costumi opposti a quelli del resto del mondo. Da loro le donne vanno al mercato e vendono al minuto, e gli uomini restano in casa a tessere. E mentre gli altri popoli tessono spingendo la trama verso l’alto, gli Egiziani la spingono in basso. I pesi gli uomini li portano sul capo e le donne sulla spalla. Orinano le donne all’impiedi e gli uomini seduti. Fanno i loro bisogni nelle case e mangiano per le strade. Cosa di cui danno questa spiegazione: che le necessità di cui ci si vergogna si devono soddisfare di nascosto, e fare all’aperto ciò che non reca vergogna”. 
Non solo gli Egizi fanno cose strane, peraltro. In Lidia, ad esempio, “le ragazze del popolo si prostituiscono tutte. Si raccolgono, finché si sono sposate, la dote con l’esercizio di questo mestiere, e si procurano il marito da sé”. E le babilonesi non possono sposarsi se prima non si sono prostituite con uno straniero una volta nel tempio della dea Ishtar. “Quelle fornite di un bel viso e di alta statura se ne tornano presto. Invece le brutte, non essendo in grado di adempiere l’obbligo, vi rimangono molto tempo. Alcune anche per tre o quattro anni”. In realtà anche altri greci, popolo di commercianti, andando in giro si erano accorti di queste “stranezze”. Erodoto si limitò a metterle per iscritto; quelli che furono chiamati sofisti ne trassero l’idea che una verità non esiste, e che tanto vale cercare ognuno ciò che più fa il proprio interesse, essendo “l’uomo la misura di tutte le cose”. 
 

La grande tragedia greca tenta appunto di descrivere il dilemma del cozzo tra leggi opposte: Antigone a cui la legge degli dèi impone di seppellire il fratello e quella degli uomini glielo vieta; Oreste che per vendicare il padre deve uccidere la madre. La grande filosofia greca cerca poi di trovare un punto fermo, e Platone immagina appunto che la variabilità del mondo delle cose cerchi di arrivare alla certezza del mondo delle idee. “E’ vero, torniamo un po’ a Erodoto”, conferma Francesca Pica. “La nostra idea è stata questa: poiché i costumi in giro per il mondo sono diversi, conoscerli aiuta poi a non essere così egocentrici. Cioè, a non pensare che noi siamo quelli giusti e che sappiamo fare bene le cose, mentre gli altri sono ‘buoni selvaggi’ o gente non evoluta. Allargare la visione serve a capire che ognuno fa le cose a modo suo e che quindi bisogna essere tolleranti, ovviamente sempre nell’ambito di alcuni valori che devono invece essere comuni. Se qualcuno picchia la moglie o i bambini, va comunque rifiutato anche se corrisponde a un costume radicato”.
 

Erodoto, peraltro, fu colui che Ryszard Kapuscisnki si mise a leggere in modo compulsivo, quando lo mandarono corrispondente in terre di cui non conosceva ancora la lingua – anche se in seguito la avrebbe imparata. E di Kapuscinski ci sono infatti nel libro citazioni: oltre che di Plinio il Vecchio, Claudia Cardinale, René Dumont, Marco Aime, Beryl Markham, Ernest Hemingway, Mario Soldati, Oscar Wilde, Adlai Stevenson, James T. Farrell, Walt Disney, Bertrand Russell, Luis Sepúlveda, Pablo Neruda, Isabel Allende, Giuseppe Vannicola, James Kay, Tiziano Terzani, Bill Bryson, Drew Kampion, Samuel Johnson, Umberto Eco, Merce Cunningham, Fernando Pessoa, Voltaire, Knut Hamsun… Non ci sono solo le buone maniere comparate, infatti. Nel libro ci sono poi destinazioni e storie: l’albero del Ténéré che era l’unico nel giro di centinaia di chilometri e che dopo secoli di vita fu abbattuto da un camionista ubriaco che riuscì a sbattere appunto nell’unico albero in tutto il Sahara; Chicago città del vento; i centri commerciali sotterranei di Toronto; l’America on the road; Frida Kahlo; la Porta del Sole di Tiwanaku; l’hotel fatto di sale in Bolivia; il Carnevale di Rio; il Taj Mahal; la metropoli nel deserto di Dubai; il vaso Savoy finlandese; le città sul Danubio… 
 

Ci sono consigli pratici: i documenti; cosa mettere in valigia; le vaccinazioni; anche come ridurre al minimo i rischi della delinquenza. C’è un grande interesse per la condizione femminile. E c’è anche un’ampia guida gastronomica comparata, anche con aspetti sorprendenti. Il massimo dell’avversione, infatti, sembra riservato alla vegemite australiana, icona culturale del paese. “Nessuno può viaggiare per le terre australiane senza assaggiare questo prodotto, se non altro per ringraziare di essere italiani! Si tratta di una pasta collosa, marrone, scura, prodotta con dei lieviti ai quali vengono aggiunti gli estratti di molti vegetali, che si spalma sui toast col burro”. “Il sapore ricorda quello del dado da brodo”, ma “gli australiani sull’argomento sono altamente suscettibili: la vegemite è il loro grande orgoglio, guai a farne uso improprio o a criticarla”. Ma invece sugli “ingredienti poco convenzionali” della cucina thailandese come “gli insetti e gli aracnidi: grilli, bruchi, vermi e finanche scorpioni” che “vengono fritti al momento nelle bancarelle sulla strada” il consiglio è: “se riuscirete a vincere la diffidenza scoprirete un cibo insolito, ma appetitoso e stuzzicante, e oltretutto povero di grassi e ad alto contenuto proteico”.
 

“Attraverso la curiosità, abbiamo cercato di insegnare qualcosina”, chiosa Francesca Pica. “Quanto  meno di incuriosire sui modi di fare altrui: ovviamente partendo da cose curiose, cose divertenti, anche magari cose suggestive. Il mondo alla fine è talmente vario che non è che puoi partire sapendo tutto, però si può insegnare lo spirito per scoprirlo. Arrivare tra gli altri in punta di piedi, senza portarci dietro la nostra arroganza da padroni del mondo”. Una guida per la globalizzazione, che però uscì tre anni fa. E dopo di allora pandemia e guerra inducono addirittura qualcuno a pensare che la globalizzazione sia finita. “Sicuramente la pandemia non solo ci ha impedito di viaggiare per due anni, ma ha aumentato la paura di esporsi. Quindi riprenderemo a viaggiare con più cautela e con più attenzione, ma riprenderemo, perché è tipica di noi umani la capacità di dimenticare le grandi tragedie velocemente. Tutto tornerà, anche se magari non immediatamente.  E forse, visto che ricominciamo a viaggiare, possiamo darci qualche regola in più, nel senso di qualche comportamento un po’ più corretto. La pandemia, in fondo ci ha insegnato che il mondo è prezioso. Viaggiare più consapevolmente è forse la svolta per questa nuova èra che sta cominciando”. 

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