
la recensione
L'Altrove di Michaux, viaggiatore senza valigia amato da André Gide
Torna il libro di Michaux, un catalogo di paesi immaginari, abitati da creature deformi, contornate da piante e animali soggetti a continue metamorfosi
«Uno scrittore che va curiosamente troppo lontano», così André Gide definì Henri Michaux: la sua inclinazione per il remoto come meta di un «andarsene», di un «viaggiare», ma senza che l’avventura del viaggio lo possedesse mai completamente. Com’egli stesso scrisse in Passaggi, il suo era un voler partire «per non soffrire della realtà». Un sentimento condiviso da molti autori, a cavaliere fra anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. Si chiamavano Artaud, Leiris, Gide, Aragon, Malraux, Lévi Strauss, Céline, Nizan. In loro «il fantasma del viaggio» – ha scritto Giovanni Macchia – «si animava nel rifiuto della decadenza dell’Europa». In Michaux, «viaggiatore di tanti viaggi senza valigia», l’aspirazione al viaggio non nasce però solo dalla volontà di sottrarsi alla gangrena che intorpidisce e pietrifica l’epoca che lo circonda, ma si traduce in un vero e proprio fugerit, in un “fuggire” declinato al futuro perfetto, perché, come in Orazio (Odi I, 11), protagonista di quella civiltà letteraria latina che per lui funse da primo «départ», esso possa contrarsi al massimo. Michaux appartiene infatti al novero di coloro che non si riconoscono nella durata, con le illusioni inerenti alla memoria e al progetto, ma nella singolarità degli istanti in cui la libertà affronta il mondo. Così è Plume, personaggio “schermo” sul quale Michaux proietta il proprio universo onirico, popolato da esseri spaventosi, da visioni orrorifiche che si succedono «sotto il faro ossessivo della paura» – o della follia.
Quest’ultima tende ad insinuarsi nella scrittura di Michaux a passi felpati. Se ne ha esempio in La nuit remue, stupefacente sequenza d’immagini di vivezza implacabile, in cui il «non senso assorbe e inghiotte ogni senso, tanto dal lato del significante che del significato». Il che, e con ancora maggiore plasticità, si ritrova pure nella paradossografia intitolata Altrove (Viaggio in Gran Garabagna. Nel paese della Magia. Qui Poddema, ed. it. a cura di G. Celati e J. Talon, Quodlibet, Macerata 2022, pp. 232, euro 16) falotico catalogo di paesi immaginari, abitati da creature teratologiche e deformi, contornate da piante e animali soggetti a continue metamorfosi, tanto singolari quanto sinistre.
Si tratta di un’etnologia venata di sadismo: gli Emagloni, i Nan, gli Urgugli sono solo alcune delle popolazioni, allucinate dalla violenza e dalla crudeltà, sulle quali Michaux proietta la propria sofferenza, con lo scopo di volersene liberare attraverso la compiaciuta osservazione dei tormenti da loro inflitti. L’occhio antropologico è in tal modo piegato ad un uso perverso della fantasia, che ritocca, modifica e sostenta di efferata nequizia la realtà. La quale, come in certe tele di Bosch, si trova ad essere rappresentata in un collage visionario che giustappone canti d’amore e rebbi di forchetta, singhiozzi e reliquie, pescecani e calici da spumante, in un tripudio di «allucinazioni semplici», che richiamano alla mente i Canti di Maldoror di Lautréamont e l’Alchimia del verbo di Rimbaud, sebbene la scrittura «a getti» che scandisce questa kermesse dell’assurdo non crei l’atmosfera di una trascinante vaudeville, ma quella d’un mondo senza sonno, in cui tutto è illuminato da una chiarezza spaventosa.
Il pensiero di Michaux – lo ricorda pure Gianni Celati nella congeniale postfazione all’edizione di Altrove, che, esaurita quella pubblicata per i suoi stessi tipi nel 2005, Quodlibet ripropone ora in una nuova collana – è, prima d’essere opera, tragitto, esplorazione, sguardo retrospettivo su quegli «abissi di niente» che il mondo cela dietro le superfetazioni della razionalità. Non a caso dal Rebelais periegeta dell'isola dei Papefigues o dallo Swift dei Viaggi di Gulliver, Michaux mutua sì immagini, intuizioni, schegge di parole, ma restando estraneo a qualsiasi intenzione parenetica. Come ha osservato Andrea Zanzotto, quello di Michaux è un universo «tutto antinomia a iato», nel quale alla spontaneità più imprevedibile si accompagna l’inerzia più assoluta. Due connotati – ricorda lo stesso Michaux – che appartengono al «paese della Magia», là dove la coscienza si smarrisce tra le cose e «il pensiero arriva, si forma, si fa netto e se ne va allo stesso modo». Come accade nei sogni, quando la coscienza vuole uscire da sé stessa, ma non può, se non rendendo presente un mondo dove essa si incontra sempre. «Questa coscienza tende a superarsi, e superarsi significa per lei espandersi ovunque, diluirsi in ogni cosa, trovarsi là dove non si trova».