Il Foglio Weekend

Richelieu non muore mai

Lo incarna l'immortale Académie française, forse la più prestigiosa istituzione culturale d'Europa. Maurizio Serra è il primo italiano a farne parte da 400 anni

Michele Masneri

L’immortale arriva a pranzo anzi colazione con un impermeabile, un cappello floscio, un blazer, e gemelli ai polsi; l’immortale ha un’aria più dolente di quanto ci si aspetterebbe da un ambasciatore, potrebbe essere un giornalista o una spia, ma non italiano. Del resto è ambasciatore-scrittore, che come sottopancia è decisamente più chic che il tragico nostro “scrittore e giornalista”.

  

Maurizio Serra, l’immortale, però tradisce la carriera con piccoli gesti di cortesia – ti strappa di mano la bottiglia se tenti di versarti il vino, chiama il cameriere su delle frequenze che a noi mortali non sono note, in modo che il cameriere romano accorra subito. Saper stare a tavola in sette lingue però non è che una parte dell’identità di questo diplomatico che è anche scrittore vero, e appunto, immortale. Maurizio Serra è infatti il primo italiano ammesso in quattrocento anni, cioè da quando esiste, alla Académie française, voluta da Richelieu nel Seicento per vegliare sulla lingua francese, probabilmente la più prestigiosa istituzione culturale d'Europa.

   

 

La nomina è di due anni fa ma causa Covid è stata sempre rimandata. Finalmente, il 31 marzo, è riuscito ad andare a farsi incoronare. Dell’Académie hanno fatto parte Voltaire, Montesquieu, Victor Hugo. Marguerite Yourcenar è stata la prima donna ammessa. I suoi membri sono detti appunto "les immortels". Insomma, è una roba seria. Ricevuto da Macron, salutato da Mattarella, Serra ha preso il posto di Simone Veil, l’intellettuale europeista morta nel 2017, e il suo discorso di accettazione, in un francese purissimo, senza l’ombra di un accento, talvolta ravvivandosi il ciuffo argenteo, con finalone di ringraziamento in tutte le lingue dell’Unione, è étonnant e ravissant. “Cosa vuole, da un po’ di anni l’Académie ritiene di doversi aprire al mondo, così arrivano ad accettare financo un intellettuale modesto come me”, dice adesso con esagerato understatement davanti a un piatto di pesce. Il suo discorso è stato una lunga eulogia della sua predecessora, “ma cosa vuole, è un personaggio talmente scolpito nella pietra, senza una fessura. E io amo le fessure”, riflette. Ha dedicato libri a fessure fondamentali come D’Annunzio, Svevo, Malaparte.

 

E il Duce, il più fessurato di tutti. Il suo saggio “Il caso Mussolini” (Neri Pozza) è tra le sue opere più interessanti, più acuto di certi bestseller di grande successo. Punta a capovolgere l’idea che in fondo è circolata a lungo, che Mussolini rispetto agili altri dittatori come Hitler e Stalin fosse alla fine un cialtrone meno sanguinario, un tumore benigno rispetto ai maligni altrui. Un personaggio buffonesco. “In Francia specialmente è molto radicata quest’idea, che poi ha finito per espandersi a tutti gli italiani”, dice l’ambasciatore-scrittore. Così il libro è nato prima in francese, poi in italiano, come fa d’abitudine coi suoi libri (très chic). “Invece Mussolini era soprattutto un bugiardo, aveva fondato la sua impresa su due grandi imposture, quella della vittoria mutilata nella prima guerra mondiale e quella del pericolo comunista, che non c’era”. Insomma,  un precursore delle fake news? “Certamente. Aveva proletarizzato le sue origini, mentre era un membro dell’odiata piccola borghesia. Le fake news poi gli si erano rigirate contro, immortalandolo come un buffone”.

 

Serra smonta il tiranno romagnolo mettendone in mostra alcuni tratti umani come l’amore per l’esibizione fisica, “come Fidel Castro, o Putin oggi. Mussolini era abbastanza scaltro da non posare mai vicino a qualcuno fisicamente davvero prestante, temeva il confronto. Col Re sciaboletta, era facile. Più difficile coi tedeschi; era intimorito dalla loro atleticità. Solo perché chiaramente non aveva mai messo piede in America e non aveva mai visto gli americani”. E poi “l’amore per le lingue. Ne parlava diverse, certo, con una pronuncia non proprio madrelingua, ma le studiava. A un certo punto gli portano un messaggio di Ribbentrop e tutti si raccomandano che non venga tradotto perché il Duce ha piacere di mostrare il suo tedesco, e Mussolini legge e dice: ah, genitivo sassone! E tutti gli altri, intorno, bravo duce!”. 

 

Le lingue, lui, l’immortale, ne parla 7, come fosse la cosa più naturale del mondo.  Nato a Londra, figlio di una leggenda della storia delle relazioni internazionali, Enrico Serra, partigiano della fazione più chic, quella del partito d’azione, fu poi capo del Servizio Storico e Documentazione del Ministero degli Esteri. Il nostro immortale si chiama Maurizio in onore  del nome da battaglia di Ferruccio Parri, amico di famiglia. Ha servito a Londra, a Mosca, a Parigi, Berlino prima della caduta del Muro, alle Nazioni Unite a Ginevra, ma “non ho fatto mai una gran carriera”, dice con colossale understatement. “Una carriera molto media, da ufficiale di truppa, dignitosa, mai vicina al potere”. Sembra di capire che la sua passione sia stata piuttosto scrivere. “La diplomazia è anche una grand’occasione di letteratura, se uno ne ha la necessità e passione, per la possibilità di imbattersi in situazioni e uomini”. 

 
Ce ne dica una. “Ma no, non saprei. Chissà, forse con Edda Ciano, in un palazzo nobiliare, in attesa che Andy Warhol arrivasse per farle il ritratto. Tra un whisky e una sigaretta lei era in compagnia di Rossano Brazzi”. A Edda dedica pagine notevoli nel suo Mussolini, scalatrice seriale indefessa, occhi da pazza come il padre, con un primo pretendente rigorosamente aristocratico, scacciato da villa Torlonia perché aveva osato chiedere a quanto ammontasse la dote. Poi fu il turno di Galeazzo Ciano.  Accanto alla saggistica, “Amori diplomatici”, è il suo ultimo lavoro, appena uscito per Marsilio, un romanzo a pannelli un po’ isherwoodiano – autore che apprezza –  dove protagonisti sono diplomatici o consorti di diplomatici, spersi, lost in translation, tra Ginevra e Tokyo. Certo ci si chiede come si possa conciliare la diplomazia con la scrittura. Non che non vi sia una grande tradizione di diplomatici scrittori – Stendhal, Romain Gary, Carlo Dossi lo scapigliato. “In questo i francesi sono superiori a noi. Gary viveva nel mio quartiere, a Parigi, ma non l’ho mai conosciuto. Dossi, su cui mio padre ha scritto un volume, fece una breve carriera ma era una carogna che quando ha avuto un momento di potere come capo di gabinetto di Crispi ha fatto un repulisti di tutti i suoi nemici, poi quando è caduto Crispi hanno eliminato lui, spedendolo a Bogotà”. Poi altri diplomatici-scrittori: Daniele Varè, Paolo Vita-Finzi”.  

 

E poi un diplomatico mancato, Alberto Arbasino, “ah, che carino, sì, l’ho conosciuto. A un certo punto lo invitai a colazione. Appuntamento al Bolognese, all’una, io lì, aspetto, aspetto, bevo un bicchiere di vino, poi un altro, e quando sto per andarmene, sconfortato, lui arriva, alle due in punto, come se nulla fosse”. L’ambasciatore non fa una piega, ovviamente, “poi solo dopo capii che era il giorno in cui cambiava l’ora legale, non me n’ero accorto”. Ma probabilmente è una deliziosa bugia da diplomatico, a confondersi fu Arbasino. Lui aveva abbandonato i tentativi diplomatici per darsi alle sacre lettere.

 

E però torna la domanda, come si concilia la spoliazione del punto di vista che talvolta la professione comporta, il modulare la conversazione a un massimo comun denominatore che non offenda, allor stare insomma a tavola in sette lingue? Come si fa poi a scrivere? O la scrittura è un controveleno della vita diplomatica? Il rischio di diventare il vacuo monsieur de Norpois proustiano incombe.  “Mah... dipende molto”, dice l’ambasciatore, sguazzando tra understatement e nonchalance, ecco il punto di contatto (e certo si capisce a un tratto come Arbasino si trovasse meglio tra ambasciatori e marchese che non tra scrittori espliciti e coi loro libri tutti urgenti e partecipati). “Dipende molto da persona a persona, poi sono sempre stato lasciato molto libero dai miei superiori che ho molto amato… poi a Roma, al ministero, sono stato poco… poi ho insegnato. E poi, certo, come diceva Ionesco, uno a un certo punto può diventar notaio. Il rischio c’è”. A proposito, ma lei, se non avesse scelto la diplomazia, che avrebbe fatto? 

 

“Il giornalismo mi sarebbe piaciuto, sì, trovo che siano due professioni simili”. Certo si temeva che la tecnologia l’avrebbe spazzata via, la diplomazia, si diceva  che i capi di stato si sarebbero parlati via Skype, invece le occasioni si son moltiplicate, mentre il giornalismo è evaporato. È molto cambiata la diplomazia? “È molto migliorata”, dice l’ambasciatore. “Oggi ci sono un sacco di giovani che vanno in sedi nuove che stanno aprendo, hanno molte più possibilità; un tempo entravi come secondo o terzo segretario d’ambasciata”, insomma si entrava in un calderone burocratico, “invece adesso apri magari un consolato in Cina o Africa, ci sono più possibilità di un tempo. Meglio adesso che quando sono entrato io nel ‘78: quando un doppio triplo cognome contava molto. O quando – scena a cui assistetti appena entrato –  due vecchi ambasciatori davanti a me stettero tre quarti d’ora buoni a discutere su come dovesse essere un biglietto da visita, se in rilievo o no, se in corsivo o no, in che tipo di carta, avorio o normale. Senza naturalmente offrirmi di sedere”. Ma la sedia, la sublime sedia, l’avrà adesso, la più gloriosa.   

 

Il suo posto all’Académie è infatti l’F13, perché all’Accademia si va a F cioè fauteuil, poltrone. All’F13 prima di lui la Veil e prima ancora Claudel e Racine. E poi si entra per parola: a ogni immortale corrisponde infatti una parola perché l’Académie “è” soprattuto il glorioso dizionario della lingua francese, un dizionario che procede ininterrottamente dalla A alla Z, e poi ricomincia, nei secoli dei secoli, in un perenne censimento e restauro della lingua francese. L’immortale sarà per sempre legato a quella parola che vien restaurata al momento della sua nomina. A lei quale è uscita? “Visiteur, visitatore”, dice l’ambasciatore-scrittore, “che sarà anche il titolo del mio prossimo libro, anche se in italiano non suona così poetico, non trova? Vi-si-ta-to-re. Meglio In visita”, e io da mortale, da non diplomatico, mi chiedo: ma se uscisse una parolaccia? O una parola poco illustre? Che ne so, il vicino visière, visiera, o vomir, vomitare, o, avanti, il tragico water? L’ambasciatore sorride, “no, diciamo che l’Académie ha facoltà di variare, pur rimanendo nei pressi della lettera uscita.  Anche perché al candidato è richiesto un piccolo discorsetto intorno alla sua parola, durante l’incoronazione”.

  

La cerimonia è impressionante: sotto la cupola dell'Institut de France, rullo di tamburi, entrano i 40 immortali nella celebre marsina, il celebre habit vert, con ricami appunto verdi, “ma che tipo di verde non è specificato”, e a lui l’ha preparata e donata nientemeno che Giorgio Armani, poi la spada, necessaria perché anticamente gli accademici facevano parte di Casa reale e dunque nell’evenienza dovevano difendere il Re. Ma dove si compra la spada? “io ne ho usata una di famiglia, di mio nonno, ma per ingentilirla gli ho fatto incidere dei versi di Petrarca”. Anche Mussolini aveva fondato una Accademia d’Italia. “Sì, molto ispirata a quella francese. Però era anche un modo con cui il regime poteva risarcire tanti intellettuali che magari ufficialmente erano censurati e puniti. Era una specie di Bacchelli ante litteram”. E l’Accademia francese la ricoprirà d’oro, dunque. “Macché, cosa vuole, sono 384 euro mensili”. Lordi o netti? “Lordi. Tra l’altro adesso il mio commercialista sta impazzendo perché siamo alle prese con la doppia imposizione”. I viaggi almeno glieli pagano? “L’aereo sì. Il taxi solo se viaggio in uniforme”.

  

E Carolina di Monaco che ci faceva nel pubblico alla sua cerimonia? "È stata la presidentessa del mio comitato. Qualche anno fa ho gentilmente ricevuto il Prix de Monaco per i miei libri e lei poi ha voluto essere la mia presidentessa”. Ogni futuro accademico infatti è “portato” da un comitato, il Comité de l’Epée. È lei insomma che consegna la spada. Come vi chiamate tra voi immortali? “Signore e signora. Monsieur et madame. È stato abolito il classico ‘maestro’, ‘maître’, a causa del femminile “maîtresse” che non suonava bene, capisce. Però invece altre professioni hanno tenuto il maître maschile, come i notai”. È fissato coi notai. “Mah, cosa vuole, non credo che avrei potuto fare una professione così borghese...”. Un nonno militare (quello della spada) e uno cantante d’opera, mostra le foto, qui sta tutta la duplicità del personaggio e della carriera. 

  

Sugli avvenimenti della vita, che noi mortali osserviamo con sgomento, l’Immortale guarda con una sorta di dolente bonomia, con l’aria di chi le ha viste tutte, di prima mano, e sa che alla fine non vale la pena di agitarsi troppo. Le elezioni in Francia? “Ah, stavo proprio l’altro giorno alla Rotonde, la brasserie parigina dove Macron festeggiava le sue cose, e monsieur Serge e monsieur Marcel, i due proprietari, miei cari amici, erano molto preoccupati”. Se vince la Le Pen? “Sarebbe la fine del draghismo. Ma ciò che mi colpisce è che paradossalmente né Mélenchon né Zemmour sono a libro paga dei russi, mentre la Le Pen non lo nega neppure, ma evidentemente gli elettori non danno peso a questa cosa”.  La Russia? “Ho sbagliato qualunque previsione, non ne faccio più”.

  

La guerra di fake news? “Ma sa, quelle ci sono sempre state. Quando ero a Mosca, c’era Carlo Benedetti, numero due dei corrispondenti dell’Unità, che aveva lasciato il giornale per creare un’agenzia di stampa filorussa. Però era bravissimo, sapeva tutto: fa parte delle regole del gioco. E a Berlino, nella Berlino ancora divisa in due degli anni Ottanta, l’antesignano era ‘Der schwarze Kanal’ (‘Il canale nero’), programma tv di propaganda comunista, ogni puntata era realizzata con alcuni filmati registrati dalla tv della Germania Ovest che venivano rimontati e commentati”. Il precursore del deep fake. “Il fatto che a condurre fosse Karl-Eduard von Schnitzler, un aristocratico tedesco che aveva scelto la Germania comunista,  dava un ulteriore frisson”.  

   

Ma in definitiva, ambasciatore, chi è il suo scrittore-diplomatico preferito? “Di certo il vecchio Chateaubriand”. E il più grande diplomatico e basta? “Sono due. Andreotti e Gromyko. Avevano la capacità di porgere la replica all’interlocutore come Tebaldi e Di Stefano diretti da Karajan, una grandissima arte di dare all’interlocutore la parvenza del suo ruolo pronti a prendere quello che serve”.  Perché l’ambasciatore naturalmente è anche esperto d’Opera. Bel canto e spada. Gromyko, roccioso ministro degli Esteri ininterrotto dagli anni Cinquanta alla fine dell’Urss, detto “mr Nyet”, “come si sa nelle visite di Stato non andava a ricevere nessuno all’aeroporto, tranne il segretario di Stato americano e Andreotti. Certo, non si sa se lo andasse a prendere in quanto ministro degli Esteri italiano o vaticano… Gromyko me lo trovai di fronte, una volta, da giovane diplomatico. Avevo il cappello di pelo e me lo tolsi, ovviamente, in segno di rispetto, e lui me lo rimise in testa, dicendo (e qui l’ambasciatore dice una frase in perfetto russo) “lei adesso si trova a Mosca d’inverno e a Mosca d’inverno non ci si toglie il cappello”. Poi l’ambasciatore-scrittore paga, discretamente, saluta, fa i complimenti all’oste, si mette soprabito e cappello, e se ne va un po’ svolazzante, e dolente, in una Roma che potrebbe essere, con un po’ di fantasia, Mosca, o Atene, a esser scrittori (o scrittori-diplomatici, ancor meglio).