Donatello, Madonna Pazzi, 1425-30 ca (foto Wikimedia Commons) 

il foglio del weekend

Donatello trasformò la materia in narrazione viva ed emozionale

Maurizio Crippa


Il più grande scultore di sempre, o il più grande artista della sua epoca? Così Donatello aprì la strada alla pienezza del Cinquecento. Una grande mostra a Firenze

L’ultima opera sua, o se non l’ultima filologicamente parlando una delle più tarde, ormai ottuagenario e afflitto da un morbo che oggi chiameremmo Parkinson, è un Cristo che risorge. Risorge ma sembra stanco, quasi ansima per lo sforzo, una Resurrezione “delle più strampalate di tutti i tempi, con gli armigeri accatastati come fossero panoplie, e il Cristo che emerge dal sarcofago, ancora così bendato e impedito dal sudario, da subire il ritorno alla vita come una fatica immane”. Viene quasi da immaginare che abbia voluto immedesimarsi, in quell’impeto di vita trionfante sulla morte. Sulla mancanza di ogni movimento che è la morte. Ma è un’immortalità tanto più fragile della Resurrezione che Piero dipinge quasi negli stessi anni nel palazzo civico di Sansepolcro. Una vita nuova conquistata a fatica, dolorosamente, col lavoro di tutta una vita. L’ultima opera sua – in ballottaggio guarda caso con un altro Calvario, ancora un bassorilievo in bronzo, che è un altro estremo strappo alle regole dell’iconografia: c’è un manigoldo in cima a una scala che sta inchiodando il cattivo Ladrone, incurante del Cristo cui dà le spalle – non è in mostra a Palazzo Strozzi. E nemmeno al Museo del Bargello, che è per antonomasia la “casa di Donatello”. Non è in nessuna delle due location – Palazzo Strozzi e il Museo Nazionale del Bargello, le sedi che ospitano la grande mostra “Donatello, il Rinascimento” – perché ovviamente non poteva muoversi. Ma è però nella sua altra “casa” fiorentina, che è anche la sua ultima dimora: la basilica di San Lorenzo, la “parrocchia dei Medici”, dove Donato di Niccolò di Betto Bardi, per tutti Donatello, è sepolto accanto a Cosimo il Vecchio, il “pater patriae” suo grande mentore e affezionato protettore. Volle essere sepolto lì, a fianco all’uomo che iniziò la gloria fiorentina, nelle fondamenta stesse della più antica basilica della città, sotto una piana e umile lapide. La tomba del più grande scultore dell’èra post classica, come lo definisce il professor Francesco Caglioti, non è una statua, né un elaborato sepolcro né un gisant: è una lastra nel pavimento senza fronzoli, come due secoli dopo ebbe anche Lorenzo Bernini, il più grande dei barocchi, una lastra liscia in un gradino di Santa Maria Maggiore.

Ma lì era tornato, a San Lorenzo, per i suoi ultimi lavori – i due pulpiti di bronzo, quello della Passione e quello della Resurrezione, che troneggiamo a portare l’irruenza del dramma nelle navate armoniche e quasi senza sofferenza disegnate dal suo amico Brunelleschi. Lì, nella chiesa “dei Medici” dove tutto il Rinascimento è cominciato: in quella  Sagrestia (Vecchia) in cui, secondo tradizione, il sommo architetto e il sommo scultore litigarono, rompendo amicizia e collaborazione, perché in quello spazio che Brunelleschi aveva creato di ferma geometria Donatello aveva fatto irrompere la forza delle decorazioni in stucco, policrome come la vita. I due opposti che, insieme, danno vita a quella grande rivoluzione che è il Rinascimento. Nella Sagrestia, Donatello aveva avuto anche l’incarico di realizzare due porte di servizio, ma in bronzo: quaranta figure di martiri e apostoli in rilievo, una preziosità fino ad allora sconosciuta dentro un locale di uso privato. Ora quelle due porte di bronzo, una restaurata l’altra in attesa di esserlo grazie all’Opificio delle Pietre Dure, sono temporaneamente a Palazzo Strozzi, messe dirimpetto in una sorta di Wunderkammer che è come il cuore nascosto  di questa grande mostra fiorentina, o meglio internazionale: la più grande mostra mai realizzata per il più grande scultore del Rinascimento, anzi uno dei patriarchi stessi del Rinascimento, quello da cui è partito tutto. Come spiega, con un entusiasmo che affretta le parole ma non perde mai il filo di una raffinata erudizione critica, il professor Francesco Caglioti, ordinario di Storia dell’Arte medievale alla Scuola Normale di Pisa, specialista di scultura rinascimentale e tra i massimi conoscitori mondiali di Donatello, l’artista della sua vita, curatore e anima della mostra e autore di gran parte del poderoso catalogo (edito da Marsilio Arte) che è una vera summa per capire l’artista, ben oltre le 130 opere esposte tra Strozzi e il Bargello.

 

Una mostra ambiziosa, perché la scultura è più difficile, spiega Caglioti, di meno immediata lettura che non la pittura. Avrebbe bisogno di essere collocata nello spazio per cui è stata pensata; ma è anche minore la sua gamma emotiva e narrativa. Lo capì per primo Donatello, che essendo sommo in tutte le materie – il marmo, il legno, la terracotta e ovviamente la fusione – sapeva che è più difficile fare con le statue quello che alla pittura viene naturale: suggerire il movimento, raccontare, cogliere l’impressione della vita. Ottant’anni, tanto è durata quella di Donatello, e fino all’ultimo respiro la sua genialità, il suo temperamento ribelle, la sua continua inventiva nel rompere gli schemi dell’iconografia ufficiale (c’è qualcosa di più ufficiale di una statua, soprattutto se la committenza è pubblica, la Città o la Chiesa?) sono stati spesi per un sogno: fare che le statue si muovessero, raccontassero storie e drammi. 
“Donatello, il Rinascimento” è un titolo programmatico per una mostra che punta a fare scoprire un patrimonio importante. Il pubblico dice Rinascimento e pensa a una Madonna di Raffaello, a Leonardo; dice Donatello e pensa al massimo al David, nella sua casa al Bargello. Andare oltre la superficie,  proporre elementi di conoscenza è il senso che dovrebbero avere tutte le mostre che ambiscono a valorizzare il ruolo pubblico dei musei e delle istituzioni di cultura  – come lo è il Bargello, museo nazionale, come lo è Fondazione Strozzi, esempio virtuoso di collaborazione tra pubblico e privato. Così è nata questa mostra o doppia mostra, destinata a essere uno degli eventi dell’anno (ci si augura) post Covid, costruita su un potente sistema di prestiti (Palazzo Strozzi non è un museo, non ha pezzi da dare “in cambio”, per ottenerne da grandi istituzioni c’è solo una strada: la credibilità scientifica del progetto). E per la prima volta due grandi istituzioni internazionali – gli Staatliche Museen di Berlino e il Victoria and Albert Museum di Londra – hanno scelto di essere non solo grandi prestatori, ma partner dell’organizzazione fiorentina, cosicché la mostra di Donatello andrà poi, con qualche ovvia riduzione, al Bode-Museum di Berlino e al Victoria and Albert Museum. Per non dire della rete di prestiti che ha mobilitato mezza Italia: a Firenze sono giunti capolavori che mai si erano mossi dalla loro sede: dall’Opera del Duomo di Siena o dalla Basilica del Santo di Padova, per citarne due. Perché Donatello è Italia, ed è Europa. C’è una guerra in corso, e vale la pena ricordare che poche cose nella storia dell’arte danno il senso di una comunità come la fortuna gigantesca – di ammirazione, di collezionismo, di imitazione – di Donatello in Europa. E se da noi bisogna ammettere che Donatello nel Pantheon scolastico-museale ha dovuto vedersela con il resto dei giganti del Quattro e Cinquecento, all’estero dal Settecento in poi la corsa ad accaparrarsi le opere del grande scultore è stata continua. Ci sono una forza e un fascino particolari, in questo genio irrequieto, nato in Oltrarno da una famiglia di operai specializzati della lana sullo scorcio del Trecento, giusto in tempo per avere quindici anni – e probabilmente essere già ben avviato a bottega – quando nel 1401 il grande concorso pubblico per realizzare le porte del Battistero di Firenze (vinse il suo maestro, il sommo orafo Ghiberti) suonava il pronti via per l’avventurosa storia del Rinascimento.

Donatello c’era, un evidente talento lo aveva sottratto al destino dei lanieri, anche se  in verità si sa poco della sua prima biografia. Restò un “omo rozo e simplicissimo in ogni altra cosa, excepto che in la scalptura, in la quale, a giudizio di molti, ancora non have avuto superiori”, come scriveva quasi un secolo dopo il dotto umanista napoletano Pietro Summonte, testimoniando in pieno Cinquecento, quando ormai tutti i sommi artisti prendevano esempio da Donatello, lo stupore per la irregolare grandezza  di quel grande. Eppure, quando le commissioni iniziano a piovere da ogni parte d’Italia e non solo più dai ricchi oligarchi fiorentini, era accolto con reverenza negli ameni conversari dei dotti. Schivo e duro come i suoi materiali, di lui si sa che non si sposò né ebbe figli, adulto e già di grande fama viveva ancora con la madre e una sorella forse vedova con a carico un figlio (nipote) disabile. Pochi tratti, assieme a facezie che già circolavano al tempo, bastevoli per accreditarne l’omosessualità. Celibe e “sanza lettere”, come sarà poi anche Leonardo, Donatello non era però un solitario, in quella Firenze della prima metà del Quattrocento dove il Rinascimento traboccava come un miracolo e dove oltre la ristretta cerchia delle grandi ricchezze viveva di vita propria e del proprio talento una community di artisti pieni zeppi di lavoro e di commesse pubbliche e private, che era anche una compagnia di menti sagaci. Così che “Donato intagliatore” e il suo grande amico di molti decenni “Filippo di Ser Brunellesco, uomo di maraviglioso ingegno” sono anche protagonisti di una delle più sapide narrazioni fiorentine, la celebre Novella del Grasso legnaiuolo,  storia di uno scherzo arguto e corale.

Ma perché è così cruciale, questo artista che a metà della sua lunga vita, quando ormai le commissioni importanti lo inseguono da Venezia a Napoli, sembra preso in balia della stessa sindrome che colpirà anche Michelangelo e finisce “schiacciato per sempre, fino alla fine della sua esistenza, dal peso di non meno di quattro-cinque fossi impegni sollecitatigli ogni santo giorno dai più diversi committenti” e con riuscirà mai a realizzare? Questa documentata esuberanza incostante, i molti lavori abbandonati, oltre alla miriade dei finiti, ne fa a tutti gli effetti un artista straordinariamente moderno. Come ci fosse in lui un tormento irrequieto che gli faceva creare, immaginare, innovare per poi lasciare a metà le strade aperte che poi saranno altri artisti a dover rintracciare. Così è per molte delle sue invenzioni che sembrano semplici e naturali, e sono invece frutto di studio e rischio creativo, come le Madonne in terracotta destinate alla devozione privata che proprio lui e Brunelleschi sfornano dall’inizio del Quattrocento, facili da replicare e variare tanto da diventare una vera e propria moda. O come la Madonna Pazzi, giunta dal Bode-Museum, che fa giustamente da copertina a mostra e catalogo: un magnifico “stiacciato” in marmo, incorniciato nella prospettiva di una finestra, che è “una delle più commoventi Madonne col Bambino dell’intero Rinascimento” (Neville Rowley), in cui domina l’invenzione narrativa di quella Vergine che non ha sguardi per i fedeli-osservatori, non sta invitando alla preghiera come da sempre nell’arte cristiana, ma ha occhi, verrebbe da dire, solo per il Figlio che le sorride cheek-to-cheek. Il prototipo di un’infinita serie di variazioni che hanno cambiato per sempre l’iconografia religiosa. O i putti-spiritelli, nudi ridenti paffuti e danzanti, che con lui fanno l’ingresso nel Rinascimento. E quei suoi rilievi, siano in marmo o in bronzo che spesso non ha la pazienza di stare a finire, per questo ci sono gli aiuti, figure che sembrano voler saltare fuori per seguire una vita e un racconto che l’inquadratura prospettica  non sa contenere. E’ quel che accade nel Convito di Erode(prezioso prestito dal Fonte Battesimale di Siena) in cui la testa mozzata del Battista è solo il primo e più ravvicinato di più piani prospettici che creano un abissale cannocchiale narrativo. Un intero racconto condensato pochi centimetri quadrati di superficie palpitante.
Come spiega il professor Caglioti, “Donatello esorbita dall’arte occidentale. Sommo scultore si accorge subito della difficoltà della scultura a raccontare, a far irrompere il tempo. Così ne sconvolge i limiti”. Le sue figure, piccole o monumentali che siano, letteralmente e per la prima volta “si muovono” nello spazio e lo plasmano. Soprattutto, Donatello fa entrare il tempo nella scultura. Come il suo David (nudo come erano solo gli idoli pagani dell’antichità, che audacia), colto nel primo passo dopo avere vinto Golia, non abbassa lo sguardo immalinconito: no, era collocato in cima a un’alta stele da cui guardava in giù, per incitare i cittadini di Firenze al coraggio e alla difesa della libertà. Michelangelo verrà dopo: il simbolo della Florentina Libertas è invenzione sua. Com’è invenzione sua, pura cultura civile, il Marzocco che è ora simbolo del Bargello. Il leone in pietra serena che con una zampa tiene orgoglioso il Giglio e con lo sguardo, sempre dall’alto, sembra sfidare i nemici. Lo spazio pubblico, ma anche il tempo religioso. Come nel grande Crocifisso in bronzo che giunge, una prima assoluta, da Padova. Con quel perizoma che anziché aderire dolente al corpo martoriato, come in tutta l’iconografia cristiana precedente e successiva, svolazza alla destra di chi guarda. Sembra una piccola nota leziosa, invece ecco che il tempo irrompe nella scultura, col vento impetuoso di terremoto di “quel” Venerdì santo.

 

“Donatello non si fece mai mancare, fino all’ultimo, quella sconfinatezza di visione”, scrive Caglioti nel saggio in catalogo. Parola magnifica, sconfinatezza. Nei suoi capolavori quella che a prima vista sembra “soltanto” una grande capacità drammatica e ritrattistica – le statue a grandezza naturale dei Profeti per il Campanile di Giotto, ora al Museo dell’Opera del Duomo, che non partecipa alla mostra ma ne è come una naturale prosecuzione esterna – è invece un’intuizione che apre già al Cinquecento – Leonardo, Michelangelo, Pontormo, Rosso – che supera la sola prospettiva. Donatello fa dello spazio “un uso patetico, romantico, drammatico”. Dice anche “cinematografico”, Caglioti. E se l’accenno ci consente un salto di secoli e luoghi, “montaggio patetico”, cioè in grado di modificare la percezione di chi osserva, era l’espressione che Sergej M. Ejzenstein usava per indicare che cosa volesse creare con i suoi film. Anche il gran regista russo, come Donatello, sentiva la ristrettezza della sua arte bidimensionale, muta e in bianco e nero e pretendeva che “negli occhi del pubblico” i leoni della Scalinata di Odessa si sollevassero davvero contro il nemico, possenti come il Marzocco.

Una mostra ambiziosa, questa di Strozzi e Bargello, che i direttori Arturo Galansino e Paola D’Agostino hanno intensamente voluto. Perché “la scultura è più difficile della pittura”, ma Donatello con quel suo genio irregolare, quella forza nel piegare la materia e trasformarla è davvero, Caglioti non esita a dire, forse il più grande artista in assoluto del Rinascimento. E ha lasciato dietro di sé una scia infinita, senza cui molta arte europea rimarrebbe incomprensibile.

E’ il caso di un’altra celeberrima Madonna, che il Victoria and Albert Museum ha prestato al Bargello, piccola come un foglio di carta, tanto da rischiare nei secoli di sparire chissà dove, uno “stiacciato” così delicato che davvero sembra disegnato a matita, appena un graffio. E’ il capolavoro noto come Madonna Dudley. A farle da contorno, nell’ultima sala della mostra, una serie di quadri e disegni che la imitano e riprendono dei più grandi artisti: Leonardo, Perugino, Bronzino, Luca Signorelli, Desiderio da Settignano, lo stesso giovanissimo Michelangelo fino ad Artemisia Gentileschi. Il Rinascimento, Donatello.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"