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L'individualismo ci salva da chi vuole insegnare cosa è giusto dire o pensare

Alfonso Berardinelli

La novità storica è che ora si critica la critica, o meglio la si esclude perché è “inappropriata” e offende qualcuno. E c'è chi pensa che semina dubbi e incertezze sul diritto alla libera espressione e creatività di qualcun altro 

La società, o socialità, o social chattering, si sta divorando la cultura. O se volete l’ha già digerita e fatta sparire come entità autonoma. La cultura che due secoli fa si contrappose illuministicamente alla società per non confondersi con essa e per esprimerne una critica, non si sa più bene dove e che cosa sia. Quella cosiddetta dialettica fra due dimensioni della nostra Cultura o Civilizzazione e che, come ogni brava dialettica, prima vede e constata, poi nega e critica, e infine supera in una sintesi migliore, è da tempo una bella e antica favola. La novità storica, ammesso che la storia esista e non sia un sogno, è che ora si critica la critica, o meglio la si esclude perché è “inappropriata” e offende qualcuno, minaccia l’altrui diritto di essere come è, semina dubbi e incertezze sul diritto alla libera espressione e creatività di qualcun altro, di pochi esclusi o di molti inclusi, che altrimenti si offendono e protestano. I caporedattori del settore cultura può succedere che avvertano così i collaboratori: “Bisogna stare attenti, perché sennò si offendono e protestano”. Non si precisa chi può offendersi e protestare e per quale ragione. Ma bisogna “stare attenti” più che in passato, cioè non essere scorretti e inappropriati. Sui social piovono insulti, ma sulla nobile carta stampata è meglio autocensurarsi e tacere. Le proteste sono dietro ogni angolo. C’è sempre qualcuno che si offende.


Per mia igiene mentale (ognuno ha la propria) non frequento i social e ne sono perlopiù ignaro. Mi è capitato però che una sensibile e severa ragazza, avendo letto una mia paginetta su Pasolini, mi ha fatto sapere che se a me Pasolini “non piace” avevo il dovere di stare zitto, invece di dire in pubblico che come scrittore, nonostante le sue ragioni, ha qualche difetto. Pur non abitando in quello che si chiama “ecosistema digitale”, mi è bastato poco per capire che non si potrà più dire niente, perché c’è sempre qualcuno che si offende, protesta, ti accusa o ti include in qualche biasimevole categoria ostile a qualche altra.


Esattamente con il titolo Non si può più dire niente? (l’interrogativo è solo un confortante augurio contraddetto dai fatti) la Utet ha pubblicato un libro sul tema del dire, o meglio del non poter dire (AA. VV., pp. 243, euro 17). Il primo capoverso della premessa editoriale intitolata “Trigger warning” (attenti a non provocare reazioni) spiega subito di che cosa si tratta: “Proposte di legge per contrastare le discriminazioni, discussioni parlamentari sui sostantivi femminili, regolamenti aziendali che sanzionano comportamenti inappropriati, circolari scolastiche su tematiche di genere […] i temi distinti ma incrociati di politicamente corretto e cancel culture sono all’ordine del giorno, investendo […] prese di posizione su giornali cartacei, programmi televisivi, podcast, blog, riviste online e social network”. Questo è l’incipit. La clausola è ancora più in tema perché avverte: “In questo volume sono contenute espressioni, parole o idee che potrebbero urtare la sensibilità di alcune persone”.


Esco piuttosto frastornato dalla lettura, benché parziale, del libro, peraltro utile. Quattordici autori e punti di vista sono un po’ troppi per il mio cervello: o più precisamente per la scarsa passione che la mia psiche riesce a sprigionare di fronte a un maremoto di battibecchi, polemiche, rivendicazioni, indignazioni e teorizzazioni militanti su ciò che è corretto o non corretto dire e pensare. Le lotte anche verbali per un’uguaglianza più estesa possibile fra esseri umani, sono lotte giuste e vanno combattute: il che non toglie che possano provocare ogni tanto comportamenti ridicoli. Ridicola può essere infatti la sproporzione tra la causa, l’occasione, il pretesto e le reazioni che riescono a suscitare. Ma l’umorismo e il senso del limite non sono doveri, né norme coattive. Ma alla base di tutto c’è il problema dell’identità, della sua affermazione e difesa.

 

Che cos’è l’identità? Più ci si pensa e più si fatica. Per questo se ne adotta una, non importa quanto parziale, e la si schiera in vista dello scontro, pur di provocare lo scontro. Meglio, credo, un po’ più di individualismo. Che Dio protegga il nostro individualismo responsabile e coraggioso, ben disposto nei confronti di quello altrui. Che Dio ci aiuti a conoscere noi stessi, ricordando sempre che ogni altro ha il suo io. Che ci liberi dalle identità tribali e collettive, dalle categorie generali e corporazioni, tifoserie, gruppi, schieramenti che riducono i singoli e complessi esseri umani a una zona, strato, tassello, attributo della propria identità umana, a danno di tutto il resto. Sono maschio, italiano, romano, laureato, letterato, marito, padre, populista, elitista, classe media impoverita, ex proletariato urbano, gruppo sanguigno, segno zodiacale, costituzione psicofisica, storia e abitudini personali, tipo di consumi… Sono ognuna di queste cose, ma non del tutto, non sempre e spesso me ne dimentico, perché i doveri e il lavoro che ogni aspetto della mia identità mi impone, al solo pensarci mi sfiniscono.


Infine (e questo è il movente del presente articolo) sono un critico e la critica, specie se culturale e letteraria, può succedere che offenda qualcuno nella sua identità lungamente elaborata. Ma la critica è critica. Che altro dovrebbe essere? Nel momento in cui la mia sarà definita scorretta, mi dichiaro pronto a essere trattato scorrettamente, nei limiti imposti dalle controversie intellettuali. Al di là di questo vedo solo un principio infallibile: trattare con rispetto ogni essere umano che non umili o minacci le innocue libertà altrui. E comunque un mondo di individui responsabili mi sembra meno pericoloso che un mondo di tribù in conflitto.


P.S. Dimenticavo che esistono anche le canaglie e i truffatori. In questo caso non mi pronuncio. Sarei inappropriato: o meglio, appropriato. 

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