Foto Pierpaolo Lo Giudice, Giordano Bufo 

Roma e i Marchini, una storia in mostra

Giuseppe Fantasia

Un’altra città, un’altra epoca, uno spirito e una cultura differenti nella ricchissima collezione esposta fino al prossimo aprile all'Accademia di San Luca

Un’altra Roma, un’altra epoca, uno spirito e una cultura differenti. Una bellezza che continua ad esserci, ma che in parte è stata danneggiata, persino dimenticata. Siamo nella splendida e rinnovata Accademia di San Luca, dietro Fontana di Trevi, a pochi passi da via del Tritone: una Capitale come quella vista e riprodotta dal pennello di Francesco Trombadori – da Ponte Garibaldi a Ponte Fabricio fino a Piazza del Popolo, tre oli su tavola dipinti tutti nel 1955 – una Roma così pulita e così vuota l’abbiamo potuta vedere (ma non vivere) soltanto durante il Covid. Lo stesso dicasi del piazzale Flaminio realizzato da Carlo Socrate nel 1947, dei Paesaggi Romani di Mario Mafai o dei tetti di via Leonina con quei tipici colori accesi riprodotti da Renato Guttuso. Loro, assieme a molti altri, quella Roma l’hanno amata e criticata, l’hanno condivisa e fatta conoscere, l’hanno vissuta appieno e le loro storie si intrecciano e trovano il loro trait d’union grazie ad Alvaro Marchini e alla sua famiglia, la cui storia viene raccontata nella bella mostra ospitata proprio all’interno di Palazzo Carpegna – “Una storia nell’arte: i Marchini tra impegno e passione” – visitabile fino al 22 aprile prossimo a Roma e poi al Centro Italiano d’Arte Contemporanea di Foligno.

 


Francesco Trombadori, Piazza del Popolo (1955 olio su tavola) Credits Gaia Schiavinotto - Collezione privata Archivio Francesco Trombadori, Villa Strohl-Fern, Roma


 

Percorrendo i tre piani dell’Accademia, saranno in molti ad avere nostalgia di quello che l’artista (e, in questo caso, coordinatore della mostra) Gianni Dessì definisce “un’altra Italia”, “una nazione che abbandonava la retorica di regime per mostrare con coraggio, nelle sue arti – dal cinema alla letteratura, dalla musica alle arti figurative – una comunità sicuramente lacerata, ma coesa nei suoi valori più profondi alla ricerca di giustizia e libertà, oltre che di una nuova identità nazionale”. La ricerca era accesa, cruenta e piena di contraddizioni, ma era ricca di quella tensione morale che farà maturare un atteggiamento di grande rispetto, attenzione e partecipazione verso la cultura e l’arte, nella convinzione del suo indispensabile ruolo nell’emancipazione sociale.

 


Mario Mafai, Paesaggio romano (1947 olio su tela) Credits Gaia Schiavinotto - Collezione privata


 

La vicenda personale, imprenditoriale, politica, sociale e culturale di Alvaro Martini e della sua famiglia, lo dimostra appieno, come si evince visitando questa mostra a cura di Fabio Benzi, Arnaldo Colasanti, Flavia Matitti e Italo Tomassoni. “Una mostra – ci spiega Simona Marchini, attrice e collezionista, tra gli eredi della celebre famiglia – che è la nostra storia familiare che incontra la storia della nostra città. La storia di una famiglia appassionata e presente, a sostegno dell’Arte in tutte le sue forme”. “Alla fine di aprile del 1959 – ci ricorda Fabio Benzi, nostra guida preziosa durante il percorso – Alvaro Martini aprì la galleria La Nuova Pesa al primo piano di via Frattina 99. Non era proprio un personaggio marginale, perché politicamente e mediaticamente molto esposto in quella Roma del boom economico incipiente”. Con suo fratello Alfio erano figli di Alessandro Marchini, un socialista che al congresso del 1921 si schierò dalle parti del neo-nato Partito Comunista. Vivevano in Umbria, ma da Moiano, piccolo borgo vicino Città della Pieve, furono costretti a trasferirsi a Roma perché perseguitati dai fascisti. Fu così che si reinventarono: da imprenditori, avevano già costruito la Casa del Popolo distrutta all’indomani della marcia si Roma, e continuarono in tal senso con il primo di tanti palazzi a Monteverde Vecchio. Nel frattempo, i due fratelli erano diventati capi partigiani e medaglie d’argento per le loro azioni in Sabina e nell’alta Umbria. All’indomani della Liberazione, fu proprio Alvaro tra i membri firmatari del giornale L’Unità, il giornale ufficiale del partito, divenendone anche il responsabile organizzativo della sua diffusione nazionale dopo esserne stato lo stampatore clandestino. Due anni più tardi, nel 1946, acquisì dalle Assicurazioni Generali un edificio in via delle Botteghe Oscure per cederlo proprio al PCI, nel frattempo riconosciuto come partito legale, che ne farà la sua sede principale. Il resto è storia.

 


Alvaro e il cugino Aristide leggono rispettivamente “l’Avanti!” e “l’Unità”; alle loro spalle Alfio con il cognato Oscar. Archivio personale famiglia Marchini 


 

“L’apertura di quella galleria, inaugurata nel 1959 con la mostra 31 autori e 31 opere del rinnovamento artistico italiano dal 1930 al 1943, ha sempre voluto essere – aggiunge Benzi – la dimostrazione che l’arte, espressa nel suo Realismo, potesse e dovesse portare un messaggio politico e sociale”. “In un’epoca come quella in cui il mainstream si spostava decisamente sull’astrattismo, la galleria di Marchini difese strenuamente e con intelligenza le istanze di una pittura legata sentimentalmente e ideologicamente alla realtà”.

 


Giacomo Balla, Dittico di Villa Borghese (Paesaggio romano), 1910 olio su tela. Credits Gaia Schiavinotto - Collezione privata © GIACOMO BALLA, by Siae 2021


 

Non tutti i quadri e le opere della loro collezione, realizzati da 77 artisti nazionali e internazionali, che troverete a stretto contatto con quelli già presenti nell’Accademia, sono stati oggetto di mostre nella celebre galleria: per esempio le opere di Giacomo Balla – il Ritratto di Ettore Roesler Franz a Villa d’Este (1902) e il Dittico di Villa Borghese (1910) – volutamente messi in una stanza del terzo piano, là dove la mostra entra nel suo vivo. Ci sono anche la Villa Romana (1922) e la Frutta su un tavolo con tovaglia (1030) di Giorgio de Chirico; i piumini (1940) e il ragazzo (1941), a dir poco straordinari ed entrambi sulla spiaggia, di Filippo De Pisis; c’è la veduta umbra (1922) di Soffici e il Festival (1924) di Carlo Carrà, oltre all’isola di giocattoli (1930) di Alberto Savinio. La grande collaborazione professionale – trasformatasi poi in amicizia – tra Alvaro e Daniel-Henry Kahnweiler, il mercante di Pablo Picasso, lo portò, inoltre, a realizzare ben due mostre nella sua galleria. Il Paysages de Vallaauris (1950), presente in quella odierna romana, ci regala tutta la grandezza del grande artista spagnolo, posizionato poco distante dall’Aquarium (1951) di Georges Braque, dal Violin er livre (1924) di Juan Gris, da la Nature Morte (1924) di Fernand Léger, dal Paesaggio di Heagu (1927) di Otto Dix - che quasi si confonde con la natura di Albert Marquet – e da due di René Magritte: L’amour (1949) e La science des rêves (1950), assolutamente imperdibili. 

René Magritte, La science des rêves (1950 olio su tela) Credits Gaia Schiavinotto - Collezione privata © RENÉ MAGRITTE, by Siae 2021


 

Elencarvi tutti gli altri è inutile, perché così facendo rischieremo di rovinarvi l’effetto sorpresa che una mostra del genere tende a offrire, ma concedeteci di menzionare le varie nature morte di Giorgio Morandi, i diversi Guttuso. L’autoritratto di Carlo Levi che si perde tra molteplici e noti volti, e la purezza di Osvaldo Licini e delle “Uova fresche” di Edita Broglio, unici nel loro genere.

 

La mostra prosegue, poi, lungo la rampa elicoidale dell’Accademia dove quella storia a dir poco straordinaria si dispiega come fosse la pellicola di un film, con foto di amici, artisti, familiari, attori (su tutti, Burt Lancaster, reduce dal Gattopardo, che comprò un Guttuso per Visconti), attrici, registi e calciatori (Francesco Ciccio Cordova divenne il secondo marito di Simona, conosciuto grazie a suo padre che nel frattempo era diventato anche presidente della AS Roma). Quadri e opere che ripercorrono la storia di quella galleria che cambiò sede e poi chiuse nel 1976, per essere riaperta dalle figlie Simona e Carla nel settembre del 1985, un mese dopo la morte dell’amato papà. Stesso nome, altra via (del Corso) e stessa città, in un ideale continuità sentimentale che l'ha resa testimone del proprio tempo fino a giungere ai nostri giorni, uno spazio per esperienze oramai scevre di posizionamenti ideologici, se non quelli legati più propriamente all’arte e alla sua capacità di offrire visione e presenza.

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