Ritratto di Luigi XIV con gli abiti dell'incoronazione, dipinto nel 1701 dal pittore di corte Hyacinthe Rigaud 

“Volevo sapere come si fa la Storia”. Kojève e la politica come verifica della teoria

Michele Silenzi

Il filosofo russo alla ricerca del “movimento dello spirito”

Dire che la politica è servizio è uno dei molti modi ipocriti e di cattivo gusto con cui gli uomini mascherano la spontanea volontà di acquisire potere. La politica, al massimo grado, è l’arte di saper gestire il potere. Cosa sia quel “sapere” che serve per gestire il potere e chi è legittimato a detenere quel potere, è il vero campo di battaglia su cui ci si scontra fin dall’inizio del pensiero politico. Per Alexandre Kojève, filosofo russo e grand commis de l’Etat francese nel secondo Dopoguerra, l’azione politica era il campo di verifica della teoria, una verifica che andava compiuta necessariamente vicino a chi quel potere lo deteneva, al di là delle implicazioni morali di quella vicinanza: efficacia e forza sono infatti gli ambiti di cui tener conto.

   
Una simile prospettiva muove dall’idea che la verità non sia un dato, tantomeno un’essenza, ma “che si crea nel tempo a partire dall’errore, e che non esistono criteri ‘trascendenti’”. Pertanto, se la verità si crea attraverso l’uomo, “è necessario imporla attivamente e, se necessario, violentemente alla società. Lo stato non deve essere la sua ideologia: esso ha ‘il compito storico di creare la verità umana.’” Questo pensava Kojève in un periodo in cui la sua filosofia neohegeliana aspirava a una concretizzazione in forma di marxismo-leninismo-stalinismo. Ma la stessa idea di fondo lo porterà a passare con amorale disinvoltura da Vichy (la possibilità di influenzare l’azione politica del tiranno attraverso la sua vicinanza a Henri Moysset, ministro di Petain) al contemporaneo, supporto della Resistenza francese. Nel secondo Dopoguerra abbandonerà questa prospettiva “impositiva” per dedicarsi alla grande negoziazione internazionale come importante funzionario della politica commerciale francese. Fu “maestro” dell’economista liberale e cattolico, e futuro primo ministro sotto la presidenza Giscard, Raymond Barre che dice di Kojève “all’epoca del Gatt rese grandi servizi nell’ambito della negoziazione del Trattato di Roma e della costruzione del mercato comune”. La continuità di questo percorso tortuoso risiede nella concezione della necessità che le teorie trovino verifica e applicazione reale nell’azione politica possibile, non nell’utopia.  

  
La vita e il pensiero di Kojève sono al centro di una documentatissima e brillante biografia filosofica scritta da Marco Filoni, “L’azione politica del filosofo”, appena uscita per Bollati Boringhieri. Una vita che è anche una testimonianza unica di un periodo decisivo del Novecento: nato nel mondo sognante dell’alta borghesia moscovita nel 1902, nipote di Kandinskij, educazione cosmopolita, fuggito  dall’Urss qualche anno dopo la Rivoluzione d’Ottobre con due bicchieri pieni di diamanti di famiglia, educazione ad Heidelberg in filosofia, con Jaspers, poi Parigi dove terrà, giovanissimo, dei seminari decisivi su Hegel (che influenzeranno la cultura francese e quindi occidentale dei decenni successivi). Un Hegel che reinterpreterà a tal punto da derivarne una filosofia del tutto originale. Poi la Seconda Guerra Mondiale. “Terminai la lettura della Fenomenologia proprio quando scoppiava la guerra”. Riecheggiano qui i cannoni di Jena che Hegel sentiva mentre finiva di scriverla la Fenomenologia, e Kojève, possiamo dire, la riscrive leggendola (ermeneutica assoluta) in un altro momento che è certo inizio della guerra, ma anche termine di un’epoca. Sia della storia sia della sua vita. 

   
Nella vicenda di Vichy appare evidente il suo doppogiochismo, e soprattutto la sua urgenza di misurarsi con il potere, con l’azione che cambia la storia, anche a costo di totale immoralità. Dopo la guerra si farà promotore di una sorta di pacificazione nazionale contro quegli intellettuali che invece avrebbero voluto vedere defenestrati tutti coloro che non si erano opposti con ogni mezzo a Vichy. In quel periodo incontra il suo vecchio allievo Robert Marjolin, economista e futuro commissario europeo per gli Affari economici, che lo introdurrà nell’amministrazione francese. “Quando l’amico Raymond Aron gli chiese come mai aveva lasciato la filosofia, almeno pubblicamente, per entrare nell’amministrazione, Kojève gli rispose: ‘Volevo sapere come si fa la storia.’”

 

E Raymond Van Phan Phi, futuro direttore generale per gli affari commerciali della Commissione europea, disse: “Credo che Kojève, dopo aver manifestato il dominio dello spirito, della dialettica e del ragionamento, volesse a un certo punto fare qualcosa di più pratico […] ha voluto provare ad avere un’influenza sulla vita concreta”. Ma quest’uomo, che pur divenne un’eminenza grigia della politica commerciale francese, è probabile che abbia fatto di più quella “Storia” su cui aveva meditato per tutta la vita attraverso il suo pensiero. Se la storia, infatti, non è semplicemente la storia politica ma “movimento dello spirito”, questa stava tanto nei cannoni napoleonici di Jena e della Seconda Guerra Mondiale quanto nella penna di Hegel e nella voce di Kojève durante i suoi seminari sulla Fenomenologia.

   
Ci sarebbero molte cose da dire sul Kojève filosofo, sulla sua atea ossessione per Dio, e non basterebbero libri per dire della sua rilettura di Hegel e della fine della storia. Come ce ne sarebbero sulle sue idee politiche del secondo Dopoguerra, sul capitalismo che con Henry Ford (ironicamente definito “l’unico grande e autentico marxista del Ventesimo secolo”) aveva smentito Marx, sul “colonialismo donante” o sulla necessità degli “imperi, cioè delle unioni, anzi delle fusioni internazionali di nazioni imparentate” che dovrebbero costituire la nuova realtà politica nel momento in cui la nazione cessa di essere una realtà politica. Ma tempo e spazio sono tiranni. Leggete della vita e del pensiero di questo uomo geniale, insondabile e del tutto amorale. In un’epoca, la nostra, in cui una vaga ma censoria etica pubblica diventa tutta l’azione politica possibile squalificando ogni idea potente (giusta o sbagliata che sia) che non ricada nel suo uniformante banalissimo ventre.  

 

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