John Keat. Incisione su legno d’apres J. Severn, 1819 (Wikimedia)

Curiosare fra le lettere di Keats e disvelare il lato sconosciuto della sua poesia

Giulio Silvano

“La valle dell’anima”, un’autobiografia spirituale, tra rime, commenti, citazioni e banalità. Perché leggiamo gli epistolari altrui? Per scovare tracce di letteratura spontanea

Ci si sente sempre un po’ dei voyeur a leggere gli epistolari altrui, anche se gli autori sono morti nel 1821. Esistono pochi testi capaci di mostrare il privato dei nostri eroi come le lettere inviate a persone care, in un tempo in cui queste erano l’unica forma per comunicare a distanza. Il discorso vale ancora di più per chi nella vita non lascia diari o saggi autobiografici e pubblica sì e no una cinquantina di poesie, come John Keats, la cui immagine condivisa è quella dell’artista consumato dalla musa, che muore a venticinque anni con la penna in mano. “Continuo a pensare che moriremo tutti giovani”, scrive nella sua ultima lettera da Piazza di Spagna. Nelle sue missive agli amici e ai fratelli, Keats non si pone limiti, né su quello che pensa né sulla forma che usa: i testi sono spesso un flusso colloquiale dove la mente si riversa direttamente sulle pagine, come se tutta l’energia compositiva e il rigoroso equilibrio fossero già stati utilizzati per perfezionare al massimo Ode su un’urna greca o La vigilia di sant’Agnese, e la corrispondenza fosse uno spazio libero di accettare qualsiasi sfogo. Lo dice il poeta stesso: “Quando scrivo una lunga lettera devo essere in grado di seguire i miei ghiribizzi… di essere pesantissimo o leggerissimo per pagine intere… di essere bizzarro e immune da tropi e figure”. Così ci ritroviamo, nel mezzo del racconto di una banalissima gita nella campagna scozzese, catapultati tra le rime di una ballata spontanea per poi saltellare tra premurose attenzioni fraterne, citazioni di Byron, commenti socio-politici: “Questi americani saranno pure grandi, ma non sono sublimi…” e proclami come “Adoro il bel tempo... è la cosa che mi dà più gioia. Datemi libri, frutta, vino francese, bel tempo e un po’ di musica all’aperto … e potrei passare l’estate in santa pace senza preoccuparmi troppo di quel grassone di Luigi [XVIII]”. Come dice Alessandro Gallenzi, che ha curato per Adelphi queste lettere scelte, La valle dell’anima (a oggi la raccolta più completa in italiano), “l’epistolario diventa così, più che uno strumento di riscontro biografico, una sorta di autobiografia spirituale”. 

       
In tutto questo vorticare resta nella quotidianità di Keats un fisso ardore per la poesia. Più che una passione è uno stato mentale, come un virus entratogli così a fondo nel patrimonio genetico da modificare la sua percettività. “Sento di non poter esistere senza poesia… senza la poesia eterna… mezza giornata non mi basta… o l’intera giornata”. L’ambizione poetica è anche cura: “Ma a chi ama l’alloro a volte avviene / di riuscire a scordare le sue pene” e il successo portato dalla storia resta il vero rifugio dal dolore: “Vive gioie ha il poeta, ma ne avrà / ancor di più dalla posterità”. Nelle missive dei vent’anni vediamo poi quanto sia intimo e nodale il commovente attaccamento a Shakespeare. Imparate a memoria, le tragedie del Bardo vengono citate come si fa con le sacre scritture. Trovato per caso un suo ritratto in una casa presa in affitto sull’Isola di Wight, se lo fa regalare dalla vecchia padrona e lo porta in giro con sé. 

    
Perché leggiamo le lettere, quindi? Perché infiliamo il naso dentro le corrispondenze private? Non è solo un istinto filologico, un bisogno di sapere tutto sulla vita di chi ammiriamo, e non è nemmeno solamente una questione di mera curiosità o necessità di umanizzare i miti svelando le loro quotidianità (i mal di gola, le recensioni delle taverne, le impressioni su certe usanze…) ma è per scovare tracce di letteratura spontanea, per cercar frasi e pensieri che a volte nulla hanno da invidiare alle grandi opere per cui si viene incoronati con l’alloro.
 

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