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Viaggio poetico

Per una antologia tascabile, due versi al massimo, della poesia italiana 

Matteo Marchesini

Didattica d’emergenza a misura di tweet. Una selezione pratica di autori

All’inizio del Novecento, quando s’impose l’estetica di Croce, molti si dedicarono a isolare nelle opere la poesia pura dagli impuri cascami dei generi, della letteratura civile o religiosa, della storia. La “Commedia”, ad esempio, appariva come una vasta fabbrica impoetica, in mezzo alla quale si levavano singoli episodi di grande arte. Emilio Cecchi, in un suo saggio, ironizzò su questa tendenza a ridurre i poeti “al massimo di concentrazione estetica e al minimo di superficie verbale”, e a buttare interi poemi per tenere un verso solo, tentando di far entrare la Vaticana “in una scatola da cerini” e “il British Museum in un portasigarette”. Oggi però, dato il restringersi dello span di attenzione alla misura del tweet, forse la satira può rovesciarsi in una didattica d’emergenza. 

 

Proviamo a immaginare come sarebbe un’antologia tascabile dei massimi autori italiani secondo lo schema Cecchi: un verso, anzi un endecasillabo per ciascuno. Dal “Canzoniere” di Petrarca sceglierei quello cruciale del sonetto posto a prefazione: l’allitterante “di me medesmo meco mi vergogno”, in cui c’è tutta la compiaciuta battaglia di un’anima sospesa a lungo tra gli amori effimeri del mondo e la via del Signore. Il ritmo e il tema dell’“Orlando furioso” sono ben riassunti da un endecasillabo caratteristicamente bipartito del canto XXIII: “ch’altra Angelica sia, creder si sforza”. Il soggetto è Orlando, il quale sugli alberi di un luogo ameno vede le scritte che testimoniano gli amori di Angelica con il fante Medoro. Malgrado riconosca la mano dell’amata, fino all’ultimo il paladino cerca di convincersi che si tratta di un’altra donna – e lo è davvero, rispetto al miraggio che insegue. Ma forse di un poema così lungo si può tenere un distico, la coda in rima baciata di un’ottava. Poco oltre, dopo aver letto all’ingresso di una grotta la versione di Medoro, ormai stordito dalla verità, Orlando si fa simile a una pietra: “Rimase al fin con gli occhi e con la mente / fissi nel sasso, al sasso indifferente” (di nuovo un verso bipartito, che seguendo con enjambement a uno sciolto, lineare, crea il tipico effetto cullante dell’Ariosto). Più facile scegliere dalla “Gerusalemme liberata”: prelevo senza esitazione il prezioso “e trovando ti perdo eternamente”, pronunciato da Erminia davanti a Tancredi creduto morto. Nell’ossimoro emerge la forma mentis di Tasso: solo sulla soglia della morte si può conquistare quell’amore che del resto, per la ragazza, consiste nella cura materna del ferito. Di fronte a Leopardi invece sono incerto.

Mi tenta “virtù non luce in disadorno ammanto”, dove il poeta deforme si confessa attraverso la maschera di Saffo. Ma una sentenza della “Ginestra”, “Non so se il riso o la pietà prevale”, permette di dar conto insieme del Giacomo straziato e di quello sarcastico, che sferza gli uomini convinti di essere il centro dell’universo, mentre a cancellarli basta la lava al cui bagliore riluce “di Capri la marina / e di Napoli il porto e Mergellina” (il più bel verso panoramico della poesia moderna). E dato che siamo al sarcasmo, scegliamo anche dal Belli, “La creazzione der monno”. “Ommini da vienì, sete futtuti”, conclude dopo il peccato “Gesucristo”, come un qualunque romano che nel futuro indovina sempre un déjà-vu. 

Infine, il Novecento. Da Montale ritaglierei la morale di “Palio”, una delle tante liriche delle “Occasioni” in cui a una bolgia di spettri si contrappone il “tu” della donna-angelo: quel “ma il solco resti inciso. Poi, nient’altro” che ha una scansione molto montaliana, e che pur essendo riferito a una trottola fa pensare al suo stile “a bulino” e alla sua passione per la musica. Con Sandro Penna c’è l’imbarazzo della scelta, dato che nelle sue canzonette dissemina con noncuranza singoli versi sapienziali che sembrano le colonne di un antico tempio in rovina. “Ognuno è nel suo cuore un immortale”, dice ad esempio subito dopo aver evocato un popolare “varietà”; e così descrive benissimo il sentimento col quale si muove randagio in un paesaggio dal tempo non storico ma mitico. E a proposito di miti: ho saltato Dante, lo so. Ma con lui la riduzione è un gioco temerario. Bisognerebbe prendere almeno una terzina per cantica, e far percepire la materia scultorea dell’Inferno, la natura pittorica del Purgatorio, l’aria musicale del Paradiso. In ogni caso, va senz’altro citato il momento culminante dell’estasi, in cui nella luce divina “vidi che s’interna / legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna”. Una sintesi suprema di ciò che è sparso e diviso; sintesi che all’uomo non è permesso fare senza perdere qualcosa - cioè senza mettere insieme, in un volume infinitamente più piccolo, la sua antologia.

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