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Il paradosso della cultura contemporanea

Rémi Brague

L’attuale deriva nella concezione dei “diritti umani”, il passaggio da un’antropologia della persona a un’antropologia dell’individuo, porta all’autodistruzione di questi diritti. In gioco c’è la nostra libertà

Al giorno d’oggi, il fatto che più salta agli occhi è che la nozione di persona sta gradualmente cedendo il passo a quella di individuo. Ricordiamo qui alcuni fatti ben noti: la persona è un essere concreto, un essere di relazioni, con un genere, una storia, una lingua, varie appartenenze. L’individuo invece, come indica chiaramente il suo nome, è il risultato di una serie di divisioni che tagliano il tessuto concreto dell’essere umano. E’ il risultato finale di questi tagli di forbice: l’indivisibile, se vogliamo parlare latino, o l’atomo, se preferiamo il greco. Come tale, si suppone che l’individuo non solo sia in grado di esistere benissimo in maniera autonoma, ma che sia proprio questa capacità a definirlo.  

Due poteri stanno spingendo con forza in direzione di una sostituzione della persona con l’individuo: lo Stato e il mercato. Entrambi, in base alla loro logica interna, vogliono avere a che fare con individui atomizzati, senza legame con nulla, con il minimo di appartenenza possibile. Il mercato vorrebbe ridurli alla loro condizione di produttori-consumatori. Lo Stato vorrebbe ridurli allo statuto di elettori, e alla fine a carne da cannone. Questa visione ci influenza segretamente, e per lo più senza che ce ne accorgiamo.

 

Mentre la nozione di persona tende a svanire, cresce parallelamente la rivendicazione di una libertà illimitata. E’ una libertà che si definisce in relazione alle autorità, che vengono tutte rifiutate. Ma allo stesso tempo è una libertà che cerca il riconoscimento. E per far questo, ha bisogno di un’autorità che si ponga come la più potente possibile, la più capace di garantirla o anche di difenderla, se necessario. Questa libertà prende la forma del possesso di “diritti”. Le autorità, e in particolare quella più alta, ossia l’autorità dello Stato, si riducono così a un organo incaricato di garantire dei diritti, e dei diritti che appartengono a individui isolati.
Questo è uno dei paradossi della cultura contemporanea. Da un lato, afferma la dignità umana e inventa costantemente nuovi diritti, che si suppone siano tutti “diritti umani (quelli che una volta erano chiamati i “diritti dell’uomo”). D’altra parte, questa cultura non è in grado di dire perché l’individuo della specie umana, il “bipede senza piume” di cui parlava Platone, dovrebbe avere qualcosa di simile ai diritti. Un individuo, in quanto tale, non ha diritti. Solo una persona può avere diritti. L’attuale deriva nella concezione dei “diritti umani”, il passaggio da un’antropologia della persona a un’antropologia dell’individuo, porta logicamente all’autodistruzione di questi diritti. Ma questa è un’altra storia, per la quale rimando al lavoro di Grégor Puppinck.  

 

Consideriamo innanzitutto in cosa consiste la nostra rappresentazione della libertà.  Essa si manifesta primariamente nel campo politico. Poco più di trent’anni fa, il filosofo americano Richard Rorty scriveva: “An ideal liberal society has no purpose except freedom”.   A prima vista, si tratterebbe semplicemente di portare alle sue estreme conseguenze una sensibilità più antica, presente per esempio in David Hume, il quale diceva, due secoli prima: “liberty is the perfection of civil society”, o nello storico cattolico anglo-tedesco Lord Acton, noto per una storia della libertà che non riuscì mai a completare e che riassunse uno dei suoi lavori preparatori, del 1877, con le parole: “liberty is not a means to a higher political end. It is itself the highest political end”.

Tuttavia, il cambiamento nel vocabolario inglese da liberty a freedom indica uno slittamento nella concezione di ciò che significa essere liberi. La parola di origine latina “liberty” implica un sistema organizzato di vita comune, una politica all’interno della quale le persone possano trovare la loro realizzazione. La parola sassone “freedom” (a dispetto della sua etimologia) è arrivata a implicare individui isolati, atomi che cadono in quella che si chiama “caduta libera”, dunque “liberamente”, ovunque li portino i loro desideri, e che entrano in contatto tra loro solo come risultato di un clinamen sostanzialmente inspiegabile come in Lucrezio. La filosofia politica precedente, di tradizione classica – per dirla in un solo termine: aristotelico-stoica –, non accettava questa riduzione dei fini della città alla libertà, e talvolta lo diceva esplicitamente. Così Jean Bodin (morto nel 1596), uno dei padri fondatori del pensiero politico moderno con il suo concetto di sovranità, ha scritto: “libertatis causa non sunt respublicae constituendae, sed bene vivendi”.

Il giurista francese si limita ad affermare qui ciò che, per i suoi lettori cresciuti con la letteratura e la filosofia classica, dev’essere sembrato ovvio, se non banale: lo scopo della vita comune degli esseri umani non è solo vivere (zoe), ma raggiungere la vita buona. I lettori non avranno avuto problemi a riconoscere l’eu zoe di Aristotele.
Tuttavia, un dettaglio nella frase di Bodin è rivelatore. Il filosofo greco non aveva bisogno di distinguere la vita buona dalla libertà. Per la libertà intesa nel nostro senso, cioè il libero arbitrio della volontà, non aveva una parola che vi corrispondesse esattamente – non più di quanto ne avesse una per la volontà. La scoperta della persona e la scoperta del libero arbitrio sono contemporanee, ed entrambe sono dovute al cristianesimo. Per inciso, se il cristianesimo dovesse continuare a perdere la sua influenza sulla cultura occidentale, ci si potrebbe aspettare che entrambe le nozioni diventino stantie. E io temo che avverrà proprio questo.

La visione premoderna del mondo dava una definizione dell’uomo su cui tutti concordavano: animal rationale mortale. Questa definizione situava l’uomo tra due modi di essere, un livello inferiore, quello dell’animale, e quello degli esseri viventi superiori: per esempio, nel vocabolario delle religioni medievali, gli angeli. L’uomo ha condiviso il suo genere prossimo sia con le bestie che con gli angeli, essendo entrambe delle specie “viventi”. Ma aveva anche due caratteristiche distintive. Una di queste, la razionalità, lo distingueva dalle bestie brute; l’altra, la mortalità, dagli esseri superiori. Dalla razionalità, come ho detto prima, si deduceva la libertà; dalla mortalità, che derivava dalla natura materiale della sua vita incarnata in un corpo, seguiva la sensibilità.

Da un certo momento in poi nella storia delle concezioni e delle rappresentazioni, l’umanità occidentale ha perso il contatto con gli angeli. Sarebbe un argomento affascinante per uno storico delle idee più erudito di me raccontare in dettaglio la storia di questa cancellazione. Per quanto mi riguarda, non sono stato in grado di andare più indietro di Kant, il quale, in una nota del suo scritto sulla religione, osserva di sfuggita che gli angeli sono diventati abbastanza discreti e che non se ne parla quasi più: “Die guten Engel (ich weiss nicht, warum) wenig oder gar nichts von sich zu reden geben”.

 

Sembra che la fuoriuscita da un universo che implicava gli angeli, cioè degli spiriti superiori all’uomo, sia avvenuto verso l’inizio del XIX secolo. In ogni caso, fu in questo periodo che i migliori spiriti europei si resero conto che erano scomparsi. Infatti, fino al XVIII secolo, l’esistenza di esseri creati, inferiori a Dio ma superiori all’uomo, era evidente. Negarlo era segno di stupidità o ignoranza. Sennonché, nel 1823, un olandese, il giovane poeta Isaac da Costa, da poco passato dall’ebraismo a un calvinismo intransigente, francamente reazionario, si lamentava dell’uso antireligioso delle conoscenze scientifiche, soprattutto per ridicolizzare i racconti biblici, che lui stesso intendeva molto alla lettera. In particolare, secondo lui “la scienza della natura è usata per tagliare sistematicamente tutte le nostre relazioni con il mondo degli spiriti (de Natuurkunde om alle onze betrekkingen tot de geestenwereld stelselmatig af te snijden)”.

Il fatto è che i ponti con il mondo degli spiriti superiori erano già stati tagliati. Erano ormai poco più che un oggetto di scherno. Così, un ammiratore di Kant, Arthur Schopenhauer, che lo criticava su questo punto, chiese nel 1840 cosa potesse intendere Kant quando diceva che la sua morale si applicava a tutti gli esseri finiti, non solo agli umani. Chiese con amara ironia se non stesse pensando ai simpatici angioletti (Die lieben Engelein).

Poco più tardi, nel 1843, il grande pensatore politico francese Alexis de Tocqueville, in una lettera a un amico, scrisse: “L’uomo con i suoi vizi, le sue debolezze, le sue virtù, quel confuso miscuglio di bene e di male, di basso e di alto, di onesto e di depravato, è ancora, nel complesso, l’oggetto più degno di esame, di interesse, di pietà, di attaccamento e di ammirazione che si possa trovare sulla terra; poiché non abbiamo angeli, non possiamo attaccarci a niente di più grande e di più degno della nostra devozione che i nostri simili”.

L’osservazione è chiara: “Ci mancano gli angeli”. La loro assenza non è solo una semplice non-esistenza o non-esperienza, bensì è una privazione. Certo, non si è mai parlato tanto di angeli nella letteratura di tutta Europa, da Rilke a Lermontov o William Blake. Ma solo nella letteratura. I filosofi non li prendono più sul serio e li citano solo come metafora, come in Walter Benjamin. Si è persino tentato di interpretare questa rinascita, a livello di finzione, come un fenomeno derivato, che serve a compensare l’assenza di un pensiero concettuale della natura angelica. Nessun pensatore oggi potrebbe più meritare il titolo elogiativo di doctor angelicus, che Tommaso d’Aquino si era guadagnato per la sua teoria degli angeli, paradigmatica per la sua ontologia.


La cancellazione degli angeli, che potrebbe passare per aneddotica, persino folcloristica, ha conseguenze precise per l’antropologia. Porta a una concezione dell’uomo che lo vede come l’essere supremo – se si vuole, immediatamente dopo Dio. Il fatto che gli angeli siano usciti dal nostro orizzonte culturale è ovviamente meno importante in sé della presunta “morte di Dio”, che è mille volte più rumorosa e orchestrata, da Hegel a Nietzsche, passando da Jean Paul. Tuttavia, può avere conseguenze più gravi per la visione che l’uomo ha di sé stesso.

 

L’uomo, così concepito, non si distingue più se non dai soli animali. Perciò vede nel possesso del logos, come razionalità e libertà, il suo unico carattere distintivo. La mortalità, con ciò che l’ha resa inevitabile, cioè la natura sensibile del corpo, e anche con ciò che essa comporta, come la coscienza dell’esistenza temporale, non sono più tra le caratteristiche rilevanti dell’umano. Quanto a ciò che rimane – cioè il logos con i suoi due lati, quello razionale e quello libero –, una volta isolato non rimane più lo stesso, ma assume un nuovo aspetto.

 

La razionalità è ormai una facoltà che fluttua nell’aria. Essa si astrae dalla sensibilità e dalla mortalità, e di conseguenza dalla capacità di desiderare. Tende quindi a ridursi a una semplice capacità di calcolo. Ma in questa capacità, l’uomo è ormai di gran lunga surclassato in velocità e precisione dalle macchine che ha costruito.
La libertà è anch’essa astratta dalla vita, persino capace di rivoltarsi contro di essa. Assistiamo a una sorta di ritorno allo gnosticismo che si pensava esorcizzato dopo l’epoca patristica: lo spirito fluttua sopra un corpo che, di tanto in tanto, abita. C’è la libertà, ma questa libertà non è autenticamente mia, non è la mia libertà. È piuttosto la libertà della mente dal mio corpo.  Il corpo stesso è considerato come pura passività. Le derive attuali della cosiddetta “teoria del gender”, e le loro conseguenze concrete nell’idea di una libera scelta del proprio sesso, della sua riassegnazione aiutata dalla chirurgia e dalla chimica, presuppongono un tale dualismo.

Lo stesso vale per la distinzione che alcuni seguaci della “bioetica” propongono tra uomo e persona. L’essere umano sarebbe una persona solo a certe condizioni, in particolare la coscienza. E quando non sarà più in grado di soddisfare queste condizioni, o quando avrà perso questa capacità, perderà la sua qualità di persona e i privilegi che vi sono connessi. Il neonato, il paziente in coma prolungato, chi è profondamente debilitato o il demente non sarebbero altro che esseri umani. Ma non sarebbero persone: l’uno non lo sarebbe ancora, l’altro non lo sarebbe più. Come semplici individui di una specie particolare – in questo caso l’homo sapiens – non si capisce perché dovrebbero avere diritto a un trattamento più favorevole degli individui di altre specie…

Il corpo sembra essere di mia proprietà. “Il mio corpo è mio!” reclamano gli attivisti che vogliono affermare un presunto diritto all’aborto. Lasciamo da parte la questione se il feto sia una parte del corpo della donna, che la biologia ha da tempo smentito. Lasciamo da parte la questione se il suddetto feto sia arrivato spontaneamente nel corpo femminile, se vi sia cresciuto da solo come il tumore a cui una certa propaganda femminista lo ha paragonato, o se abbia richiesto l’intervento di un’altra persona che poi è scomparsa. Guardiamo solo lo slogan che rende implicitamente il corpo una proprietà. Appare nel XVII secolo in John Locke: “Every man has a property in his own person […] ‘every man is’ proprietor of his own person”.  

Tutta una serie di domande si affollano qui. Proprietà di chi? Chi è l’io che è necessario qui, affinché il pronome possessivo “mio” abbia senso? Deve essere qualcosa di diverso dal corpo. Si pensa naturalmente all’anima. Ma allora dovrà essere concepito in uno stile completamente platonico, e in nessun modo come la forma del corpo. Si può pensare a questo, ma c’è un prezzo da pagare. In secondo luogo, l’idea di proprietà ha senso solo se è il risultato di un’appropriazione. Per diritto io sono il proprietario di ciò che ho fatto con il mio lavoro o che ho acquisito legittimamente comprandolo dal suo precedente proprietario. Ora, io non ho fatto il mio corpo, né l’ho comprato. Sono nel mio corpo. Parlare di proprietà del mio corpo è quindi al limite di un abuso di linguaggio. Ma è un sintomo interessante di una certa immagine dell’uomo.


Pubblichiamo uno stralcio della  della relazione di Rémi Brague, “Persona e negazione della libertà”, tenuta venerdì scorso   al Convegno del Centro Studi Filosofici di Gallarate “Ontologia ed etica della persona”. Brague è  professore emerito di Filosofia medievale e araba presso l’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne.

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