"Oggi il fascismo è nella cancel culture". Parla lo sceneggiatore di Amores Perros e 21 Grammi

Giuseppe Fantasia

Intervista a Guillermo Arriaga, scrittore, regista e produttore. "Il pol. corr. è la malattia dei nostri tempi. L’intolleranza distrugge, ma per fortuna c’è l’arte che deve essere il luogo della resistenza". Il suo ultimo libro, la pandemia, la caccia e quei 'No' che fanno una carriera

“Il politically correct", spiega al Foglio Guillermo Arriaga quando lo incontriamo nel bel giardino esterno dell’Hotel Locarno, "è davvero la malattia dei nostri tempi: è una censura fascista che dobbiamo al puritanesimo americano. Il fascista cerca sempre un pretesto per imporsi e oggi quello spirito ce l’ha purtroppo molta gente”. Chi sono i fascisti oggi? Gli chiediamo. E lui: “Quelli della cancel culture, ad esempio, che scelgono qualsiasi cosa e impongono il loro punto di vista. Nel negare e cancellare, affermano, ma tutto questo imporrà prima o poi una rottura. Fascista è comunque da intendere non come un seguace dell’ideologia della destra più estrema, ma come intollerante. L’intolleranza distrugge, ma per fortuna c’è l’arte che deve essere il luogo della resistenza. Più che pensare a cambiare il mondo – aggiunge - bisognerebbe pensare a interpretarlo e ad esprimerlo. Si pensi al passato: vivevamo in una società molto moralista e in tanti, troppi, stavano male, dalle donne agli omosessuali alle persone di razze diverse. Il sesso, poi, era un tabù e non solo quello. Ora si sta creando una nuova moralità, ma spesso si fa avanti sempre la donnina di chiesa che ti impone la morale. La funzione dell’arte, secondo me, è provocare, non sottomettersi”. 

 

Guillermo Arriaga, sceneggiatore messicano: da "Amores Perros" a "Salvare il fuoco"

 

Lui non lo ha mai fatto. Classe 1958, scrittore, regista e produttore di Città del Messico, è stato anche autore delle sceneggiature della Triologia della Morte di Alejandro González Iñárritu (per i film Amores Perros, 21 Grammi e Babel) e di molti altre. Nei suoi libri parla spesso di intolleranza, resistenza, estremismi vari, contraddizioni e violenze. Lo fa, al meglio, anche nel suo nuovo libro, Salvare il fuoco, uscito prima dell’estate per Bompiani nella traduzione di Bruno Arpaia, più di 800 pagine adrenaliniche in cui ci racconta la storia tra Marina e José, una coreografa alto borghese e un detenuto accusato di omicidio. Nel mezzo, le guerre tra i narcos, la crisi economica, la disperazione, le gioie e i dolori, i morti e la morte in genere.

 

Il libro inizia con tre parole chiave: paura, rabbia e libertà. Cos’è per lei quest’ultima?

È il poter scegliere dove andare e con chi, cosa dire. È il poter scegliere in generale. Tutti abbiamo le stesse opportunità, ma non bisogna mai dimenticare quello che diceva il filosofo Michail Bakunin: “io non sono libero se gli altri non possono esserlo”.

 

Nello scrivere le sue storie – siano esse sceneggiature o libri – lei lo è sempre. Come fa?

Non ho una regola, perché scrivo senza regole, facendo regnare un caos totale dal quale esce quello che si può chiamare ordine. Non conosco filtri quando lavoro e se provoco ferite, poco male: fanno parte del ‘gioco’. Anche per questo nuovo romanzo, ho seguito l’istinto e il momento. Ho sempre voluto raccontare una storia su una possibile relazione di qualcuno appartenente ad un’alta classe sociale con un prigioniero. Non mi interessava, però, il rapporto d’amore tra i due, ma il vedere come si relazionasse e reagisse una persona entrando in carcere. All’inizio, ho pensato a un figlio che visitava il padre, poi a una sposa con il suo sposo, infine è arrivata lei, Marina, una coreografia che incontra un prigioniero ed è lì che nascono scintille.

 

Conosce il mondo del carcere?

No e non ne ho visitati, perché non faccio mai ricerche quando scrivo. Ho conosciuto però persone che sono state in carcere e che appartengono a tutte le classi sociali, in Messico, Colombia, Brasile e Venezuela.

   

Essere nato in un quartiere come Unidad Modelo, a Città del Messico, l’ha aiutata?

Assolutamente. Quel posto mi ha insegnato il linguaggio della strada e la delinquenza. Mi ha insegnato a vivere e a sopravvivere. È stato fondamentale.

   

     

Lei si definisce “un cacciatore che fa lo scrittore”: in che senso?

Nel senso che sono davvero un cacciatore che scrive. Mi piace molto, soprattutto cacciare.

 

In quei momenti, può succedere di tutto, dall’imprevisto alla sorpresa.

È chiaro, è una situazione di grande caos che è poi, come detto, alla base della mia letteratura. La caccia è soggetta ai cambiamenti climatici e alla natura in genere. Ciò che non ti taglia, ti morde e ciò che non ti morde, ti pizzica. Nel deserto, dove vado spesso, si passa da 30 gradi il giorno a meno 5 di notte.

 

Cosa prova quando spara?

Non sparo: uso l’arco.

 

Ancora peggio, ce lo lasci dire.

Per me è un’emozione, tutto qui.

 

Vita e morte, dolore e gloria: temi che ritroviamo sempre in tutti i suoi lavori.

Sì, sono sentimenti molto forti e contraddittori. La caccia è per me uno dei modi migliori per conoscere la natura umana, perché in quel momento provi emozioni forti e contraddittorie: dalla frustrazione alla colpa, dall’emozione al rispetto.

  

Il rispetto: con la pandemia molte persone hanno imparato secondo lei ad averlo?

Non proprio. Pensi alla signora delle pulizie di mia madre: è entrata in contatto con una ragazza del palazzo che aveva il Covid, non lo ha detto, ha visto mia madre e l’ha contagiata. Nel giro di pochi giorni, mia madre è morta.

 

Cosa le ha insegnato la pandemia?

In termine di Letteratura, che non è un atto solitario. In quel periodo sono nati centinaia e centinaia di club di lettura con cui ho dialogato via Zoom, la dimostrazione che la gente ha bisogno di condividere.

 

Da scrittore, come ha riorganizzato la propria vita professionale e personale?

Per lavoro ho passato 14 ore al giorno su Zoom e non sto scherzando. Ho fatto molte interviste e parlato con tantissime persone, dal Messico alla Spagna e non solo. Una gran fatica, ma una grande soddisfazione.

 

Non poteva dire di no?

No, perché i lettori si vincono e si guadagnano. Uno per uno.

 

Quanto è difficile saper dire di no?

Quando devo dirlo, lo dico senza problemi. Si può scegliere a chi dirlo. Costi quel che costi.

 

Dirlo è sicuramente un privilegio oltre ad una grande forma di libertà.

Certo. Nel cinema, ad esempio, la mia carriera l’hanno fatta più i ‘no’ che i ‘sì’. Ho detto di ‘no’ a dei progetti che se glieli racconto, mi prenderà per pazzo. L’ho detto ai più grandi registi e star di Hollywood, ma non mi pento affatto.

 

Dimostra più che mai di essere un gran figo.

(ride, ndr). Più no dici, più sei desiderato.

 

Questo non vale però solo nel lavoro.

Esatto: vale in ogni campo (ride di nuovo, ndr).