La lettura

Una vita a rincorrersi

Marco Archetti

“Le due inglesi e il continente”: cinquant’anni fa il film di Truffaut tratto dal più bel romanzo di Roché. L’amore che fugge e tre personaggi che si mancano sempre. Perché l’esistenza è una somma di occasioni mancate

E adesso? Che cosa ne facciamo di tutto questo casino?”. Sono i primi di giugno del 1971 e nella sala di montaggio degli studi Victorine di Nizza – studi americani, quasi in disuso – François Truffaut ha appena preso visione del materiale che ha girato per il suo undicesimo film, “Le due inglesi e il continente”. Dopo mesi di riprese e, prima ancora, di febbrili riscritture portate a termine in una clinica per curare una tremenda depressione che lo aveva aggredito dopo un periodo di superlavoro culminato in un viaggio promozionale negli Usa, quel che Truffaut si ritrova tra le mani è materiale informe e sovrabbondante, in un certo senso indomabile, probabilmente fallimentare.

 

Il girato si basa su una sceneggiatura ridotta a un terzo rispetto alle iniziali, spaventose 552 pagine dattiloscritte, quando – era gennaio 1969 – il suo cosceneggiatore Jean Gruault gliel’aveva consegnata aggiungendo questa nota: “Ho avuto, diciamo, qualche problema con ‘Le due inglesi’…”. Da lì, un anno e mezzo di forbici matte e disperatissime, fino ad approdare a 192 pagine per un totale di 101 scene. Meglio. Ma ancora troppo, al punto che, durante tutte le riprese, Truffaut non smetterà davvero mai di tormentarsi e tagliare, reimpostare, riscrivere, sfrondare, togliere, accorpare. Dopo sessanta giorni a Cherbourg, in Normandia (l’attuale Cherbourg-Otteville, nel 1912 fu la seconda fermata del Titanic), il film è pronto per il montaggio. A quel punto, l’amara sorpresa.


“Arrivava in sala,” raccontò il suo collaboratore Yann Dedet, “domandava un’aspirina e si metteva in un angolo, senza parlare, a scrivere e riscrivere”. Storia di un’ossessione? Certamente. Ma, soprattutto, di un cimento irto di difficoltà già sulla carta, trattandosi di una riduzione di un romanzo irriducibile. “Ci sono tre personaggi che non si incontrano quasi mai, se non per iscritto,” sintetizzava Truffaut nei momenti di peggior sconforto. Tuttavia non fu mai vinto dalla tentazione di abbandonare quel progetto, troppo significativo per lui. Cosa c’era, in quel romanzo, di così importante? E chi era questo scrittore da lui tanto amato?
 

Henri-Pierre Roché era uno che, secondo Jean Paulhan, non aveva fatto carriera per colpa della sua grande pigrizia – “come accade a tutte le persone simpatiche”, si affrettava ad aggiungere. Con l’aria di uno che era sempre appena tornato da un viaggio, alto, allampanato e impacchettato nei suoi perfetti completi di tweed, Roché non sembrò mai seriamente interessato ad affermarsi, forse perché debuttò già settantenne nel 1953, col primo romanzo “Jules et Jim” e, dopo aver bissato con “Les deux anglais et le continent”, morì nel 1959, lasciando un testo incompiuto dedicato a Marcel Duchamp. Insomma, una carriera di due capolavori e durata sette anni. Ma la parte interessante della vita di Roché – che sulla pagina trovò formule sorprendenti e tocchi di pura grazia espressiva grazie a quel suo stile telegrafico eppure compiuto, sinuoso e indescrivibile – è nella sua biografia. Una biografia vasta e bohemien, strabordante come un cappello pieno di ciliegie e vorticosa come le acque di quel torrente che le due inglesi, a zonzo con il loro amico francese, scoprono un pomeriggio, in passeggiata, in una delle scene più liriche del film. Una biografia che non si può circoscrivere nella tardiva ribalta letteraria – e ribalta per modo di dire: la sua prima opera cadde presto nell’oblio, il Premio Goncourt non gli fu mai assegnato come pure, a un certo punto, si ventilò, e la schizzinosa società letteraria non lo accolse mai davvero a braccia aperte.


Orfano di padre e allevato da una madre autoritaria, lasciò gli studi di disegno e si iscrisse all’École de Sciences Politiques seguendo i corsi di Albert Sorel, uno che intendeva le lezioni in questo modo: “Signori, siamo al Congresso di Vienna”. Poi indicava tre studenti. “Lei è l’Inghilterra, lei la Francia e lei la Prussia. Avanti, discutete!”. Fu proprio Sorel che convinse Roché a non avventurarsi lungo i sentieri impervi della carriera diplomatica, ma a diventare un curioso. “Non è un mestiere!” obiettò lo scrittore. “Non ancora,” reagì Sorel, “ma presto lo sarà. Si ricordi: il futuro appartiene ai curiosi”.


Roché lo prenderà alla lettera e si darà a un’esistenza torrenziale ed esuberante, che lo porterà prima a Vienna con Peter Altenberg (capello, mantellina e baffi spioventi alla slava, grande amico di truffatori, cocchieri, attricette e puttane, bohemien dei bohemien per alcuni, genio senza capacità per altri, adoratore di femmine giovani e gran mancatore di parola e pagamenti, Roché ne rispetterà i ritmi circadiani invertiti: sveglia alle otto di sera e a letto alle otto del mattino), quindi a Conway, in Inghilterra, a socialisteggiare sentendosi Tolstoj, infine a Parigi, dove abbraccerà con passione il mondo di quella boxe che praticherà con generosità e abilità, soccombendo solo – secondo le fonti dell’epoca e la bella postfazione di Ena Marchi all’edizione Adelphi de “Le due inglesi” – da Georges Braque. E’ nella capitale francese che Roché troverà la sua dimensione: collezionista arguto e infaticabile, a lui si deve il primo appuntamento tra Picasso e Gertrude Stein. Diventerà anche inseparabile amico di Eric Satie, uno che – scriveva – “somigliava a Socrate”. Lo scoppio della Prima guerra mondiale lo vedrà a New York, occupante di uno scantinato e frequentatore degli speakeasy del jazz, luoghi amati in cui risuonava incessantemente, gonfiando le pareti, quella nuova musica tutta selvaggeria e ardore. A un certo punto diventerà perfino consigliere di un rajah e, sul punto di trasferirsi in India, convinto di aver trovato lì il suo paradiso, nel 1940, a causa di una fobia per i serpenti ritenuti troppo pericolosi per l’incolumità di suo figlio piccolo, tornò alla casella iniziale. E si ritirò a fare il professore di francese, di ginnastica e di scacchi in un paesino del dipartimento della regione Alvernia-Rodano-Alpi.


“Le due inglesi e il continente” è il suo romanzo più bello e dimenticato. E’ ambientato nei primi del Novecento e Roché lo scrisse saccheggiando faldoni di lettere d’amore scritte e ricevute – gentaccia, gli scrittori – e racconta la storia dell’amore di Anne e Muriel, due sorelle inglesi, puritane, per lo stesso uomo, un giovane francese assai più disinvolto, seppur anch’egli esposto al destino beffardo e asimmetrico di una vita “fatta di frammenti che non si ricongiungono”. E’ tutto qui, alla fine, il nocciolo tragico di questa storia d’amore che alterna grazia e inferno, dolore ed estasi, amore purissimo e palpito fisico, intensamente sessuale: è nel senso dell’irraggiungibilità della vita, nella consapevolezza di non poterla mai stringere tra le mani facendo coincidere il tempo dei sentimenti col tempo della realtà. Una storia perfetta, piena di simmetriche vicissitudini e asimmetriche lacerazioni, scritta in una lingua piana e implacabile, fredda e acuta, che ha conquistato Truffaut per ragioni in parte autobiografiche (la morte, pochi anni prima, dell’attrice Françoise Dorléac) e in parte schiettamente letterarie.


 A leggerlo ora, imbevuti di senno del poi, sembra un romanzo fatto appositamente per essere portato al cinema da uno come Truffaut, che – tra il mozartiano e il tremendo – della celebrazione dell’amore che fugge, della passione e del tempo ha fatto il centro di tutto il suo racconto.


Eppure l’operazione fu difficilissima: come si fa se si è alle prese con un romanzo pieno di lettere e di pagine di diario, che ha tre voci narranti e tre punti di vista che si sovrappongono, si accavallano, si contraddicono? Un romanzo in cui il dolore è ampiamente rappresentato, certo, ma secondo strutture e linguaggi che sembrano intrasportabili al di fuori della letteratura? Come ha fatto Truffaut, che l’ha piegato alle proprie esigenze senza farsi troppi scrupoli, arricchendolo di pathos, sfruttandone il palinsesto, schiodandone i cardini e reinchiodandoli alla bisogna, tradendo il testo ma solo per essergli più fedele, e passando i giorni a togliere, inventare, ripulire, a far di tutto per riuscire a tradurlo nel linguaggio del cinema. Valga per tutti l’episodio della sedia di Muriel. Siamo all’inizio della storia e, dopo aver conosciuto Anne, una sera, durante una festa, il giovane Claude (che per la versione cinematografica venne interpretato da Jean Pierre Léaud, cui Truffaut aveva detto: “Recita come se fossi nato ricco e alto”) viene invitato in Inghilterra a casa delle sorelle. Ma alla cena di presentazione parteciperanno solo Claude, Anne e la madre. Grande è la curiosità del francese per Muriel: dov’è? arriva o non arriva? Alla fine no, Muriel non si presenterà, e trascorrerà tutta la serata in camera propria con gli occhi bendati per via di una malattia  – ma nel romanzo, Muriel, a quella cena, si presenta eccome – e così Claude passa tutta la serata a fissare la sua sedia vuota, e noi con lui. Una cena che trascorre nel silenzio, con frequenti incroci di sguardi che convergono tutti verso la sedia vuota: ed ecco che Truffaut strappa a una pagina di Roché una possibilità di cinema, dando a un’assenza la fisicità di una presenza.


Uscito esattamente cinquant’anni fa, capitolo tra i più misteriosi, disperati e commoventi di tutta la cinematografia di Truffaut, che  in fondo è il regista più letterario di sempre – non tanto nei procedimenti, ma per numero di adattamenti – “Le due inglesi e il continente” è proprio la storia di tre presenze che si illudono di ingannare l’assenza a cui sono condannate. I tre personaggi si mancano sempre, non c’è scampo. Dapprima, Anne fa di tutto perchè Muriel e Claude si innamorino. E allora Claude si convince di amare Muriel e le si confessa, ma Muriel lo respinge. Appena torna un po’ sui suoi passi, verranno forzatamente separati per volere delle rispettive madri, due perfetti modelli di iene crudeli e fredde (bei tempi quando le si poteva rappresentare così senza incorrere nello stracciamento di vesti delle prefiche del suprematismo materno). Durante la separazione, Claude si innamora di altre donne, copula variamente e si disinnamora di Muriel proprio mentre Anne si innamora di lui e con lui allaccia un rapporto libero e felice. (A proposito di assenza: dopo l’amore, una volta, gli dice: “Non mi sento qui”). Poi verrà la morte di Anne – per tubercolosi, del tutto assente nel romanzo – e il tardivo amore di Claude con Muriel, che lo ama per una volta sola quasi per bisogno di chiusura cerchio, con trasporto ma anche con freddezza, infatti subito dopo lo abbandona, sposa un altro e ci fa un figlio.


E alla fine, dopo una vita a rincorrersi senza esserci mai – mai nello stesso momento, mai nel modo in cui l’altro vorrebbe – ecco, improvvisamente, la vecchiaia. “Cos’ho oggi? Sembro un vecchio” dirà Claude, in un finale indimenticabile, passeggiando in un parco, tra le stesse statue che ammirava con Anne.


Film fisico sull’amore, film sull’impossibilità di realizzarsi attraverso l’amore e dunque, in un certo modo, film contro l’amore, non ebbe il successo che meritava. “Ho sentito il bisogno di andare più avanti nella descrizione delle emozioni amorose, di andare più lontano di quanto non si vada di solito. Esiste, talvolta, nell’amore, una vera violenza dei sentimenti”, dichiarerà Truffaut a film uscito, a film abbondantemente frainteso e presto scivolato nel dimenticatoio in barba alla fatica che era costata al suo regista – regista che, prima di morire, rimonterà il film con le scene che aveva tagliato per accontentare i produttori.


Ciò che non è accaduto prima non accadrà dopo: ecco il senso profondo di questo film impietoso e chiarissimo nel dirci che la vita è morte. Che la vita è una somma di occasioni mancate, di tempi sbagliati, di impressioni inattendibili. Che se ne va. E che, proprio mentre dovrebbe semplificarsi, si complica, lasciandoci i cocci, e tutta l’amarezza di conti che non tornano. “Non sono nessuno, non esisto, non capisco nulla della vita” si ripete Claude, a letto per tre giorni, annientato, al buio, dopo che Muriel se n’è andata per sempre – Muriel di cui non saprà più nulla, Muriel che si è trasformata in un’ombra proprio nel momento in cui l’avrebbe voluta accanto a sé. Morendo, Anne dirà: “Ho la bocca piena di terra”. Anni prima, a Muriel, Claude aveva detto, sfiorandola con una mano: “Sei una creatura di questa terra, che è bello toccare”. Sulla terra si vive, con la terra si muore.
Come auspicato dalla madre, Claude diventerà scrittore. E al suo editore, vecchio amante di Anne, confesserà: “Mentre scrivevo ero infelice, ma adesso no. Adesso ho la sensazione che i personaggi abbiano sofferto al posto mio”.

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