Francesco Fei (Epa/Maxim Shipenkov) 

Francesco Fei, dai videoclip al nuovo film: "Al cinema il pubblico latita, ma non l'ottimismo"

Maurizio Baruffaldi

L'ultimo lungometraggio, "Mi chiedo quando ti mancherò", è nelle arene estive di tutta Italia. Un regista di talento che si arrampica per trovare fondi e girare il film che vuole, che deve. Una carriera tra la musica e i documentari

Francesco Fei mi aspetta ai tavolini da marciapiede del NordEst Cafè, nel quartiere Isola, cuore nuovo di Milano, città dove si trasferisce, da fiorentino, negli anni ’90, cavalcando l’onda pioniera dei videoclip musicali. Oggi, come succede spesso con chi l’ha scelta, è più milanese di un nativo meneghino. Nel 2005 gira il suo primo lungometraggio, Onde, “fortemente autoriale, totalmente outsider, nessun legame con le istituzioni”. Quindi la sequenza di documentari: dentro il mito Caravaggio, sul grande pittore apolide Segantini, il personale e premiatissimo La regina di Casetta, prima di atterrare finalmente al suo secondo lungometraggio, quel Mi chiedo quando ti mancherò che sta presentando nelle arene estive di tutta Italia. “Belli questi incontri nelle arene, senti le persone. Tenere duro e aspettare l’estate è stata una bella intuizione dell’Istituto Luce”. Se Onde aveva ricevuto elogi unanimi dalla critica e scarsa distribuzione, questo ‘giovane’ film attira il pubblico ma la critica la divide, tra perplessi e soddisfatti. “È un film indipendente, a suo modo disordinato, ma disordinato come lo è il pensiero di un adolescente, i momenti contraddittori che vive, molteplici, sfuggenti.” Tra i soddisfatti spicca un’importante firma nazionale, che lo ha eletto film della settimana, un mese fa, definendolo una ventata di aria fresca, che lo rende diverso. Ed è questa diversità, che mescola bullismo feroce e fuga, romanzo di formazione e favola, a renderlo spettinato e dolce.

  

  

Il film arriva a 15 anni da Onde. È stato un travaglio voluto, per sontuosa e lenta ispirazione?

“Per nulla. Ho acquisito i diritti del libro già nel 2008 (I wonder when you’ll miss me della scrittrice americana Amanda Davis, morta a 32 anni in un incidente aereo), poi è girata storta. Ho trovato in due mesi i soldi dello sviluppo, ma non si arrivava mai al budget per coprire tutti i costi del film. Quel qualcosa che ti può dare l’Attore che lampeggia. Mentre io avevo due ragazze stupende ma sconosciute (Beatrice Grannò e Claudia Marsicano). Altro intoppo: avere il produttore a Roma e vivere a Milano. Ci si incontrava, si facevano i punti A, B, C, D, e quei punti stabiliti rimanevano lì fino al prossimo incontro. E altri registi passavano avanti. Devi coltivare i rapporti, ribadire il contatto”.

  

  

E il nostro cinema ha Roma come centro di gravità permanente.

“Beh, è innegabile. Da anni nessun grande produttore investe del suo, in un film. Cercare i soldi è la prima attività del produttore, ma anche del regista. E la maggioranza arriva dal finanziamento pubblico. Considera che la Film Commission Lombardia, alla quale affidarsi, è in una situazione disastrosa”.

 

Abbiamo letto tutti del milioncino di euro stanziato per l’ente dalla regione, e finito in un abracadabra. Cos’aveva di così speciale questo libro?

“C’è una ragazza che in realtà parla da sola. E già dalla prima pagina te lo dice: la cicciona la vedeva solo lei. Senza giochini, non è costruito come sorpresa. C’è un travaglio esistenziale profondo, una fatica del vivere, il convivere con la propria testa, ma in una chiave più surreale che reale. Come se la scrittrice gli avesse messo le ali. Il mio primo film era un po’ freddo, altero, anche respingente, con questo volevo rimanere me stesso ma avvicinarmi al pubblico. Rimanere visivo, onirico, ma empatico”.

 

Ce l’hai fatta?

“Penso proprio di si”.

 

Dicevamo della fatica del trovare la pecunia.

“Anche il circo non ha aiutato… Quel piccolo mondo dove la protagonista va rifugiarsi. In Italia rimane quello di Fellini, l’immaginario è blindato: sentono circo e arricciano il naso. Anche se nel mio caso era funzionale: rito di iniziazione, atto di coraggio acrobatico, e soprattutto luogo protetto".

  

La giovane cameriera si presenta per l’ordinazione. Un caffè americano. Due. Siamo d’accordo sul lungo, che si sorseggia, che ti fa compagnia, non ce ne vogliano gli adepti del ristretto. il cielo è ballerino, vorrebbe piovere, ma tiene. Gli chiedo della luce di Milano.

“Quando sono arrivato era orrenda. Foschia, quando non nebbia. Ora qualche giornata tersa c’è. E poi era piatta, senza fiume, sguardo chiuso. Adesso è cambiata, sviluppata in altezza, e si sono aperte zone panoramiche. Luoghi che visivamente, hanno creato prospettiva”.

 

Però ci sei rimasto. Una prospettiva la intuivi già.

“Adesso per far vedere che sei bravo ti basta uno smartphone, allora servivano mezzi e opportunità professionali, e a Milano c’erano. Compresa una certa serietà.”

 

Nei ‘90 esplodono i videoclip. Tempo di Mtv.

“Grazie alla musica elettronica che entra in classifica, tipo Chemical Brother e Daft Punk, i videoclip diventano più creativi. Non c’era più l’obbligo di fare il playback, con chitarrista, cantante, a riempire la scena. Il video diventava un mondo a sé. E anche i gruppi rock seguono questa forma. Penso a Karma Police dei Radiohead, pareva videoarte. A Mtv ero considerato uno dei più interessanti: Vai da Fei, che te lo fa comunque strano!”.

 

E Fei se ne fa parecchi: Ligabue, Silvestri, Verdena, Bluvertigo, Negrita, fino alla Pausini. Alcuni lavori si trovano su www.francescofei.com. Ma lo Shock in my town con Battiato, è quello che "spacca". I videoclip diventano cortometraggi, in sostanza.

“Sì. Nonostante si lavorasse su commissione, eri tu a scrivere. E potevi permetterti video storti, bui… Eri libero, rispettando il fatto che fosse un prodotto da vendere. E lì ho imparato a fare tanto con poco. Avevi un‘ora di pellicola e dovevi sapere cosa fare. Ottimizzare, gli ambienti, le luci già presenti. Girare con la macchina mano, gestire dinamicamente la troupe. Eravamo pochi, ai tempi, e si diceva: sono arrivati i clippettari. Che hanno un po’ scardinato l’ambiente istituzionale del set”.

  

 

Piccola pausa telefonica. La giovanissima figlia richiama attenzione. Si vedranno stasera, promesso. Dopo la nostra, Francesco ha l’immancabile incontro con un produttore, e poi deve chiudere un lavoro per Sky. Saluta Bianca, e riprende il filo.

“Nel 2001, con G8 e Torri gemelle si è azzerato tutto. Chiedevano solo cose solari. La gente va tranquillizzata. Allora ho detto: torniamo a fare cinema. Adesso fa figo, arrivare dai videoclip, allora no. Per niente”.

   

La musica però resta. Come l’hai scelta, per questo tuo film?

“Mi sono affidato a Ema, una musicista americana. Un’elettronica analogica, anche un po’ carillon, che doveva rispettare il chiacchiericcio che ha la protagonista nella testa. Lavorare sugli echi. Che non suonasse claustrofobica, ma un po’ palloncino. E l’ombrello nel manifesto del film (disegnato da Renato Casaro, uno dei più grandi illustratori della storia del cinema) somiglia a un palloncino che se va. Kubrick diceva che le scene che ti rimangono in testa sono sempre fatte di immagini e musica. Sono quelle che si adagiano nella memoria. Non quelle con un bel dialogo, per dire.” Mi sale random il Profondo Rosso scandito dai Goblin.

Ero poco più di un bambino. Quando la parola documentario si traduceva al volo con: ‘due maroni!’ Oggi invece il racconto dell’esistito davvero, meglio detto ‘nonfiction’, è esploso. Tu hai scelto due pittori.

“Nel mercato dei documentari d’arte, distribuiti come eventi, ho visto un modo per lavorare, e metterci del mio. Dentro Caravaggio è stato più difficile, perché l’uomo è lontano, si è detto tanto ma resta un mistero per molti versi. Giovanni Segantini è stato diverso, l’ho voluto fortemente io. Dopo aver visto i suoi quadri alla Villa Reale di Palestro, dopo quella meraviglia ho scoperto la storia dell’uomo, che sappiamo tutta, a differenza di quella più aneddotica di Caravaggio. E scopro un outsider. Mai avuto un passaporto, analfabeta fino a tarda età, orfano, che vive quindi in orfanatrofio, povero in canna, e nonostante questo diventa uno dei più grandi pittori dell’800 italiano. E sposa pure una Bugatti. E ancora poi: per tutta la vita ha fatto quello che gli pareva”.

   

De La regina di Casetta Francesco ne parla con affetto e orgoglio. La tensione narrativa, cinematografica, che ha sentito nella vicenda scovata. I riconoscimenti importanti. “Lo reputo un mio film. L’unica differenza è che è una storia vera.”

La visione sta tutta nel montaggio?

“Il montaggio è la fase che somiglia alle altre arti: scrittura, scultura, pittura… Puoi provare, modellare, puoi stare lì con il tuo montatore (il fedelissimo Claudio Bonafede), e dedicarti. Certo, prima ci stavi su dei mesi, adesso si corre: i lavori per mangiare incombono. Il set invece è sempre un problema da superare. Una continua guerra al problema. Il set è il luogo meno creativo, diceva sempre lui, il buon Stanley.”

   

La ragazza che porta via le tazze ha solo gli occhi liberi dalla mascherina, ampia come un niqab. Evitiamo volutamente di argomentare su greenpass e vaccini. Ma chiedo se ha mai pensato a un ipotetico film sulla pandemia.

“Mai. È talmente invasiva nella vita di tutti i giorni, che mettersi a raccontarla diventerebbe stucchevole. Il bello del cinema è anche che ti porti fuori, altrove da quello che stai vivendo.”

 

Come sta il cinema?

“Posso dire che non ci sono giovani, nelle sale. In due anni l’uomo si abitua a tutto, e i ragazzi fanno presto a cambiare abitudini. Languono le sale, ma non i film. Il catalogo di Rai Cinema prevede 20 film in uscita da qui alla fine dell’anno. Le settimane sono 16. Il pubblico latita, ma non l’ottimismo. Perché poi è così: quando il film appare sul grande schermo è sempre bellissimo.”

 

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