Eleuterio Pagliano, La lezione di geografia, 1880 

Spazi di eccezione: ripensare la geografia nel tempo della pandemia

Andrea Venanzoni

Il virus ha fatto riaffiorare all’aria gli antichi e sempre biasimati confini e ha finito con il crearne di nuovi. E la dematerializzazione del quotidiano ha imposto, ai nostri sensi, una ridefinizione del nostro esserci e del nostro relazionarci ai luoghi e agli spazi. Un libro

A metà degli anni novanta il sociologo francese Bruno Latour, rilevando la tendenziale irrilevanza dei confini propiziata dall’incedere sempre più accelerato e tumultuoso della nuova globalizzazione, proclamò la morte della geografia e la fine della tirannia dei geografi. Non c’è dubbio che decenni di transazioni finanziarie, digitalizzazione sempre più marcata del tessuto sociale e produttivo, riallocazione dei fattori produttivi, connessioni geografiche, culturali e politiche abbiano impresso la spinta marcata di un radicale cambio di paradigma, come pure notava Stefano Rodotà in ‘Il diritto di avere diritti’. Eppure la recente e severa lezione impostaci dalla pandemia ha fatto riaffiorare all’aria gli antichi e sempre biasimati confini, i quali sembravano retaggio di una epoca antica, vestigia archeologiche di una topologia posta fuori dall’umanità: le restrizioni, i controlli, il ritorno delle dogane, la minuziosa e capillare irreggimentazione della vita quotidiana, lo smart working e la didattica a distanza su piattaforme digitali non solo hanno rivitalizzato antichi confini ma hanno finito con il crearne di nuovi. Confini fisici, sempre più stretti e concentrici, non solo e non più coincidenti con lo spazio ordinamentale di una data nazione, ma anche con porzioni più limitate del territorio, regioni, città, singole aree di città, e poi barriere psichiche, dettate dalla introiezione di una esistenza scandita da paure ormai quasi medievali e da regole minute e spesso cervellotiche.

 

 

Alessandro Ricci, ricercatore di geografia economico-politica, parte nel suo ultimo libro, ‘Spazi di eccezione – riflessioni geografiche su virus e libertà’ (Castelvecchi, 2021), proprio dal punto dell’irruzione della pandemia nello spazio globale, in quel grembo liquido, evanescente, intessuto di spazi funzionali attraverso cui liberamente circolare e liberamente scambiare merci e servizi: non c’è dubbio, rileva subito Ricci, come la dematerializzazione del quotidiano abbia imposto, ai nostri sensi, una ridefinizione del nostro esserci e del nostro relazionarci ai luoghi e agli spazi.

 

La dematerializzazione, spesso per via digitale, rappresenta una slavina che tutto travolge e che senza dubbio alcuno preesiste alla pandemia: come ha sempre di recente notato Michel Lussault nel suo ‘Iper-luoghi’, da anni stiamo assistendo alla emersione di una nuova topografia del sociale, in cui lo statuto del locale è confinato a esperienze che tendono a divenire recessive a fronte della costruzione di nuove città globali tra loro funzionalmente interconnesse.

 

La pandemia, però, ha non solo accelerato ma reso inevitabile il ricorso ordinario a ciò che prima era solo straordinario, come nel caso del lavoro digitale o dell’insegnamento medio-superiore e universitario su piattaforma, dematerializzando la relazionalità sociale e destrutturando la nostro percezione del mondo che ci circonda: vero è che dopo anni di spazi aperti e senza confini, per la prima volta siamo calati nel baratro di una solitudine quasi monastica, ma non scelta né consapevole, un abisso hikikomori di reclusione e finitezza spaziale cui Ricci dedica un capitolo del suo volume.

 

 

E proprio in questa inversione, Ricci avverte il senso profondo, e drammatico, di una innaturalità dell’ordine delle cose: dallo spazio, nel corso della storia umana, quella fredda scoperta che ha avvinto le riflessioni di Grozio, de Vitoria, Schmitt, si è passati alla antropizzazione del luogo, precisamente identificato, sedimentato e localizzato, nei suoi esiti culturali, sociali, economici, identitari.  Ma ora, a causa della pandemia e degli strumenti di contrasto adottati dai pubblici poteri, questo processo si è del tutto capovolto, con prevedibili conseguenze sullo scorrere della vita sociale, e con il rovesciamento del significato dello spazio stesso, ormai orizzonte totalmente negativo e virtuale. Spettri di non-esistenza dettati dalla solitudine eretta a momento epistemologico, tra aule deserte e silenzi digitali, conformano il modo di approcciarsi a questa nuova esistenza. Si tratta a ben vedere di un moto di faglia, di una frattura radicale che spezza anche la lezione di Marc Augè sui non-luoghi, i quali sono pur sempre fisicamente intesi dei luoghi vissuti, calpestati, attraversati.

 

Lo spazio pandemico al contrario è una feritoia cieca, non vissuta e in cui ogni interazione viene maledetta in quanto potenzialmente appestatrice. In questa chiave prospettica, l’associazione storica e antropologica tra un determinato luogo e uno spazio di libertà è stata determinata proprio dal vivere occupando un dato spazio, rendendolo luogo e caricandolo sensorialmente di memorie e di passaggi connessi al nostro stesso modo di essere: nel momento in cui veniamo spogliati della nostra autodeterminazione di spostarci, mentre la fruibilità di luoghi cessa o viene pesantemente limitata, finiamo con il veder trascolorare le nostre stesse memorie passate.

 

L’eccezione permanente si è resa deriva in cui la consapevolezza di vivere e di esserci è stata infranta, da cittadini e attori politici siamo rifluiti a sudditi, in un perenne stato di minorità e di dipendenza: dipendenza da comandi imposti dal potere pubblico, dal flusso di comunicazione digitale, dalla sostituzione del luogo sociale con la piazza meramente virtuale, da una ristrettezza fisica che ha portato a una istituzionalizzazione sociale totale.

 

Il codice linguisitico e ordinamentale del digitale, con la sua razionalità intrinseca, tecnica, a-umana, si pone al centro di tutto, irradiando i suoi paradigmi e modificando la geografia reale, come hanno ampiamente mostrato Martin Dodge e Rob Kitchin in ‘Code/Spaces: Software and everyway Life’ e James Ash, Rob Kitchin e Agnieszka Leszczynski in ‘Digital Geographies’. E il digitale implica il superamento di qualunque segno distintivo tra spazio pubblico e spazio privato, tra vita lavorativa e vita privata: rinchiusi dentro casa, il nostro lavoro si è astratto nella dimensione ciclica, continuativa, di ciò che Maurizio Ferraris ha definito una mobilitazione totale digitale. I dispositivi tecnologici, lo smart working emergenziale senza nemmeno diritto alla disconnessione ci tengono sempre all’erta, in tensione, basta una semplice email notificataci dallo smartphone e nonostante magari in quel frangente si sia in pausa, magari intenti a leggere un libro, eccoci ripiombare nello spazio lavorativo, mobilitati appunto da quel messaggio.

 

La geografia personale, nota Ricci, è divenuta una geografia squisitamente pubblica, proprio a causa di questi dispositivi di incistamento di logica produttiva nella totalità esistenziale della nostra vita: d’altronde possiamo anche andare a pranzo ma a meno che non si spenga qualunque device tecnologico saremo sempre sottoposti a sollecitazioni, dipendenti da quei mezzi che in apparenza ci facilitano e agevolano la vita ma che comunque ci tengono in uno stato di permanente tensione cerebrale.

 

Il territorio, il territorio che Carl Schmitt aveva posto a fondamento del suo ‘Nomos della terra’ e di ‘Terra e mare’, come elemento segnaletico di un dato ordinamento, come fattore di generazione di un ordinamento stesso, e come collisione ricombinante di Ordnung e Ortung, quel territorio al centro di un generale ripensamento e di una rimodulazione investigata con notevole piglio, quasi alchemico, da costituzionaliste come Ines Ciolli, Alessandra Di Martino, Laura Ronchetti, tende sempre più spesso ad esserci cucito addosso: il territorio diventa la nostra casa o peggio la nostra pelle, la nostra corporeità si atteggia a confine comunque invaso da logiche tecniche che irrompono nel domicilio e lo spazializzano rendendoci individui ‘pubblici’, spogliati di diritti ora sostituiti da riconoscimenti che sono concessi, erogati come prestazioni o peggio ancora come patenti di servizio e condizioni di utenza.

 

Lo straniamento collettivo che ha reso meno visibile questo processo di schiacciamento dell’individuo e delle sue libertà si è anche nutrito senza dubbio di un getto continuo di retorica, come quella insopportabile e di cui Ricci fa giustizia sulla ‘natura che si riprende i suoi spazi’: durante i mesi del lockdown, siamo stati sommersi letteralmente da immagini, filmati e accorati commenti che dimostravano come la minor presenza umana e la ridottissima mobilità avessero ingenerato un ritorno degli animali negli spazi urbani. Detto che, ironicamente, non serve una pandemia per avere un cinghiale a grufolarvi in giardino, bastando a ciò una amministrazione scarsamente competente, Ricci riflette sul peso di questa retorica e sull’aumento vertiginoso di casi di depressione e sofferenza psichica: il ritorno della natura, cioè, avviene in modo palesemente innaturale.

 

Come innaturale è la consistenza di questa eccezione, in senso puramente schmittiano, che si insinua, totalizzante, pervasiva, tumorale, in ogni spazio, de-politicizzando e rendendo regressiva qualunque ipotesi di vita sociale attiva e consapevole: i controlli, le regole minuziose, il labirinto escheriano di FAQ, limitazioni, ‘concessioni’, la topografia rinchiusa e irrigidita, la semantica di un potere selvaggio dequotano gli spazi di libertà e di politicità, aumentando il dislivello, ormai adombrante la fisionomia di una scogliera a picco sui flutti, delle diseguaglianze. Sociali, culturali, umane: soggetti più attrezzati finiscono per divenire il vertice di una piramide castale alla cui base si situano le masse.

 

La risposta, conclude Ricci, è il ritorno dell’umano nel suo ambiente, la riappropriazione del senso, del contesto, del luogo, resistere all’onda lunga dell’appiattimento, il riannodare le reti emotive e relazionali che ci rendono animale sociale per eccellenza.

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