L'intervista della domenica

"Fare il comico è peggio che fare il giornalista o il politico". Chiacchiere con Michela Giraud

Simonetta Sciandivasci

Il senso di colpa, il marcio di Roma, gli spintoni, il prosciutto finito nel frigo, LOL, CCN, l'invenzione della volgarità, gli Uffizi, una chiesa bizantina. Conversazione con l'attrice e stand up comedian

Il ritornello che ci cantiamo tutte, tra amiche, fa così: “Mignottone pazzo, quel mignottone pazzo, se la tua dignità è finita già, con un mignottone pazzo te la restituirà”. Sta bene su tutto, sempre. Quando ci raccontiamo com’è finita con quello là, quanto odiamo un collega, cosa ci ha detto un commesso stronzo della Coop, quello che non manca mai di chiederci se siamo affamate mentre paghiamo il conto della spesa, quando ci proviamo un vestito. Cantiamo scatenatissime e poi un po’ ci pentiamo, ci sentiamo volgari, ci contraiamo, e poi lo cantiamo di nuovo. E ridiamo moltissimo e attacchiamo con “Sono una fregna, una vera fregna con l’ukulele che va al Pigneto e mangia il cous cous”.

Sono le canzoncine che Michela Giraud, attrice e stand up comedian, ha portato a “LOL – chi ride è fuori”, il programma comico andato in onda su Amazon Prime il mese scorso, che ci ha divisi e accesi quanto un governo e che ha nominato un vincitore, che formalmente non è Michela, ma che sostanzialmente è Michela. Con LOL l’hanno scoperta in tantissimi, sono arrivate le copertine dei settimanali, gli hater, i cartelloni giganteschi per strada con la sua faccia e il prossimo programma che condurrà su Comedy Central, per la seconda volta, “CCN, Comedy Central News”, dal prossimo 14 maggio – la prima volta, l’anno scorso, ha vinto il premio della Satira Forte dei Marmi. Prima di LOL, comunque, Giraud aveva già un pubblico vasto che l’amava per la sfrontatezza, la comicità popolana e popolare, il modo che ha di parlare come mangia, come mangiamo tutti, la libertà che si prende, assoluta, e che talvolta la fa sembrare eccessiva. Sta qui la sua forza: nel modo in cui riesce a farci sentire bigotti, a farci arrovellare anche su come e perché ridiamo, come se ridere fosse pericoloso, e a farci incontrare il censore che ci portiamo dentro. Io sono stata una di quelle che al primo ascolto del "Mignottone Pazzo" hanno storto il naso: adesso la canto in continuazione. La seguivo da prima, da quando ha preso il posto di Saverio Raimondo a CCN, e prima ancora dalle Instagram Stories che mi rimandavano ai suoi monologhi di stand up. È diventata grande in un momento.

 

Pure in copertina!

A quale si riferisce? Vanity Fair, Donna Moderna o Sorrisi? Guardi con quanta arroganza glielo chiedo.

 

Non me ne sono persa una, non si preoccupi. Quella di Vanity non mi è piaciuta, mi scusi il moralismo, che in effetti non è moralismo, ma noia. Perché un settimanale patinato deve mettere in copertina tre comiche truccate e agghindate da Venere di Botticelli per dire che le donne che fanno ridere sono belle?

Ma non starà eccedendo in interpretazione? Il giornale voleva richiamarsi a un quadro, noi siamo state contente di prestarci, ci siamo divertite e ci siamo prese soltanto il meglio. La polemica su quanto fosse centrato il messaggio del bodypositive è per me incomprensibile per la semplice ragione che a noi nessuno ha mai detto che avremmo fatto una cover per dare un messaggio di alcun tipo. Di certo, fino a qualche anno fa, quella copertina non sarebbe uscita e se questo, incidentalmente, fa star bene qualcuno, lo fa sentire meglio, continuo a non capire dove sia il problema. È una copertina di Vanity Fair, non un discorso alla Camera.

 

L’abbiamo presa troppo sul serio?

Ormai fare il comico è peggio che fare il giornalista o il politico: ti accusano di tutto, se non sei esemplare o sbagli il messaggio o dici qualcosa di fraintendibile, sei fregato. Ma io perché dovrei dare un messaggio, indicare un principio, un valore, una strada per cambiare il mondo? Io non voglio cambiare il mondo, non è il mio mestiere. Non sono Nilde Iotti. Quando mi dicono che sono una testimonial del body positive, sbigottisco. Per me il body positive non esiste, è una delle molte illusioni di cui ci siamo convinti: non c’è battaglia culturale che possa eliminare il fatto, praticamente fisiologico, di piacersi un giorno sì e un giorno no. Condivido la ridiscussione dei canoni ma dovremmo essere onesti nell’ammettere che, se mai saremo del tutto liberi dai canoni, continueremo a piacerci un giorno sì e uno no – ed è anche un’ipotesi ottimista. La vita è così, ti fa questo: al lunedì sei una stella, al martedì uno straccio. Ho scritto dei monologhi in cui dico che per la maggior parte del tempo vorrei essere in un modo che non sono, perché sono una vigliacca che si lascia condizionare da tutte le pressioni condivise e comuni. Detto questo, a quei condizionamenti penso per un’ora al giorno, le altre 23 faccio altro.

 

Ma lei si accetta o no?

Nessuno si accetta, ed è ipocrita credere il contrario. Di certo, anche se mi è successo di invidiare qualcuno, non ho mai pensato di voler essere un’altra.

 

Il condizionamento del corpo non è affascinante? Il modo in cui siamo fatti non ci dà uno sguardo preciso e unico sulle cose?

Può darsi. Di certo, però, mi pare che il corpo sia soprattutto un’ossessione.

 

Ma le ossessioni non sono utili, non ci rendono più creativi?

Non lo credo più. Io sono ossessionata dall’idea di scrivere il monologo perfetto e quell’ossessione da una parte mi spinge a lavorarci continuamente per migliorarlo, dall’altra mi intimidisce, fa sì che, quando arrivo sul palco, per i primi dieci minuti sono irrigidita e questo va a detrimento della mia performance, pertanto il vantaggio viene vanificato dallo svantaggio. Non vale la pena, non serve a niente. Io voglio arrivare sul palco tranquilla e godermela. Preferisco la serenità al tormento. Non voglio finire come Van Gogh, che ha fatto dei quadri eccezionali ma è morto prima di sapere che sono stati apprezzati e amati. Amo il mio lavoro, farlo mi rende felice, ma desidero anche godermi il riscontro.

 

Lei è un’edonista?

A chi non piace godere? Purtroppo in questo paese il godimento desta sempre grande sospetto, chissà perché, forse per via della cattiva interpretazione del cattolicesimo: ci siamo convinti che sia una religione di mortificazione anziché di slancio vitale, e così implodiamo, ci sentiamo in colpa tutte le volte che facciamo qualcosa che ci piace, abbiamo sempre il terrore di esagerare, di risultare inopportuni, volgari.

 

Cos’è la volgarità?

Un’invenzione. La usiamo per tenerci a bada, per dire cos’è giusto e cos’è sbagliato. Nella comicità questa distinzione non dovrebbe esistere: dovrebbe contare soltanto se una cosa fa ridere o no. A me fa davvero specie quando mi accusano di essere volgare perché uso parole che tutti, nella vita, usiamo: fregna non l’ho mica inventato io, no? Ma se lo dice una donna, su un palco, è uno scandalo. Dopo LOL mi hanno criticata moltissimo per questo, e però nessuno ha detto mezza parola sulle battute sulla maieutica di Socrate e su Giovanna D’Arco che si dà fuoco da sola: hanno ritagliato le parti che servivano a istruire l’accusa.

 

Lei si sente libera?

Sul palco sì. Soltanto sul palco. È lì che sono me stessa al cento per cento, senza sensi di colpa, paure del giudizio, inibizioni, tutte cose che, nel resto del tempo, soffro molto e che, invece, quando scrivo un pezzo e poi lo recito, non mi sfiorano nemmeno. Quando scrivo un monologo che mi convince, le assicuro che provo qualcosa di gran lunga più soddisfacente del sesso.

 

Ora devo farle una domanda inevitabile.

Lo so. Non me la faccia.

 

Non posso. Devo proprio. Se le dico che è un’intellettuale, s’offende?

Mi sta portando fuori strada, vero?

 

Sì, ma glielo avrei chiesto comunque. È una domanda propedeutica.

Capisco. Non m’offendo. Anzi! Dopo anni di sacrifici, finalmente qualcuno se ne accorge. Certo che sono un’intellettuale! Ho anche scritto un libro, “Tea, storia (quasi) vera della prima messia”(Harper Collins)! E tra poco uscirà una raccolta di Fandango cui ho partecipato. Sa com'è, tutti scrivono libri, perché io non dovrei?

 

È all’intellettuale che parlo.

Eccomi. Mi chieda pure l’inevitabile.

 

Lei sente la pressione del politicamente corretto? Se sì, la trova giusta?

Mi rendo conto che devo fare molta attenzione a quello che dico, anche perché verrà tagliuzzato e usato a sproposito, proprio come si fa con gli articoli dei giornali o con alcune dichiarazioni. Si sono ridotte e annullate le distanze, per cui quello che dice un comico ha preso ad avere lo stesso valore di quello che dice il Presidente del Senato. Anzi, talvolta ho l’impressione che se un comico dice una cosa fraintendibile o fa una battuta irritante, e il Presidente del Senato fa uno strafalcione, ce la prendiamo più con il comico che con il Presidente del Senato.

 

Se così fosse, significherebbe che un comico è una figura che ha assunto un’enorme importanza, no?

Temo invece che si tratti banalmente dell’esasperazione di un vecchio vizio: credere che una figura pubblica, o chiunque abbia un minimo di visibilità, debba essere necessariamente esemplare, fare e dire cose giuste, impegnate. Io faccio ridere, non cambio il mondo. È come per la copertina di Vanity: se qualcuno ci ha visto un messaggio, in quel caso specifico un messaggio positivo, sono contenta, ma la mia intenzione era posare per Vanity Fair, non incarnare un principio.

 

Altra domanda inevitabile. Tutte le correzioni del linguaggio, e questa specie di rivoluzione spesso anche violenta che sembra stia accadendo, serviranno a qualcosa?

Dico una banalità: le rivoluzioni non sono pranzi di gala. Però non si fanno nemmeno con i telefonini. Qua tutti vogliono stare dalla parte giusta, ma è diventato difficilissimo capire dove comincia e dove finisce la parte giusta, visto quanto s’è ingigantita e visto che tutti hanno una buona ragione, un’istanza. Io vorrei semplicemente che imparassimo a essere più misericordiosi: quando qualcuno commette un errore, usa una parola sbagliata, deve essere lasciato libero di rendersene conto, fare ammenda e ricominciare daccapo. Invece siamo diventati un popolo di affacciati ai pulpiti e chiunque sbaglia, viene flagellato. A cosa serve, se nella maggior parte dei casi, visto che ci troviamo in un momento di cambiamenti repentini, chi sbaglia lo fa davvero per ignoranza, o perché non ha ancora fatto in tempo ad assorbire tutto il nuovo, e non certo per cattiveria? Ogni giorno c’è da aggiornare il catalogo delle offese, non è facile stare al passo.

 

Ha mai odiato il pubblico?

Una volta, mentre facevo un monologo, una ragazza seduta in prima fila mi guardava malissimo, così male che mi fermai e le chiesi che problemi avesse.

 

Ha mai fatto a botte?

Un sacco di volte, specie da ragazzina. Poi mi sono calmata, ho dovuto farlo. Ricordo una volta, epica, che spinsi un ragazzetto del mio liceo, il Mamiani, perché voleva occupare e io invece non volevo perdere lezioni perché avrei fatto la maturità quell’anno. Che soddisfazione.

 

Ho visto che nel suo programma, CCN, ospiterà Roberto Saviano.

Sì. Non vedo l’ora di rispondergli, quando certamente mi dirà che è cresciuto nella terra dei fuochi, che io sono cresciuta a Balduina, e vuoi mettere.

 

E voglio mettere.

Ma vuole mettere con il disagio di crescere tra i pariolini che non ce l’hanno fatta? Questo è la Balduina: il vorrei ma non posso dei Parioli. E vuole mettere con il disagio di crescere a Roma Nord dove il massimo dell'aspirazione è essere una taglia 40? È una battuta, naturalmente, ma lo devo specificare, pensi dove siamo arrivati. Poi ho pure studiato al Mamiani, quindi tra i radicalchic, gente che mi diceva che non avrebbe mai e poi mai mangiato un panino con la Nutella per dovere di boicottaggio delle multinazionali. Una vita difficile.

 

Mi racconta qualcosa del programma?

Mi sono divertita pazzamente. Ho costruito un personaggio che oggi avrebbe grosse difficoltà a fare televisione: una conduttrice vecchio stampo, di quelle molto dive, che quando arrivavano in studio maltrattavano tutti. E l’ho fatta interagire con una serie di altri personaggi, tutti rappresentanti di una qualche minoranza (intesa in senso giocoso: ci sono per esempio il femministo, il maschio bianco eterosessuale), molto diversi tra loro ma uniti dall’odio nei suoi confronti.

 

Ha un suo pubblico privato a cui sottopone il suo lavoro, prima di esibirsi?

A lungo è stato Saverio Raimondo, che considero il mio maestro. Adesso la mia cavia è il mio fidanzato, Riccardo.

 

Il suo partner in crime. Su Instagram funzionate benissimo, dovreste lavorare insieme, sogno una sit com, un casa Giraud.

E pensi che ci conosciamo da meno di un anno.

 

Sembrerebbe una vita. Come vi siete conosciuti?

Ma le sembra una domanda da Foglio?

 

Certamente. Questo è un giornale che ama il pettegolezzo, specie quello d’amore.

Ah sì? Allora le racconto il mio momento preferito. L’anno scorso, in pieno lockdown, io soffrivo per una storia finita male e Riccardo, che avevo conosciuto poco tempo prima, mi stette molto vicino, ricordo che parlavamo al telefono per ore, perché incontrarsi era proibito. Una sera, però, me lo ritrovai sotto casa, con una tavoletta di cioccolato Novi. Aveva una giustificazione in mano per i carabinieri esilarante: c’era scritto che Marte doveva incontrare Rea Silvia. Ci dicevamo sempre che eravamo la cosa più romana di Roma. Quando lo vidi mi prese un colpo, una signora che passava mi chiese se fosse un molestatore, la rassicurai e lo abbracciai.

 

Roma le piace?

Che domande. Certo. Ma è una città che non cambia mai. Violenta, pigra, lamentosa. La sua bellezza la salva e l’ammazza. È una città di piacioni, di falsi: a nessuno importa davvero di te. Per questo nessuno può governarla o cambiarla: nessuno viene ascoltato. Guardi cos’è successo al solo uomo che ha provato a migliorarla, Marino: rispedito a casa in un lampo. Qui o stai dentro un cerchio di relazioni o non esisti ed è un riflesso storico incancellabile. Roma è stata l’ultima città a diventare italiana e si sente. Ragiona ancora come ragionava prima dell’Unità d’Italia.

 

E Milano?

È la città che mi ha resa adulta. Ci vado spesso per lavoro, è la mia seconda casa. Mi piace moltissimo guidare all’ora del tramonto, mi commuove. Solamente che quando vuole farti sentire solo, ci riesce in modo spietato. Roma no, Roma ti illude sempre d’essere lì per te, che ti terrà un posto, che ti starà vicino.

 

Sogniamo. Mi dica la sua giornata ideale, quella che si regalerebbe per festeggiare qualcosa di importante.

Fare colazione al bar con un tramezzino salato e un cappuccino, leggere i giornali, vedere i miei amici, andare al ristorante e – il sogno di una vita – ordinare tutto quello che c’è sul menù, poi andare agli Uffizi e restarci per ore.

 

Agli Uffizi?

Non mi viene in mente un posto più bello al mondo. Niente mi appassiona di più della storia dell’arte dal Cinquecento in poi, la mia è una deformazione.

 

Dopo che si fa?

Si va a ballare. Tantissimo.

 

Ballare cosa?

A me piacciono i balletti di Britney Spears e di Beyoncé. È così che faccio fruttare i dieci anni di danza classica che ho alle spalle.

 

Quando ha deciso di fare l’attrice comica?

Quando ho visto come mi guardavano le mie amiche dopo che, durante un viaggio con l’università a Salonicco, avevo improvvisato una spiegazione di una chiesa bizantina facendo praticamente stand up. C’era, nei loro occhi, qualcosa di erotico, proprio in senso greco. Ho capito che avevo un potere, un talento, e che la mia vita doveva cambiare. Mi iscrissi all’accademia, e mi laureai e diplomai da attrice più o meno contemporaneamente. In fondo, sapevo da molto tempo che la cosa che più amavo fare era far ridere, ma sa come succede con i grandi amori: li eviti più che puoi, finché puoi.

 

Da bambina cosa voleva fare?

L’attrice del Bagaglino. Lo giuro. Io ero proprio una di quelle ragazzine imbambolate dal berlusconismo, che poi dalle stesse donne che ha mortificato, è stato ribaltato.

 

Su Instagram lei tiene una specie di posta del cuore. Sta diventando un guru, se ne rende conto?

Per carità! No! Io faccio delle cose orribili e le ho sempre fatte. Nel 2005 ero un leone da tastiera. A casa, quando finisco il prosciutto, non butto via la carta e la rimetto in frigo perché non voglio che il mio fidanzato si accorga che l’ho finito.

 

L’amore l’ha cambiata?

No. Non sopporto quando dicono che l’amore cambia le persone, come se quando non sei innamorata o sei sola, sei una persona peggiore. Io sono stata per anni il terzo incomodo, quella che alle cene e alle vacanze si presentava senza più uno, e stavo benissimo così, ma forse a qualcuno davo fastidio.

 

La sua più grande ambizione?

Quando avrò dato fondo al mio egocentrismo, quando avrò finito le cose da dire, spero di riuscire a guardarmi allo specchio e ammettere: il tuo sguardo sulla realtà non è più in grado di raccontare niente, è vecchio, vai a casa. Vorrei invecchiare come Mina. Dire che mi ritiro e farlo davvero. Ma sa che soddisfazione potersi congedare sapendo di aver dato tutto?

 

Mi dice una cosa che la commuove?

La lingua italiana. Ma quando mio padre mi dice, in napoletano, “bell’ e papà non piglià collera”, mi sciolgo come un cioccolatino.

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