Quando Philip Roth attraversò la Cortina di ferro

“Io vendo libri come frittelle, a loro è proibito pubblicare”. La biografia del romanziere americano racconta come aiutò gli scrittori del dissenso anticomunista a Praga

Giulio Meotti

Nella vetrina del Café Sacher, a Vienna, Philip Roth sorride nel vedere una torta di marzapane col volto di Richard Nixon. Il giorno dopo attraversa il confine con la Cecoslovacchia, per andare a vedere cosa c’era “di là”, oltre la Cortina di ferro. E fu come entrare in una “città mineraria di carbone nel West Virginia”. Dopo il check-in all’Hotel Jalta in Piazza Venceslao a Praga, Roth esce  alla ricerca di punti di riferimento associati al suo amato Franz Kafka. Per i tre giorni successivi, Roth camminerà per la Città Vecchia, visitando i luoghi di cui aveva letto nelle lettere e nei diari di Kafka e nella biografia di Max Brod, visitando le sinagoghe che Hitler voleva trasformare in un museo della distruzione degli ebrei europei. Ogni giorno, Roth ritornava al vecchio cimitero ebraico dietro la sinagoga Pinkas, che ospita un piccolo museo per le vittime di Theresienstadt. Lo colpì una bambola  con una stella gialla  al petto. Poi lasciava un sassolino sulla tomba di Kafka. “Ho capito che esisteva una sorta di connessione tra me e questo posto”, scriverà in seguito. “Ecco uno di quegli angoli densi dell’Europa ebraica che Hitler aveva svuotato dagli ebrei”. Le traduzioni ceche dei primi due libri di Roth erano state pubblicate, ma quando provò a pubblicare “Lamento di Portnoy” gli fu detto che le “autorità” lo avevano ritenuto inadatto alla traduzione (pare non sapessero come tradurre tutti quei pompini). Roth fu avvicinato da una editrice che zoppicava, Eva Kondrysova, che lo invitò a pranzo. “Tutte quelle persone sono maiali”, gli disse al ristorante e in un inglese perfetto (Kondrysova aveva trascorso del tempo all’Università della Florida grazie a una Fulbright), spiegandogli che tutte le persone oneste erano state licenziate dopo l’invasione sovietica che pose fine alla “primavera di Praga” nel 1968. Libri come Portnoy non rientravano nei canoni del “socrealismo” (il socialismo reale), ma Kondrysova gli disse che la coppia Luba e Rudolf Pellar, già traduttori di Hemingway e Salinger, stavano lavorando una versione ceca del romanzo di Roth.


Quella sera, Roth cenò con alcuni scrittori. Luba Pellar gli disse: “Non posso mettere in scena un’altra commedia sull’amore in una fabbrica di cetrioli in Siberia”. Sotto la “normalizzazione” sovietica, gli scrittori che non si erano sottomessi ricadevano in tre categorie precise: coloro che erano riusciti a fuggire dal paese o a rimanere all’estero durante l’invasione; coloro che erano già stati imprigionati e quelli che erano tenuti sotto costante sorveglianza, cui era proibito di pubblicare e relegati a lavori umili. L’incontro di Philip Roth con il dissenso  occupa una parte consistente nella biografia definitiva dello scrittore  appena pubblicata da Blake Bailey negli Stati Uniti (distribuzione e promozione cancellate a causa delle accuse di molestie  all’autore).


Quando Roth tornò a New York, chiese ad alcuni amici di metterlo in contatto con tutti gli intellettuali cechi che conoscevano. Così fece amicizia con Antonín (Tony) Liehm, che avrebbe ricordato del loro primo incontro: “Roth disse, ‘ho appena pubblicato un opuscolo contro Nixon. . . . Vende come le frittelle e tutto quello che mi può succedere è che diventerò un po’ più ricco. Mentre qui gli scrittori che fanno più o meno la stessa cosa possono contare di andare in prigione. E ho questo bisogno di capire perché lo fanno’”.


Nel 1960, Liehm era diventato il direttore di Literární noviny, la rivista di cultura più influente della Cecoslovacchia, con una tiratura di 300mila copie in un paese la cui popolazione totale era di dieci milioni. Lavorando con scrittori del calibro di Milan Kundera, Ludvík Vaculík e Ivan Klíma, la rivista era stata la principale piattaforma per la liberalizzazione che aveva portato alla primavera di Praga, cessando la pubblicazione una volta che i carri armati del Patto di Varsavia erano entrati nel paese il 20 agosto 1968. Liehm era fuggito a Parigi due giorni dopo e poi a New York, dove andrà a insegnare critica cinematografica. Ogni martedì pomeriggio, Roth prendeva il traghetto di Staten Island per assistere alle lezioni di Liehm. Come la maggior parte degli americani allora, Roth non aveva idea di chi fosse Kundera, fino a quando non fece amicizia con il regista esiliato Jiřrí Weiss (uno dei più noti protetti di Weiss, Miloš Forman, sarebbe poi diventato uno dei vicini di casa di Roth a Warren). Quando Roth tornò a Praga l’anno successivo, Weiss gli affidò un paio di jeans americani da portare alla figlia.


Quando non scriveva romanzi, spiega Blake, Roth si dedicava ad aiutare i dissidenti cecoslovacchi. Era diventata un po’ la sua ossessione. Prima che Roth tornasse a Praga nella primavera del 1973,  Liehm gli fornì nomi e numeri di telefono di scrittori cechi come Rita Klímová, una traduttrice che aveva trascorso sette anni nell’Upper West Side, dove il padre, Stanislav Budín, aveva diretto un giornale in lingua ceca. Klímová era stata sposata con Zdenek Mlynar, un membro del gabinetto di Alexander Dubček. Klímová presentò Roth allo scrittore Ivan Klíma, che viveva nel sobborgo praghese di Nad Lesem con la moglie, Helena, e i due figli. Durante la Seconda guerra mondiale, Klíma e la  famiglia erano sopravvissuti per miracolo a quattro anni di internamento a Theresienstadt, il campo per ebrei cecoslovacchi che i nazisti presentavano come un ghetto con un proprio governo, l’unico campo nazista dove la Croce Rossa poteva entrare. Klíma, “che sembrava un Ringo Starr intellettuale” diceva Roth, aveva insegnato all’Università del Michigan durante l’invasione del 1968, ma scelse di tornare nel suo paese, dove si rifiutò di ritrattare gli scritti a sostegno della primavera di Praga. Gli fu così vietata la pubblicazione, veniva regolarmente interrogato e gli consentivano solo lavori umili; sua moglie, giornalista e psicoterapeuta, fu ridotta a lavorare come dattilografa, mentre ai figli non era permesso andare a scuola, a meno che il padre non ammettesse che l’intervento sovietico era stato necessario e accettasse di aiutare il governo a “normalizzare” il paese. Klíma rivelerà a Roth che Kafka era stato bandito dal regime comunista, non solo per le critiche al potere e alla burocrazia che trasudano dai suoi romanzi, ma “soprattutto perché la sua opera è quella di un’anima che rifiuta di essere colonizzata”. Nel 1963 Kafka diventò effettivamente il collettore dell’“attività intellettuale sovversiva”: l’Unione degli scrittori cecoslovacchi organizzò un congresso in cui si discusse del suo lavoro, bandito come “anti-realismo decadente”. Kurt Hager, membro del Polltburo di Berlino Est, fu tra i primi a far salire le origini della “Primavera” a questo un convegno  svoltosi a Liblice nel 1963 e organizzato dal riformista Eduard Goldstucker. Kafka fu accusato di essere il cavallo di Troia per immettere “sionismo nel socialismo” e per scalzare i dogmi fondamentali del marxismo-leninismo. Fu solo nel 1988 che Kafka riapparirà nelle librerie di Praga.


Persona non grata, Klíma fu mandato a lavorare come inserviente ospedaliero e spazzino e nel tempo libero portava Roth in giro per Praga a visitare altri dissidenti che lavoravano come custodi, fattorini o, come Karol Sidon (rabbino capo della Repubblica Ceca dopo la Rivoluzione di velluto), come venditori di sigarette. Così dice Zuckerman ne “L’orgia di Praga”: “Il lavoro umile è svolto dagli scrittori, dagli insegnanti e dagli ingegneri edili. Mezzo milione di persone sono state licenziate. Tutto è gestito dagli ubriachi e dai truffatori. Immagino Styron che lava i bicchieri in un bar della Penn Station, Susan Sontag che incarta i panini a Broadway, Gore Vidal nelle mense scolastiche nel Queens…”.
Roth incontra il romanziere e giornalista Ludvík Vaculík, un tipo spettinato con i baffi e che Roth descrisse  come un “Solzhenitsyn cecoslovacco”. Privato del permesso di viaggiare o pubblicare, Vaculík aveva lanciato una stampa samizdat, Edice Petlice, che in segreto  distribuiva libri dattiloscritti. Quando le autorità, esasperate, si  offrirono di restituirgli il passaporto e di dargli il biglietto per lasciare per sempre il paese, Vaculík rifiutò. Della “primavera di Praga”  era stato attivissimo protagonista, redigendo, tra l’altro, il famoso “Manifesto delle 2000 parole”. Il suo straordinario romanzo “Le cavie”, mai ristampato in italiano, fu bandito a Praga.


Il rapporto più caloroso di Roth fu con Kundera, che aveva incontrato a cena. “Ho imparato il valore dell’umorismo durante il periodo del terrore stalinista”, gli disse Kundera, che pensava di poter riconoscere gli spiriti affini dal modo in cui sorridevano. Quello di Roth gli piacque subito. Roth strinse amicizia  anche con Vera Saudková, la figlia della sorella più giovane e prediletta di Kafka, Ottla. Ricordando che Wystan Auden aveva sposato Erika Mann, la figlia di Thomas, per aiutarla a fuggire dalla Germania nazista, Roth si offrì di sposare Saudková, ma lei rifiutò (dirà Roth, scherzando, che “stava aspettando un’offerta da John Updike”). Roth sentiva un’affinità anche per il burbero Jiří Mucha, che i comunisti avevano arrestato  come “spia” e  condannato ai lavori forzati nelle miniere di uranio. 
“Soldi”, rispose Klíma, quando Roth gli chiese di cosa avevano più bisogno gli scrittori dissidenti. Diede così all’amico americano un elenco di quattordici persone (Roth aggiunse Klíma per farne quindici), che erano finite in miseria a causa della persecuzione ufficiale. Roth propose un “Fondo ad hoc”, in base al quale ogni dissidente veniva abbinato a una controparte americana: un romanziere a un romanziere, uno storico a uno storico, a cui mandare cinquanta dollari al mese. Roth si avvalse della collaborazione di amici come Arthur Miller (che aiutò il drammaturgo Milan Uhde), Saul Bellow, Joyce Carol Oates e Gore Vidal.  La parte più difficile era organizzare la distribuzione dei fondi, che richiedeva un bel po’ di segretezza, per timore che il governo cecoslovacco scoprisse la natura della transazione. Nel qual caso, il denaro sarebbe stato confiscato e i destinatari puniti. Roth trovò una squallida agenzia di viaggi ungherese a Yorkville specializzata nell’invio di regali a persone dietro la Cortina di ferro e trascorreva molte ore ogni mese a compilare documenti per far sembrare che il denaro, sotto forma di buoni regalo, provenisse da membri delle famiglie cecoslovacche a New York.


Nel frattempo, Roth era pedinato quando andava a Praga. La polizia segreta cecoslovacca (StB) seguiva “uno sconosciuto di circa quarant’anni, alto un metro e 75, snello, viso allungato, capelli neri e radi, occhiali… con una mappa di Praga in mano…”. Dato che Roth era sempre a Praga con un visto turistico, al caso fu assegnato il nome di “Turista”. Roth scriverà, nauseato dalla vita sotto il socialismo reale: “Prevalgono i soliti riti del degrado: il disancoraggio dalla propria identità personale, la soppressione dell’individuo, la paura… L’inatteso è la norma, l’ansia è il risultato. La rabbia ha una monotonia bruciante… il delirio maniacale di essere ammanettati… sorbisci tirannia insieme al caffè. La spietata macchina traumatica del totalitarismo sfoggia il peggio del suo armamento. Era vietato pubblicare, insegnare, viaggiare, guidare un’auto, scegliere come guadagnarsi da vivere”… 


Un giorno, mentre tornava da un’orribile mostra d’arte sovietica, due poliziotti fermarono Roth per strada e gli chiesero i documenti (passaporto, visto, tessera d’albergo). Gli dissero di seguirlo e Roth rifiutò. Quando uno ceercò di afferrarlo, Roth iniziò a urlare in inglese e francese ai pedoni in attesa di un tram: era un americano e se la polizia lo avesse arrestato avrebbero dovuto denunciarlo all’ambasciata americana. Roth riuscì così a saltare su un tram. Si fermò a una cabina telefonica e chiamò Klíma. “Philip, stavano cercando di spaventarti”. La sua ultima visita si concluse con un vero arresto e il giorno dopo dovette lasciare il paese. Uno studente dissidente, Jan Kavan, scrisse a Roth per conto dei Klíma, consigliandogli di non tornare a Praga fino a nuovo avviso, poiché avrebbe potuto mettere in pericolo le persone che più desiderava aiutare. “Cosa ci fa Roth qui in Cecoslovacchia?”, la polizia aveva chiesto nel frattempo a Klíma. “Non leggete i suoi libri?”, rispose Klíma facendosi beffe del regime. “Roth è qui per le ragazze”.


Almeno tre eminenti scrittori cechi - Miroslav Holub, Bohumil Hrabal e Jiří Šotola - avevano deciso di rivendicare la piena cittadinanza confessando pubblicamente i loro “errori”. La “normalizzazione” stava dando i suoi frutti. Al suo ritorno negli Stati Uniti, Roth avrebbe fornito un resoconto completo di tali “metodi dell’era staliniana” al Washington Post. La polizia segreta sedeva ai tavoli accanto a lui ai ristoranti, “avendo così imparato qualcosa, spero, sulla letteratura americana contemporanea e sulle vecchie barzellette ebraiche”, avrebbe osservato Roth. 


Le richieste di visto da parte di Roth nei successivi dodici anni furono tutte respinte e riuscì a tornare a Praga soltanto nel febbraio del 1990. Vide subito Klíma. Mise in guardia l’amico sui pericoli della cultura di massa, banale e commerciale in occidente. Le catene di un sistema autoritario sono ovvie, quelle di una società “libera” più infide e sottili: l’autore vive sotto la tirannia del filisteismo, dell’opinione pubblica e del “buon gusto”. “Hai combattuto per qualcosa da così tanti anni, qualcosa di cui hai bisogno come l’aria: ora ti dico che l’aria per cui hai combattuto è un po’ avvelenata”. 

  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.