Manifestazione a sostegno di George Floyd a Minneapolis nei giorni del processo contro Derek Chauvin (LaPresse) 

Meglio le stelle che le strade

Stefano Pistolini

L’afro-futurismo non combatte in piazza ma sublima la questione razziale associando “nero” a “futuro” e diventando ogni giorno di più un’espressione condivisa. O meglio: una via di fuga

Diciamo che l’afro-futurismo è il contrario del Black Lives Matter. Il tema in discussione è: quali sono le possibili vie di fuga? Stanno forse nel parossistico attaccamento alla realtà sostanziato dallo scendere in strada, fare casino, sabotare la normalità fino al punto che qualcuno s’accorga della tua esistenza e ascolti quel che hai da dire? – ma poi quel che hai da dire è umanamente ascoltabile? L’erede di un Olocausto può passivamente sentirsi elencare quei peccati e, conclusa l’esposizione, da parte sua esporre un piano di espiazione e di risarcimento? O è un’illusione, ovvero certi errori non si cancellano nemmeno col tempo, certe ferite non si rimarginano, certe offese non si perdonano, i morti non escono dai sepolcri, i violentati non riacquisiscono purezza, i sottomessi non dimenticano, nulla può tornare come prima, se soppesato realisticamente? Sempre che esista questa volontà di riparazione, ma chi potrebbe giurarlo, senza timore d’essere smentito? Ovvero: un popolo che per secoli è stato schiavo di un altro, privato di tutto e sottoposto a tutto, a ogni ultraumana umiliazione, riesce nella sua progenie definire la cifra che può placarlo? I figli dei figli dei figli possono dichiarare esaurito il ciclo? E quanto vale, calcolata in un’arida percentuale nazionale, la volontà di riconciliazione che sia sincera, effettiva, necessaria, spontanea, priorità delle priorità, nella definizione di uno spirito nazionale americano –  e non aggiustamento e comodità, ipocrisia e ignoranza, sospetto e ira e ancora, come allora, senso di superiorità connesso alle trasmissioni ereditarie, confortato da convinzioni e abitudini, da usi e silenzi? 

 

Non si fonda  sulla opposizione tra razze come il Blm, ma sul superamento del concetto stesso di razza

 
Allora si può dare fuoco alle città, invocando, una riabilitazione razziale che è nevrosi già nell’atto del pronunciamento, perché pretende il rimedio, ma non estirpa la colpa. Oppure si può volare. Tra le stelle. Procedere al più prodigioso e spettacolare esercizio di sublimazione che sia dato di questi tempi. Rimuovere, decollando. Accordando a una razza, finalmente, quella tanto esecrata diversità. Una diversità interstellare. Perché non importa che nero sia bello. Meglio che nero sia futuro. E che sia sempre domani. Inarrivabile, irraggiungibile. Che sia un sogno e un delirio, entrambi bellissimi per la loro impalpabilità, che non ha più niente di reale. Sovraumano, mistico, avventuroso e spaziale, come dovrebbe essere nelle vite degli dei, se esistesse ancora un Olimpo. Tutta una razza che si autoelegge a divinità, dal momento che la prosaicità terrestre non l’ha compresa e ha voluto sottometterla. Però non si possono sottomettere gli spiriti: loro sono liberi, risplendono. 


Ecco, questo è l’afro-futurismo. Non combatte con pietre e bastoni, non caccia grida strozzate per rivendicare la mancata pietà verso un fratello morto, non s’accontenta di un saccheggio, non cade negli stereotipi della vendetta. Va molto oltre. Annulla tutto ciò che le è razzialmente estraneo. Perché nel mondo dell’afro-futurismo, tutto è nero, solamente. E la fuga dalla realtà diventa arte. “L’afrofuturismo proietta nel futuro le persone di origine africana, in una dimensione nella quale il concetto di razza diventa solo una creazione”, scrive Ytasha Womack in “Afrofuturism: The World of Black Sci- Fi and Fantasy Culture”, il saggio più esaustivo sull’argomento, pubblicato nel 2013. “La cultura americana è costruita intorno a un’amnesia. E l’afro-futurismo è un corto circuito che smuove da questa condizione”, annota ancora, spiegando come in questo rito creativo si mescolino passato, presente e soprattutto futuro, quel “futuro migliore” eternamente vagheggiato.

 

La narrazione afro-futurista si propaga tra i neri facendo combaciare l’immaginazione e la liberazione dagli incubi

 
L’intuizione dell’afro-futurismo è potente e al tempo stesso latente nell’immaginario nero ormai da molto tempo. Dove, se non in quei dintorni, si colloca l’idea folgorante dell’“Uomo Invisibile” di Ralph Ellison, scritto nel 1952 per definire la nuova forma di alienazione che colpisce i neri in pieno Novecento, sotto le vesti dell’emarginazione, dell’ostilità diffusa, degli stereotipi razziali?  Una decina d’anni dopo James Baldwin in un’intervista dichiara: “Ti viene sempre detto che essere nero è terribile. Per sopravvivere, devi scavare, ricreando di te stesso un’immagine che in America ancora non esiste”. E’ di nuovo lo sguardo attonito di fronte alla constatazione di un futuro a prospettive zero. Unica via d’uscita la fuga, almeno virtuale. Ed ecco che il magnifico maestro dell’astral jazz, Sun Ra, cancella la sua reale identità e si dichiara cittadino di Saturno, di natura aliena. 

 

 
Sono i primi vagiti, l’intuizione dell’afro-futurismo, anche se manca, e mancherà sempre, un’ufficialità o un codice di affiliazione. Verrebbe da dire che più che una chiave espressiva nasca come elucubrazione, ipotesi di un sentimento raggiungibile e subito confortante. Sono già i concerti delle megaband nere anni ’70, Sly and the Family Stone o i Parliament/Funkadelic di George Clinton e Bootsy Collins, a declinare in forma edonistica la definizione di questo esilio: i loro brani sono interminabili come riti voodoo, il suono funk è ipnotico, lo scenario è di veri viaggi psichedelici, lontano, verso il pianeta del Chissàdove, abbandonando ogni inseguimento delle ambizioni middle class, lavoro/guadagno/felicità, rinchiudendosi in una tribalità arcaica, dove il ritmo rallenta, la pressione si allenta, l’empatia diventa questione puramente razziale e precostituita, recuperando la fratellanza precedente allo choc dello schiavismo. Ghetto-style ovvero, in sostanza, autoreclusione in una riserva razziale. 


A fine anni ’80, nella Detroit già scossa dalle avvisaglie della crisi, un gruppo di giovani artisti condensa nel rapporto estremo tra elettronica, musica e ballo la descrizione di una frontiera d’evasione. Si chiamano Kevin Saunderson, Derrick May e Juan Atkins, inventano una musica minimale che si chiamerà Techno e il loro immaginario visivo è alimentato dai mondi fantastici di Alvin Toffler. Nel ’93, nel saggio “Black to the Future” il critico Mark Dery scrive: “L’afro-futurismo è l’appropriazione della tecnologia e dell’immaginario science fiction da parte degli afroamericani. Un’appropriazione che utilizza strumenti freddi e ostili, trasformandoli in armi per la resistenza di massa”. 

 

Lo scetticismo spinge a credere che a un ragazzino nero del 2021 converrebbe diventare un uomo invisibile 

 
Di nuovo da Detroit, la Motor City, si sovrappone la voce di Ingrid LaFleur, curatrice d’arte e una delle più esplicite teoriche dell’afro-futurismo: “Dobbiamo guardare al passato profondo: solo così impareremo a comprendere la schiavitù come deviazione di una storia assai più complessa e densa di significati”. Un presente dunque dilaniato dai richiami del passato e del futuro, alla ricerca degli alibi necessari per demandare l’esecuzione dei propri obblighi sociali: tra i neri diviene sempre più smunta e occasionale l’adesione a un progetto nazionale, di sicuro secondaria all’appartenenza razziale. Un fenomeno di resistenza che però, con la via di fuga dell’afro-futurismo, non si fonda più sull’opposizione tra le razze, e dunque sul fronteggiamento canalizzato dall’approccio BLM, ma addirittura sul superamento del concetto di razza. Anche il romanzo di Colson Whitehead, “The Underground Railroad”, recente successo editoriale, nasconde nel suo finto realismo melò una fantasia afro-futurista che disegna mappe di evasione e riscatto che sarebbero a malapena accettabili in un libro per bambini, e qui invece riaffermate con nonchalance, quasi a voler convincere i lettori che mentre ancora era tempo di guerra civile, già un altro mondo era – e dunque è – possibile. 


(Nota a margine. Il fenomeno non è nuovo. In tempi novecenteschi di assoluta angoscia razziale, alcuni scrittori ebrei crearono dei supereroi come Superman, Capitan America, Batman, e Spider Man: non siamo forse anche in questo caso al cospetto di una sublimazione verso l’irrealtà, nell’invenzione di modalità umane diverse, finalmente risolutive delle tragiche contraddizioni dell’umanità reale, per ciò che si rivela essere?).

 

Il famoso allineamento non funziona con le proteste, ma tra gli anelli di Saturno, o nella Wakanda di “Black Panther”

 
C’è una lunga lista di nomi e produzioni da conoscere, visionare, e assaporare, per seguire i filamenti del fenomeno “afro-futurismo”, che è caotico, intermittente, privo di coordinamento, lasciato alla libera interpretazione di artisti e tecnici, ampliando esponenzialmente la forbice del proprio spettro espressivo. Provate ad avvicinare scrittori come Octavia Butler, i cui scenari fantascientifici sono dominati da potenti smaglianti donne nere e popolati di generi incredibilmente “post”, germogliati da innesti tra umani, insetti e vegetali, e dove le distinzioni diventano infinite e non binarie, dove razza e orientamento sessuale si polverizzano in una vorticosa moltiplicazione delle possibilità, dove la civiltà si chiama tecnologia e il soprannaturale è connaturato e non superiore, ma dove soprattutto il “nero”, con la sua assolutezza, mantiene uno status di astratta, immota superiorità. La narrazione afro-futurista si propaga tra i neri facendo combaciare l’immaginazione e la liberazione dai perenni incubi, eredità dei padri, e patrimonio da amministrare ai figli, come ha scritto in modo magistrale Ta-Nehisi Coates in “Tra Me e il Mondo”, lettera al figlio in cui delinea in modo struggente il terrore senza requie che imprigiona ogni “corpo” nero che abiti in America. Una condizione che induce all’inazione e alla frustrazione, con tre possibili antidoti: il diligente ottimismo obamiano, che chiede l’ennesimo sforzo di responsabilità e autocontrollo, concentrandosi sui propri errori, prima di lamentare quelli altrui; oppure l’isterica protesta indiscriminata di coloro che, invece di approfondire la sostanza di un messaggio come “Una Vita Nera Conta”, risolvono la questione nel caos di una violenza beffarda e nichilista. O, ancora, l’elevazione dei linguaggi in una sfera “altra”, in congedo dalla realtà che Ingrid LaFleur, definisce come “immaginare possibili futuri attraverso una lente culturale nera”. E dove la soluzione è speziata da un misticismo che ridisegna nel fantastico, addirittura nel fantascientifico, ben oltre i confini della realtà, l'esperienza delle persone di colore. Il gap, lo stato di crisi che si apre pensando alle battaglie per i diritti civili e più in genere alle mobilitazioni per gli innumerevoli gradi di riscatto indispensabili a una pacificazione della razza, diviene qui flagrante. E si allontana in uno spazio siderale e afro-futuristico, verso un mondo di delirante tecnologia popolato da forme extra-umane, rigettando dunque l’appartenenza e la possibilità di un’umanità che valga la pena di essere vissuta. Sono segni e invocazioni presenti nell’opera di Jean-Michel Basquiat e di Ellen Gallagher, nella sistematica, provocatoria trasgressione afro-femminista di Renée Cox (memorabile la reazione di Rudy Giuliani sindaco, al cospetto della sua “Ultima Cena di Yo Mama”, enorme ed esplicito foto-montaggio al Brooklyn Museum). 

 
E di nuovo la dilagante black music afro-futurista, prima coi Public Enemy e gli Outcast, poi con Erykah Badu, Nicki Minaj, Janelle Monae (il suo esordio “The ArchAndroid” (2010), mescolava una visualità ripescata dall’espressionismo tedesco di “Metropolis” – altro sentiero di distopia politica – con amare riflessioni sul cammino nel disastro degli afroamericani nel XXI secolo, quelli che cadono giovanissimi, quelli rinchiusi a branchi nelle carceri, quelli incapaci di assoggettarsi, quelli lasciati indietro), fino a Rhianna e alle sorelle Knowles, Beyoncé (che ama immortalarsi nelle vesti della regina cosmica di regni utopici, come in “Lemonade”) e Solange, titolare di una sensibilità più cupa e introversa (“A Seat at the Table”, 2016), che converge laddove l’invenzione è l’unico antidoto alla depressione. L’afro-futurismo diviene il magnete di ricambi espressivi per un numero crescente di artisti neri, amplificando la rappresentazione di questa illusione prodotta dal naufragio di un procedimento collettivo che mai ha trovato la giusta strada per sostanziarsi. Se va oltre diventa una semplice sottocultura, che in altri tempi ci saremmo trovati a bollare come residuale e perfino elitaria. Diventa un sintomo dei tempi. 


Ma poi succede qualcosa d’inatteso e per di più nell’imprevedibile campo dei fumetti. I boss della Marvel, Stan Lee e Jack Kirby, già nel 1966 avevano inserito nel manipolo dei “Fantastici 4” il personaggio di Black Panther, in coincidenza con la nascita di un partito che si chiamava allo stesso modo e che si batteva per il riscatto degli afroamericani. Black Panther viene da Wakanda, terra africana di un progresso diverso e di una scientificità animistica, regno autonomo, dotato di una tecnologia perfetta che rende impotente lo sfruttamento del capitale globale – ovviamente bianco. Nel 2018, mentre l’America reale già batte in testa per le recrudescenze razziste della nazione trumpiana, mentre l’allarme sociale sale, i poliziotti sparano, i neri muoiono, le folle ruggenti sono tenute a bada solo dal deflagrare della pandemia, ecco spuntare prima un fumetto incentrato solo su Black Panther e poco dopo un film, capace di trasformare questo concentrato di afro-futurismo in vero mainstream da botteghino. L’Africa del passato scagliata nel futuro, nella quale si muovono Chadwick Boseman e Michael B. Jordan, diventa un simbolo popolare, condiviso, comprensibile, declinabile in t-shirt e pagine Instagram. Il team creativo formato dal regista Ryan Coogler – non uno sprovveduto su questi temi – e il solito geniale e pirotecnico Ta-Nehisi Coates riesce a sposare il successo commerciale (decimo miglior incasso di tutti i tempi), l’apprezzamento critico e il lancio nell’orbita della pop culture di un supereroe afro-futuristico, che presso le platee informate d’America ha più charme di Batman. In “Black Panther” sono i neri a padroneggiare la tecnologia più avanzata sulla Terra e il metafisico regno di Wakanda, lussureggiante mix di Africa, fantascienza e retorica afroamericana, diviene la Bengodi di una razza stremata, disposta a optare per l’oppio di un bellissimo sogno allucinatorio. Il vagheggiamento di Wakanda diviene la risposta disperata alla questione posta da Dery nel suo saggio: “Può una comunità il cui passato è stato deliberatamente cancellato e le cui energie sono state consumate dalla ricerca di tracce leggibili della propria storia, immaginare un futuro possibile?”. L’afro-futurismo sancisce che tutto ciò, considerato dal punto di vista dell’esperienza razziale nell’America d’oggi, può realizzarsi solo nella fantasia di un rigoglioso fumetto. La pace spirituale, per adesso, è fantascienza. E neanche la politica ha saputo produrre le condizioni  per una decente libertà, assoluta e paritaria. Troppe scorie sono ancora in circolo, dopo secoli di terrore e linciaggi. Troppe ingiustizie e incongruenze grondano dalle cronache dell’America normale. E’ per questo che l’afro-futurismo, che dovrebbe essere solo un sofisticato meccanismo estetico, un detour dalla prolifica creatività dei nuovi artisti di colore, diventa ogni giorno di più un linguaggio espressivo condiviso. C’è stanchezza e sfiducia all’origine di tutto ciò. C’è lo scetticismo che spinge a credere che a un ragazzino nero del 2021, tutto sommato, converrebbe diventare un uomo invisibile come quello di Ellison, 70 anni addietro. Perché il famoso allineamento non funziona, la macchia resta al suo posto, la soluzione sta inutilmente cercando un improbabile mentore. Per le strade delle città, non tra gli anelli di Saturno. 

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