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Come è vuota la filosofia

Giovanni Maddalena

L’assurdità dell’adesione di massa al marxismo (oggi dimenticato), gli errori dell’Italian theory, la fine del post-modernismo à la Vattimo. Indagine sulla  salute del pensiero italiano. Dialogo con Massimo Ferrari

Cinque anni fa usciva per Il Mulino Mezzo secolo di filosofia italiana, una cronaca della filosofia italiana dal 1950 al 2000 di Massimo Ferrari, uno degli storici della filosofia più credibili e precisi, giustamente riconosciuto a livello internazionale. Sono passati cinque anni e vorrei sapere se i giudizi e le linee di sviluppo che emergevano da quell’affresco di filosofia novecentesca sono ancora validi. Per chi non l’avesse letto, il libro è una mappa dell’intera filosofia italiana della seconda metà del secolo scorso. Chiunque abbia fatto un percorso di filosofia, a qualsiasi livello, può rintracciare nell’informatissimo volume il proprio ramo all’interno di un albero genealogico nazionale e capire che cosa sia nato da quel ramo o se esso si sia poi seccato.

 

Massimo Ferrari, che insegna all’Università di Torino, è un valdostano schivo, come spesso sono le persone di montagna, ma sempre chiaro e netto quando parla. C’è ancora una filosofia italiana?, gli chiedo. Mi confessa di essere stato spesso criticato per quell’aggettivo, che suona un po’ di nazionalismo, ma che, alla fine, bisogna ammettere. “So che questa questione dell’italianità suscita dubbi, polemiche, incertezze, ma credo non ci sia nulla da scandalizzarsi. Esistono di fatto i filosofi italiani che lavorano dentro certe istituzioni e si occupano di certi problemi utilizzando una lingua che è l’italiano. E ciò mi sembra un dato di fatto, non è nemmeno oggetto di valutazione”. Ma c’è uno stile preciso dei filosofi italiani? “Certamente una caratteristica che colpisce, anche all’estero, è la propensione di buona parte dei filosofi italiani per la dimensione storica”.

 

Alla fine del libro si fa vedere come questo peculiare stile italiano sembra essersi affermato recentemente a livello internazionale, per due ragioni, che Ferrari ripropone ora in questi termini: “Forse anche in virtù di un antico complesso di provincialismo, i giovani studiosi italiani di filosofia, a partire dalla fine del secolo scorso, hanno avuto una capacità di adattamento unica, parlando diverse lingue e viaggiando in numerose nazioni. Inoltre, c’è la stortura fondamentale del sistema accademico, che non assorbe i nostri giovani e li costringe a emigrare. Le condizioni sono ovviamente meno drammatiche di quelle dei nostri avi nel primo Novecento, ma è sempre un’emigrazione che determina anche un’esportazione culturale. I nostri giovani ricercatori esportano oggi una flessibilità mentale, un’apertura, una capacità di adattamento e un’originalità che sono davvero notevoli”.

 

In fondo, però, oltre a queste qualità metodologiche e caratteriali, il volume sul secondo mezzo secolo di filosofia novecentesca, pur nel raccontare il più oggettivamente possibile l’intensa storia fatta di riviste, libri e convegni, fa emergere anche un’alternativa tra modi di fare la filosofia che Ferrari dipinge in questo modo. “Semplificando, rimangono due possibili orientamenti: uno della filosofia aperta alle varie forme di sapere, tra le quali quella scientifica occupa un posto estremamente rilevante, e l’altro di filosofie che ritengono superflua e dannosa la commistione con altre forme di sapere. La seconda è una filosofia “chiusa” dove l’aggettivo va inteso nel senso di autofondante, alla ricerca di un fondamento di sé stessa, o di un fondamento perduto, per parafrasare Marcel Proust”.

 

Da questo punto di vista, tante espressioni celebri del pensiero italiano sembrano segnate dal passare del tempo. Per esempio, sembra storia passata l’adesione della maggioranza dell’intellighenzia italiana al marxismo, visto in tutte le fogge filosofiche, da quelle razionaliste di Antonio Banfi a quelle fenomenologiche di Enzo Paci. Ma sembra questo il destino anche, in campo cattolico, della metafisica di Adriano Bausola, dell’ermeneutica di Luigi Pareyson o delle ricostruzioni storico-ideali di Augusto Del Noce. Forse, potrebbe essere questo il destino persino della grande abbuffata post-moderna comparsa al tramonto del marxismo con l’opera di Gianni Vattimo. Da questo punto di vista, Ferrari pensa che siano state più lungimiranti e proficue esperienze di pensiero meno altisonanti, sebbene diverse fra loro, come quella di Giulio Preti o di Italo Mancini, più aperte al confronto con altre discipline.

 

C’è stata forse troppa politica nella filosofia italiana o invece, come sostiene la cosiddetta Italian theory, la specificità della filosofia italiana sta proprio nell’intreccio con la politica, già esemplificato da Machiavelli? “Non credo tanto nell’opportunità di costruire una filosofia della storia che rimonti fino alle origini, ci sono però certamente numerose stagioni della filosofia italiana in cui l’intreccio con la politica è stato molto forte. Aggiungerei due ulteriori considerazioni: la prima è che questo intreccio con la politica c’è stato, ma non esaurisce certamente il quadro della filosofia italiana; la seconda è che, nonostante in Italia tale legame sia evidente, non bisogna dimenticare che anche altre filosofie europee hanno vissuto momenti di forte impegno politico da parte dei filosofi. Si pensi banalmente alla Francia del secondo dopoguerra, a filosofi come Jean-Paul Sartre o Maurice Merleau-Ponty; o alla grande emigrazione degli intellettuali tedeschi verso gli Stati Uniti, dettata dalla politica in senso lato e che ha avuto anche una risposta politica da parte di coloro che sono stati costretti ad emigrare. Si pensi alla scuola di Francoforte, o ad Hannah Arendt ed Ernst Cassirer, che venivano da un mondo più distaccato, forse più olimpico, e poi si sono trovati a dover fare duramente i conti con la storia”.
E perché tutto questo fascino per il marxismo? “La ‘mobilitazione degli intellettuali’ è stata parte consistente nella storia italiana e di larga parte di quella novecentesca. Il travaso dalla cultura fascista a quella post-bellica è stato molto sofferto e ha fatto sì che il ceto intellettuale abbia avuto necessità di radicarsi in un mondo diverso da quello del fascismo, pur portandosi dietro quell’esperienza di partecipazione alle istituzioni culturali, che era già parte integrante della vita dell’intellettuale sotto il fascismo. L’altra questione rilevante è quella della cosiddetta ‘egemonia dell’idealismo’, la cui fine ha innescato processi di revisione più o meno consistenti, di cui un interlocutore importante certamente è stato il marxismo. E non dimentichiamo che in Italia, e questa sì è una sua specificità, si trova una figura come quella di Antonio Gramsci, che ha rappresentato da subito un polo d’attrazione, a prescindere da tutte le varie discussioni in merito alla sua biografia e al suo pensiero. Poi, certo, si può dibattere su come sia stato letto, interpretato o pubblicato. E’ però un dato di fatto che per l’intellighenzia orientata a sinistra il confronto con Gramsci è stato quasi un imperativo. Si pensi che anche uno storico della filosofia raffinato come Eugenio Garin alla fine degli anni Cinquanta entrò nel circolo degli studi gramsciani tenendo una relazione al primo congresso di Roma dedicato alla figura del pensatore sardo, aperto da Palmiro Togliatti”.

 

Che cosa è rimasto di tutto questo? “Dal punto di vista strettamente filosofico, io onestamente credo che di tutta la grande ricchezza della ricerca in merito al rapporto Hegel-Marx e ad altri temi canonici sia rimasto abbastanza poco. È rimasto Gramsci, ma persino Marx è stato perso. Forse adesso qualcosa si sta modificando perché la crisi del capitalismo internazionale è talmente profonda che qualcuno comincia a pensare che, forse, le pagine marxiane non possano essere solo oggetto di una curiosità antiquaria”.

 

Ci sono personaggi sottovalutati o sopravvalutati in questa storia? La risposta è abbastanza inaspettata da parte di uno storico tanto attento al rapporto tra filosofia e scienza. “Sicuramente Geymonat. Nessuno vuole ovviamente mettere in discussione i suoi meriti, anche civili, però è stata una figura sopravvalutata per molte ragioni. Quello che ha fatto tra gli anni Trenta e i primi Cinquanta, che leggiamo dappertutto e su cui si è quasi costruito una leggenda, va ridimensionato. Si pensi alla sua esperienza a Vienna, dove incontra Moritz Schlick. È vero che frequenta quell’ambiente, parlandone e diffondendone le idee in Italia, ma se andiamo a leggere attentamente i suoi testi, sono abbastanza approssimativi”.

 

Tramontato questo mondo antico, già la fine del Novecento aveva visto l’affermarsi del canone della filosofia analitica anglosassone, importata dagli studi eccellenti di Andrea Bonomi e Diego Marconi. La filosofia analitica sembra ora un po’ in crisi, ridotta più a uno stile che a un’idea o a un ideale. Gli articoli scientifici si ripetono in forma identica in tutto il mondo, spesso su tematiche microscopiche di cui è difficile vedere l’orizzonte. Che cosa ne pensa Ferrari? “La mia sensazione è che il cosiddetto paradigma analitico sia destinato a ridimensionarsi, perché è divenuto una scienza canonizzata. So che è scontato dirlo, ma spesso si tratta della scoperta dell’ovvio. Secondo me, molte delle elucubrazioni, pensiamo ad esempio a quelle sull’intenzionalità, che certo va ripensata in termini diversi rispetto a quelli di Franz Brentano ed Edmund Husserl, esigono molta cautela filosofica. Non credo che un terreno relativamente recente come questo sia affrontato dalla filosofia analitica con strumenti davvero innovativi”.

 

Così la filosofia si è spostata in altri luoghi, con meno precisione ed efficacia. “La filosofia mantiene una sua funzione significante nella misura in cui, come direbbe Richard Rorty, è stata tradotta sempre più in conversazione. Una conversazione, ahimè, che non avviene nei dipartimenti universitari o nelle sedi specializzate quanto alla televisione e sui giornali. E quindi quello che circola come ‘filosofia’ presso il grande pubblico è l’opera del tuttologo, dell’opinionista, magari anche intelligente. Quella disciplina invece che chiamiamo filosofia, in cui ci riconosciamo, certamente ha difficoltà a farsi riconoscere. Io però vedo un possibile orizzonte, legato all’etica, che spazia dalla bioetica a tutto ciò che coinvolge i nostri discorsi sulla crisi del presente e il destino della civiltà in un’epoca di sfide formidabili. Non nel senso di difesa di valori perenni, ma nel senso di avere una strumentazione concettuale con cui interpretare ciò che avviene tra gli uomini e i principi che potrebbero, o dovrebbero, regolare la vita nella polis”.

 

Ferrari vede un futuro della filosofia meno anglosassone, magari passando per la rivalutazione di esperienze di pensiero francesi, spesso rimaste ai margini. “Un’idea maturata dopo aver scritto Mezzo secolo di filosofia italiana è che, forse, in tempi neanche eccessivamente lunghi, questa funzione dominante della filosofia anglosassone potrebbe anche esaurirsi. Infatti, essa comporta una conformazione crescente, per quanto riguarda i criteri di valutazione della ricerca e persino lo stile di scrittura, sulla quale negli anni sono diventato più pessimista. Recentemente pensavo anche agli effetti negativi della monopolizzazione del mercato filosofico. Si pensi ad esempio al fatto che grandi tradizioni filosofiche, che hanno profondamente inciso nella nostra modernità, sono considerate con un certo distacco, quasi dimenticate. Mi riferisco specialmente alla cultura filosofica francese. Lasciando da parte qualsiasi valutazione di merito, mi sembra che la predominanza dell’indirizzo analitico anglofono abbia portato a stabilire un dogma secondo cui la filosofia della scienza abbia un fortissimo marchio viennese, neopositivista o empirista logico, trasmigrato poi in contesto anglosassone. Per vari motivi ho studiato molto personaggi come Pierre Duhem, Henri Poincaré, Léon Brunschvicg, Émile Boutroux e altri; l’Otto-Novecento è stata una fucina formidabile di filosofi che parlavano francese e da cui in qualche modo anche gli altri hanno imparato, non soltanto gli anglofoni, ma anche quelli che parlavano tedesco. C’è stato un momento in cui la centralità di questa cultura francese è stata davvero straordinaria, e noi forse lo abbiamo scordato”.

 

Aggiungo a questo elenco il mio Jean Cavaillès, giovane matematico e filosofo che riprovava a mettere la matematica come rapporto con la realtà metafisica senza tradire la precisione del gesto matematico e la sua tradizione razionale. “Sì, effettivamente c’è stato un filone che è stato davvero ricchissimo. Poi spezzato dalla Seconda Guerra mondiale, poiché Cavaillès e Lautman furono fucilati dai nazisti. Nel rimescolamento delle carte ormai avviato, se qualcosa esiste, o dovrà esistere, o potrebbe esistere come un’autentica identità europea, non la si potrà costruire esclusivamente sull’asse anglofono”. Intanto la mappa è completa e chi volesse orizzontarsi anche oggi farebbe bene a darci un’occhiata. Ferrari torna tra le sue amate montagne, mentre qui bisognerebbe aprire il confronto sia sul passato sia sul futuro. Siamo certi che in tanti avranno qualcosa da dire e il Foglio seguirà la vicenda di una disciplina della quale, nonostante tutto, è impossibile non sentire il fascino.

 

(Ha collaborato Achille Zarlenga)