L'ebbrezza di una giovinezza eterna troncata con un colpo di rivoltella

Elisa Veronica Zucchi

La vita e le opere. In libreria (Adelphi) le poesie di Carlo Michelstaedter, una delle personalità più spiccate del secolo scorso

La figura di Carlo Michelstaedter, una delle personalità più spiccate del secolo scorso, è ancora avvolta dal mistero. Nato a Gorizia (allora Görz) nel 1887, filosofo e poeta, a un tempo italiano e mitteleuropeo, di origini ebraiche, fu contemporaneo da un lato di Carducci e D’Annunzio, ma al tempo stesso di Ungaretti e Montale, e fu – a detta di molti – a Leopardi affine. I primi versi di Michelstaedter risalgono al 1905, quando scrive diciottenne una lirica per congedarsi dai compagni di classe. Ora Adelphi ha ripubblicato una versione accresciuta delle Poesie, sempre a cura di Sergio Campailla. Ma perché un ragazzo di così poderoso talento, ricordato da Biagio Marin come “il più notato per la sua bellezza, per la sua eleganza”, con un forte attaccamento alla famiglia, avido di conoscenza, abile caricaturista e goloso di dolci, avrebbe deciso di allontanarsi dai famigliari e si sarebbe tolto la vita a soli ventitré anni con un colpo di rivoltella il 17 ottobre 1910, nel giorno del compleanno della madre?

 

L’interpretazione di tale gesto è decisiva per la comprensione della sua opera: “Cristo è salito al Calvario per morire, non per accomodarsi alla vita” (Epistolario, Adelphi, 1983, p. 418). Sempre seguendo il filo della contraddizione, Michelstaedter si confessa: “Ho riso di tutto e ho vissuto per sport. Ed ora che ho conosciuto che cosa era la mia sicurezza ed ho preoccupato il futuro, che mi resta se non il riso maligno, e il dolore bruto per la brutalità irriducibile della forza che mi tiene in vita? (…) Solo una reazione mi resta ora: d’andarmene, di distruggere questo corpo che vuol vivere” (p. 431). Per essere “nessuno” (gr. Outis, non-uno) è necessario sapersi già postumi, poiché infiammati di vera vita, ovvero di vita libera e liberata dalle illusioni; bisogna poi vegliare a che quell’altra vita, quella inconsapevole, non ci privi del “sapore” e della “salute”. “Gnothi sautón, conosci te stesso”, l’esortazione greca iscritta nel tempio di Apollo a Delfi, che ispirò a Socrate il motto “ti estì” (“Che cos’è?”), risuona insistentemente in tutta l’opera di Michelstaedter, attraverso il concetto di Persuasione: “Persuaso è chi ha in sé la sua vita” (La persuasione e la rettorica, Appendici critiche, Adelphi, 1995, p. 10); il persuaso fa “di sé stesso fiamma” e trova “nella persuasione la pace” (p. 49). Veggenza e persuasione si fondono in una luce istantanea, al contempo chimera e verità accecante. L’ebbrezza di una giovinezza eterna si manifesta, nello scrittore goriziano, in una “consistenza” e “incoscienza” in senso schopenhaueriano: come liberazione dalla contingenza, assenza di volontà, nolontà, come “attitudine a mantenersi nell’intuizione pura, perdendovisi; a redimere dalla schiavitù della volontà la conoscenza che le era originariamente asservita” (Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia, 1991, p. 224).

 

Schopenhauer, pensatore imprescindibile nella formazione di Michelstaedter, attribuisce queste caratteristiche al genio. Nello scrittore goriziano, il principio creatore agisce e si genera nello smascheramento della realtà, nella separazione della nuda realtà dall’apparenza. Ma anche nell’essere nudo si nasconde un’insidia: lo stesso corpo è apparenza. V’è un’angoscia, in Michelstaedter: non poter fare a meno di voltarsi, come Orfeo, verso l’amata Argia (Euridice), domandandosi s’ella sia un’ombra o lei stessa, e così condannandola all’Ade. Un labirinto oscuro, un enigma squarcia il marciapiede della realtà. Nel viaggio verso l’ignoto, quando più vasta appare la notte, resta una fiamma, al contempo intima e oscura, che per dirsi si annienta, come una crisalide che diviene farfalla.

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