Noi, i sopravvissuti di Tash Aw

 

Tash Aw
Noi, i sopravvissuti
Einaudi, traduzione di Anna Nadotti, 290 pp., 20 euro

 

Il bello del melting pot londinese è che da Sulman Rushdie in poi (ma forse da Rudyard Kipling) ha prodotto una letteratura sfuggita quasi sempre all’intimismo, perlomeno nella sua declinazione più opprimente, e Tash Aw è l’ultimo esempio. Ha quarantanove anni, è malese, è nato a Taipei (Taiwan), i suoi  nonni sono di origini cinesi, e in Gran Bretagna è uno scrittore acclamato e premiato.  “Noi, i sopravvissuti” (We, the Survivors), è una storia ambientata fra la megalopoli Kuala Lumpur e il villaggio di Kuala Selangor, borgo di pescatori di vita e cultura medievali. E’ la vita di un giovane malese che cerca di salvarsi da un destino ineluttabile, sale e poi cade: una storia figlia del Commonwealth, cioè con ambizioni universali, del rapporto fra razze, delle diseguaglianze, della violenza della solitudine. Una storia di piccoli passi e di grandi speranze. A proposito dei  lavoratori immigrati: “Non capivano che non era la paga a distruggere lo spirito di quegli uomini e di quelle donne, bensì il lavoro, il modo in cui ne spezzava i corpi ancora prima che potessero porsi il problema del salario”. La mancanza di prospettiva che ferisce l’anima. Un po’ dei Malavoglia di Giovanni Verga, un po’ di C’era una volta in America di Sergio Leone, questo romanzo rimane chiuso nei suoi pochi chilometri quadrati ma non sa che cosa siano i confini. Soprattutto, Tash Aw sa che cosa è l’uomo  e che cosa cerca.