L'eterno ritorno delle epidemie

Chicco Testa

Credenze, negazionisti, capri espiatori: un copione che si rinnova poco nei secoli. Il libro di Siegmund Ginzberg

Winston Churchill aveva 15 anni quando scrisse una poesia, a dire il vero un tantino scolastica, contro ‘il vile, insaziabile flagello’ che veniva dall’Oriente. La poesia si intitolava ‘The Influenza’. Il flagello era l’epidemia di influenza russa che dalla Cina e ‘dalle squallide steppe della Siberia’ minacciava l’isola della Libertà. Ma non sarebbe riuscita, pensava Churchill, ad attraversare quell’esile braccio di mare. Il ‘ruscello di brina’ che difendeva l’isola. Il giovane Churchill si sbagliava. Quell’ondata di influenza virale avrebbe colpito con estrema violenza, facendo centinaia di migliaia di vittime”. Questa è una delle centinaia di citazioni letterarie che Siegmund Ginzberg rintraccia con un lavoro di scandaglio accurato attraverso la letteratura di ogni tempo a proposito di peste, epidemie, contagi, infezioni. “Racconti contagiosi” si chiama infatti il libro recente di cui è autore Ginzberg (Feltrinelli, 336 pp., 18 euro). E’ straordinaria la quantità di opere di varia natura, dai classici come Boccaccio e Manzoni fino alle bolle papali del ‘600, dagli incubi letterari di Kafka o Dostoevskij ai resoconti più o meno scientifici dei medici, degli storici e delle cronache dell’epoca. Il campo degli Achei sotto le mura di Troia è funestato da una pestilenza attribuita alla colpa di Agamennone che ha sottratto la figlia di un sacerdote per farne la sua concubina. Edipo è invece responsabile dell’epidemia che colpisce Tebe, di cui è il tiranno. La sua colpa è nota agli Dei che non perdonano. Non c’è secolo, forse decennio, e luogo del mondo dove non sia fiorita una qualche forma di descrizione storica o letteraria delle infinite epidemie che da sempre colpiscono l’umanità.

 

Il lavoro di Ginzberg è straordinario nel rintracciare ogni traccia di queste testimonianze. “La peste”, nome collettivo e impronunciabile per varie forme epidemiche, ricopre ogni sorta di sintomo, spesso descritto con la necessaria crudezza dagli scrittori dell’epoca e tiene compagnia all’umanità praticamente senza interruzioni. L’elenco degli scrittori che se ne sono occupati, qualcuno cadendone anche vittima, è sterminato. Ivi compreso H. G. Wells, che dopo averne subito le conseguenza, la bocca piena di sangue e un’invalidità permanente, pubblica “La guerra dei mondi”. Dove i potentissimi marziani vengono sconfitti grazie ai germi del comune raffreddore. Lo stesso che i conquistatori spagnoli esportano fra gli indi sudamericani facendone strage. Potrebbe sembrare quello di Ginzberg un libro erudito, un gioco per studiosi curiosi di letteratura, ma si tratta di cosa ben diversa. Perché da questo lavoro è possibile estrarre, lo fa lo stesso Ginzberg, un’antropologia dei comportamenti di fronte ai virus e alcune leggi generali, che si presentano quasi allo stesso modo nelle diverse epoche, compresa la nostra. L’unica forse rilevante differenza è che fino all’avvento della scienza moderna, nel XX secolo, “la peste” appare sempre come un castigo divino, causato da elementi che sfuggono al controllo umano. Non mancano per la verità autori, a cominciare da Tucidide nella descrizione della peste ateniese del V secolo a. C. che ne intuiscono le cause naturali, ma sono privi di elementi fattuali, non ne hanno le prove e quindi restano minoranza. Quanto fosse e sia diffusa questa credenza lo dimostra anche il fatto che in questi mesi Papa Francesco sia dovuto intervenire per sottolineare che nel caso della pandemia attuale non si tratta di “un castigo divino” (salvo poi attribuire altre colpe all’umanità, a cominciare da quelle contro l’ambiente). Ma per il resto non molte cose sono cambiate.

 

Le conseguenze delle epidemie erano e restano impressionanti e caso mai va sottolineato come esse trovino poco spazio nella storiografia tradizionale, nonostante le enormi conseguenze da esse avute in termini demografici ed economici. Ma è come se sia stato sempre all’opera un deciso lavoro di rimozione, forse per il desiderio di ricominciare come se niente fosse. Il caso più vicino è quello della “spagnola”, che ha fatto più vittime della Prima guerra mondiale, anzi ha probabilmente contribuito a deciderne gli esiti. Ma gli esempi del passato sono tantissimi. Gli accampamenti militari, privi ovviamente di ogni servizio o norma igienici, e per altro sconosciuti, erano spesso attaccati da epidemie di ogni genere, decimati e debilitati dalle infezioni. Gli assedi che duravano mesi erano altrettanti focolai sia per gli assediati che per gli assedianti. Scrive Ginzberg “I tedeschi che avevano trasferito dall’est le loro divisioni dopo avere firmato la pace con la Russia ormai sovietica non furono in grado di usarle: l’influenza le aveva messe fuori combattimento. Dovettero chiedere l’armistizio. Forse non sapevano che nelle stesse condizioni erano tre quarti degli effettivi francesi e metà di quelli britannici”. E poi avanti e indietro nei secoli per le condizioni igieniche della città – andrebbe eretto un monumento a Joseph Bazalgette, il primo costruttore di fogne nella città di Londra, poi imitato a Parigi da Haussmann – i pellegrinaggi, i mercati urbani. le cerimonie religiose, l’inizio della globalizzazione e delle navi che attraversano gli oceani, ma che portano insieme alle merci marinai infetti e germi sconosciuti. Qualche cosa i nostri antenati intuivano sulle cause delle epidemie e i distanziamenti sociali sono iniziati presto. Boccaccio si rifugia in campagna per esempio e spesso i Papi sono costretti, esattamente come ora, a sospendere le funzioni religiose. San Carlo Borromeo fa cantare e pregare i fedeli dai balconi. Il Resto del Carlino scrive il 3 ottobre 1918: “L’influenza si evita come se niente fosse. Basta evitare i ritrovi affollati (teatri, cinematografi, caffè, trattorie), astenersi dai mezzi di trasporto urbani (!) e interurbani / treni, tranvai, omnibus, vetture di piazza); star lontani dagli uffici pubblici (banche, poste e telegrafi, monti di pietà); passare le giornate all’aperto; scansare le vie strette, le scale non pulite; non fare uso del telefono, non maneggiare che oggetti battericamente puri”. Mancano mascherine e amuchina e poi ci siamo. Nel 1585 Montaigne era sindaco di Bordeaux. Di fronte alla peste che colpisce la sua città si dimette e si rifugia nel suo castello. Fortunato lui che ne possedeva uno, al contrario della stragrande maggioranza dei suoi amministrati. Romeo muore perché i frati che dovevano comunicargli che la morte di Giulietta era finta sono trattenuti in quarantena forzata. Shakespeare soffrì il lockdown dei teatri che durò un anno intero. Cechov in un suo racconto ci dice di un incubo burocratico con protagonisti autorità sanitarie e scolastiche di fronte a un’epidemia che attacca una scuola. Dopo 28 scambi di messaggi durati mesi, il dossier si chiude con un nulla di fatto. Meglio non parlarne per evitare fastidi. E poi ci sono i bias ricorrenti. I complotti, le potenze nemiche, gli untori. Compresi i negazionismi di ogni genere, presenti in ogni epoca. Compresa la ricerca dei capri espiatori, eterna consolazione dei popoli, per trovare fuori da sé e dalle proprie responsabilità la causa di tanto malessere. E compresa la rappresentazione degli ebrei, spesso raffigurati come frotte di topi, portatori di pestilenze. La peste in molti scrittori, vedi Virginia Woolf, è anche metafora di una dimensione, di uno stato dell’anima, sempre sull’orlo di un abisso. Sarà interessante fra qualche anno, forse fra qualche decennio perché in queste cose ci vuole distanza, rileggere analisi, cronache, interviste, commenti di questi lunghi mesi in attesa del vaccino e di una soluzione definitiva. Forse scopriremo ipotesi altrettanto ardite. Tanti tentativi di trovare cause strabilianti a quella che è solo una inevitabile realtà. La specie più potente mai apparsa sulla Terra, la nostra, è vulnerabile quanto e più di tante altre. Virus e batteri sono i nostri primordiali antenati e ci tengono sotto scacco da millenni. Impariamo a rispettarli.

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