Da Badinter a Ozouf, ecco le femministe eretiche francesi

Giulio Meotti

Criticano lo “stalinismo in sottoveste”, la guerra dei sessi e la maternità surrogata. Si battono per salvare i confini biologici

Già nel 1978 Annie Le Brun pubblicava “Làchez tout”, un libro-appello alla “diserzione del femminismo”. Allieva del poeta surrealista André Breton, Le Brun vi attaccava le leader del movimento col loro “matriottismo delirante” e scrittura “al femminile”. Non risparmiava nessuno, da Simone de Beauvoir a Gisèle Halimi, tacciandole di “cretinizzazione della sorellanza” e “stalinismo in sottoveste”. La diserzione è sempre stata una corrente molto forte della cultura femminista francese. Uscire dai ranghi quando si vede tradito e rovesciato l’ideale. Elisabeth Badinter, intellettuale e filosofa femminista settantenne e senza concessioni, iniziò a farlo con il suo primo volume, “L’Amour en plus”, che uscì nel 1980 e fu un successo clamoroso. Badinter vi respinse il mito dell’istinto materno come costrutto culturale. Poi “Le conflit: la femme et la mère”, in cui dissezionava il “culto della maternità”. In “Fausse route” si sarebbe invece scagliata contro quello che ha definito “femminismo da vittimismo”. E se “donna non si nasce: lo si diventa”, come diceva Simone de Beauvoir, in “XY de l’identité masculine” Badinter osava rovesciare questa tesi, dimostrando come la conquista dell’identità maschile fosse molto più difficile di quella femminile. Figlia di Marcel Bleustein-Blanchet, magnate di Publicis, terzo gruppo editoriale al mondo, e moglie di Robert Badinter, ministro della Giustizia di François Mitterrand quando la Francia abolì la pena di morte, Badinter si definisce “femminista universale” contro le derive ultra relativiste del movimento.

 

Ora, sul Journal du dimanche, firma un j’accuse contro “il pensiero binario” delle colleghe radicali. “Hanno dichiarato la guerra dei sessi e per vincere tutti i mezzi sono buoni, fino alla distruzione morale dell’avversario”. Le sfumature saltano. “Moi les hommes, je les déteste”, io gli uomini li detesto, è il titolo di un libro che in Francia genera non poche polemiche. E’ firmato da Pauline Harmange, che fa la volontaria in un’associazione contro le violenze sessuali. Intanto Alice Coffin, consigliera di Parigi (gruppo ecologista) e leader del nuovo femminismo, dichiara: “Non avere un marito mi espone a non essere violentata, a non essere uccisa, a non essere picchiata… Impedisce che anche i miei figli lo siano. Invito le donne a diventare lesbiche e a liberarsi dallo sguardo degli uomini”. Questa ondata di misandria, abbracciata dalla nuova generazione di femministe, non va giù a Badinter. “E’ il mito della purezza assoluta. Ai loro occhi, gli esseri umani sono tutti buoni o tutti cattivi. Le donne, qualunque cosa accada, sono vittime innocenti – e molto spesso lo sono, ma non sempre – di uomini predatori e potenziali aggressori. C’è solo da concludere con il separatismo, poiché l’uomo è la minaccia più pericolosa per la donna”. Evocare la violenza femminile è proibito. “E’ sempre la stessa risposta: se c’è violenza da parte delle donne, è per difendersi da quella degli uomini. La violenza fisica non è scritta nel genoma delle donne. Se la violenza femminile può essere solo una reazione alla violenza maschile e se la voce delle donne è sacra, possiamo bypassare il filtro della giustizia”. E così, “il linciaggio e la gogna dei media si applicano immediatamente. Gli accusatori, sostenuti sui social alla velocità di un click, scatenano un vortice soprattutto quando un personaggio pubblico viene preso di mira e la stampa lo coglie. E’ un omicidio sociale, professionale e talvolta familiare. Non ti guardiamo più allo stesso modo, sei diventato sospetto e ogni tentativo di spiegazione e difesa si rivela vano”. Questi nuovi attivisti radicali, conclude Badinter, ci conducono “in un mondo totalitario” e il “neofemminismo bellicoso disonora il femminismo”.

 

Badinter fa parte di un nutrito gruppo di femministe francesi ormai “eretiche” al mainstream. La Francia è l’unico grande paese occidentale che vanti una prestigiosa compagine di studiose, intellettuali, scrittrici, giornaliste e accademiche che, partendo da posizioni classiche, criticano le correnti identitarie. Rifiutano il nuovo moralismo risultato di un incrocio tra il puritanesimo americano e il femminismo scandinavo. E con esso l’idea che i rapporti tra i sessi siano ancora scritti con l’inchiostro del dominio maschile e che sia arrivato il momento di “decolonizzare le donne”. Si ribellano a una egemonia che costringe tutti a sottomettersi con un ostentato gesto di adesione e che arriva persino ad assoggettare la cultura alle ossessioni, riscrivendo il destino riservato alla Carmen. La maternità surrogata? Per molte di loro è una “schiavitù etica” che sfrutta la donna in nome di nuovi diritti. Nella globalizzazione del politicamente corretto, questa resistenza femminile francese appare quanto mai come una necessità vitale. Solo loro hanno la cultura, le credenziali e il coraggio per opporsi all’indignazione dilagante in nome della parità.

 

Ha fatto il giro del mondo, due anni fa, l’appello pubblicato sul Monde da Catherine Deneuve sul clima di censura creato dal MeToo e “un puritanesimo che prende in prestito, in nome di un preteso bene generale, l’argomento della protezione delle donne e della loro emancipazione per incatenarle meglio a uno statuto di vittime eterne, di povere piccole cose in balia di demoni fallocratici”. Ex compagna del filosofo decostruzionista Jacques Derrida con cui ebbe un figlio, già allieva di Deleuze alla Sorbona e moglie dell’ex primo ministro socialista Lionel Jospin, Sylviane Agacinski è orgogliosa di avere reso la parité rispettabile con il libro “Politique des Sexes” e la modifica in senso ugualitario della Costituzione. Ma da anni, la filosofa e psicoanalista spiazza il dibattito creando dissenso, dichiarandosi a favore delle nozze gay ma contro l’adozione dei figli da parte delle coppie omosessuali, la teoria gender e pratiche come la maternità surrogata. Fu lei, nel 1999, ad attaccare sul Monde la femminista americana Judith Butler, che da Berkeley ha esportato il gender in tutto il mondo. Sempre lei, qualche giorno fa, ha fatto causa al Servizio audiovisivo pubblico perché “promuove la maternità surrogata” (vietata ancora in Francia).

 

E’ la denuncia che un collettivo di femministe ha sporto contro la società France Télévisions. Il Collettivo per il rispetto della persona – che annovera tra i suoi fondatori e membri proprio Agacinski – denuncia “una linea editoriale favorevole alla pratica della maternità surrogata”. “E’ ora di andare in tribunale in modo che possa pronunciarsi su questa propaganda condotta con il denaro dei contribuenti su una pratica che combina la violenza contro le donne e che riguarda la vendita di bambini”, ha detto Ana-Luana Stoicea-Deram, femminista e presidente del CoRP. Ad animare il collettivo un’altra celebre femminista, Eliette Abécassis, che nel libro “Bébés à vendre” perora l’abolizione dell’utero in affitto: “La posta in gioco è un cambiamento di civiltà e semplicemente la fine dell’umanità come la conosciamo”.

 

E’ critica del nuovo femminismo anche la psicoanalista biografa di Jacques Lacan, Elisabeth Roudinesco, che in una intervista a Les Echos dichiara: “Il femminismo si sta evolvendo in una direzione antiprogressista che mi disturba. Questo femminismo di denuncia condanna gli uomini. Non mi piace lo slogan ‘Balance ton porc’, che è molto volgare e usa l’animalità come un insulto, che è generalmente prerogativa dei misogini. Inoltre, sono ostile alla femminilizzazione sistematica dei nomi. Non parliamo nemmeno di scrittura inclusiva che è semplicemente sciocca. Oggi il femminismo è usato in modo inquisitorio. Attenti al maccartismo”. A forza di separare il sesso dal genere, si è “arrivati ​​a sostenere la completa dissoluzione dei confini”. Roudinesco fa l’esempio dello stato di New York, in cui i genitori hanno ottenuto la cancellazione del sesso dei figli dai registri civili, sostenendo che un giorno i bambini sarebbero stati liberi di scegliere il proprio. “Che libertà è questa?”, chiede la studiosa. “Perché un movimento di emancipazione democratica ha saputo trasformarsi nel suo opposto fino a dar luogo a tanto delirio?”.

 

E’ ancora più diretta Josyane Savigneau, a lungo direttrice delle pagine letterarie del Monde e autrice di una famosa biografia di Marguerite Yourcenar. “Far parte di una specie protetta difficilmente mi soddisfa”, ha detto Savigneau delle donne. “Molte femministe sono diventate insopportabili arpie puritane”. A Catherine Millet, che scioccò il pubblico con “La vita sessuale di Catherine M.”, racconto autobiografico in cui parlava di sesso senza tabù, non piace un femminismo che dichiara guerra all’uomo. Nel 2003, dalle colonne del Monde, Millet scrisse di rifiutare l’idea delle donne come “esseri smarriti la cui parola vale così poco che dovrebbe passare sotto la tutela di un femminismo retrogrado”. E in una intervista alla Reveue des deux mondes, questa estate, Millet ha detto: “Tra le generazioni più giovani, constato che ci sono sempre meno ‘donne sottomesse’. Ci sono invece sempre più ‘uomini sottomessi’. Il che non è proprio un progresso”.

 

Sempre su questo fronte, Laetitia Strauch-Bonart ha scritto un saggio per Fayard, “Les hommes sont-ils obsolètes?”. Uomini in sovrannumero, inutili, obsoleti. Il loro processo di smantellamento, che Strauch-Bonart descrive come una “catastrofe silenziosa”, si svolge sullo sfondo della lotta femminista contro “l’oppressione virile”. E immagina una distopia: “Francia, 2039. Separazioni e divorzi hanno continuato a crescere, tanto che molti padiglioni ora ospitano uomini single e disoccupati. Le loro mogli hanno lasciato la periferia portando con sé i loro bambini. I loro ex compagni, al lavoro, sono stati sostituiti dalle macchine, in fabbriche ultramoderne e attrezzate. Anche gli idraulici e i giardinieri sono minacciati dalla crescente concorrenza dei robot. Le donne prosperano nelle agenzie di comunicazione o nei servizi alla persona, e il loro stipendio è salito alle stelle. E avranno figli, sia da sole che a coppie. L’Istituto nazionale di riproduzione offre loro l’opportunità di utilizzare la Banca nazionale degli spermatozoi, a cui ogni uomo di diciotto anni è richiesto di effettuare una donazione obbligatoria. In questo contesto tempestoso, il nostro assetto sociale durerà? In superficie, la nostra società è prospera e armoniosa; nelle sue profondità, è infelice per questo squilibrio tra i sessi. E’ un po’ come se gli uomini fossero diventati obsoleti”.

 

Filosofa e direttrice del centro ricerche in scienze politiche all’Università Paris 3 Sorbonne, Renée Fregosi in un saggio ha spiegato che molte femministe che militarono come lei dagli inizi del movimento nel 1971 e che ancora rivendicano questo impegno, non si identificano con il femminismo di oggi. Un “femminismo vittimistico, puritano e sessista”, una “corrente punitiva” che “rinuncia alla parità di diritti a favore del diritto di essere diversi”. E’ una “nuova forma di infantilizzazione delle donne che sarebbero a priori preda degli uomini, nelle strade, al lavoro e nello spazio domestico”. Quando la scrittrice inglese J. K. Rowling a giugno ha attaccato il movimento transgender che cancella l’identità femminile, attirandosi l’accusa di essere una “femminazi”, la truppa più nutrita di femministe in sua difesa è accorsa dalla Francia. “Noi femministe sosteniamo J. K. Rowling contro il linciaggio degli attivisti trans”, recita un appello pubblicato sul Figaro. “Alcuni movimenti femministi spiegano che una donna è una persona che si definisce donna. Dire di una categoria della popolazione che include chiunque pretenda di farne parte, è come dire che quella categoria non esiste”.

 

C’è chi, come Bérénice Levet, studiosa di Hannah Arendt, chiede “libérons-nous du féminisme!” e critica una ideologia che criminalizza ormai il desiderio maschile. Molte reclamano la difesa dell’antica galanteria, come la studiosa del XVIII secolo e autrice della “Galanterie française” (Gallimard), Claude Habib. “Niente è più inquietante di una folla decisa a fare giustizia”, ha scritto Habib, che non accetta il continuo lamento sulla condizione di sottomissione della donna nelle nostre democrazie: “La condizione delle donne occidentali è tutt’altro che senza speranza. E’ chiaramente migliore che in altre parti del mondo e migliore di quanto non sia mai stata”. Si va poi da Marcela Iacub, specialista in filosofia del diritto e autrice di controrequisitorie del moralismo femminista, come “Une société de violeurs?” sul caso Dominique Strauss-Khan e contro “un femminismo punitivo che vorrebbe ampliare le definizioni di stupro includendo atti consensuali e indebolire le garanzie dell’imputato”, alla regista Catherine Breillat, che ha sferzato non poco MeToo e Balance Ton Porc. “Ogni epoca ha la propria moda ideologica, nella nostra è la sensibilità personale ferita, pratica l’eccessiva confusione del pubblico e del privato, della morale e della legge”, scrive sul Monde la femminista Belinda Cannone, che blasta “gli atteggiamenti compassionevoli, emotivi e virtuosi che caratterizzano la malattia infantile del neofemminismo”.

 

C’è Mona Ozouf, la grande storica della Rivoluzione, ostile all’indifferenziazione perché metterebbe fine non solo all’arte di vivere, ma alla letteratura. “Trovo ripugnante che si inveisca contro il femminismo moderato”. E ancora: “Sono contraria alle femministe fondamentaliste, che rifiutano il biologico in nome del tutto culturale e tutto politico”. E non è un caso che anche le grandi manifestazioni sui temi eticamente sensibili abbiano visto in questi anni alla testa delle donne. Come Ludovine de La Rochère e Frigide Barjot, a capo della Manif pour tous. La Francia è anche l’unico paese dove si pubblicano miscellanee di saggi critici del femminismo radicale, come “Le Nouveau Féminisme: Combats et rêves de l’ère post-Weinstein” (Odile Jacob). Questo femminismo francese anti identitario si fa strada anche nel mondo del giornalismo, con Natacha Polony alla guida del settimanale Marianne ed Elisabeth Lévy del mensile Causeur. Quest’ultima ha dedicato un intero numero della rivista al “terrore femminista”, un movimento fatto di “Amazzoni che vedono realizzarsi il loro sogno di un mondo senza padri, anzi senza uomini, ridotti a fornitori di materiale genetico”. Un femminismo “vendicativo e vittimistico, lamentoso e punitivo, mainstream nei media e nella classe politica che ne ha adottato codici e tic, come l’uso dello stupido termine ‘femminicidio’”. Un femminismo contro i mulini a vento di un patriarcato morente, in una guerra condotta da leghe femminili della virtù che hanno messo in moto meccanismi accusatori e un fango digitale che sta portando alla morte sociale di tanti accusati e critici, uova rotte per fare la frittata del Progrès, questa tabula rasa.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.