Philippe Daverio (foto LaPresse)

Addio a Philippe Daverio. “Riusciva a portare l'arte a tutti", ci dice Vittorio Sgarbi

Luca Roberto

L'esperienza come assessore nella giunta leghista a Milano, l'opposizione alla critica d'arte militante alla Bonito Oliva-Celant. Il critico ci racconta l'amico di una vita, scomparso nella notte

"Ieri mi avevano anticipato che era in condizioni fisiche compromesse, e allora subito mi sono andato a rivedere un po' di sue opere". Vittorio Sgarbi ha la voce incrinata di chi ha appena ricevuto la notizia: Philippe Daverio, storico dell'arte e volto televisivo, è morto nella notte a 70 anni all'Istituto dei Tumori di Milano. "Lo conoscevo da più di 40 anni, da quando era partito a Milano come mercante d'arte, in un momento in cui l'arte contemporanea si dibatteva tra ideologia e cupidigia. Lui è stato in grado di inserirsi in quel mondo con le sue caratteristiche naturali, un passo leggero e originale, che lo facevano interprete e lo avrebbero reso celebre prima tra le persone che si occupano d'arte e poi per il grande pubblico". 

 

(Philippe Daverio con Giuliano Ferrara a Civitanova Marche)

 

Sgarbi racconta come Daverio avesse un'ambizione: quella di essere alla portata di chiunque. "Amava l'arte e voleva raccontarla di modo che tutti se ne potessero innamorare. Se negli anni 90 cercavi di leggere Achille Bonito Oliva o Germano Celant, della cosiddetta critica militante, non capivi niente. Se invece leggevi i suoi testi o i miei ci riuscivi con facilità, erano chiari, esplicativi. Eravamo gli esponenti di una storia dell'arte popolare e sempre in difesa dei valori stabili. Ed è il motivo per cui poi è riuscito a maneggiare con maestria il mezzo televisivo diventando più uno storico dell'arte che un critico a tutto tondo, con una ricostruzione molto particolare dell'arte italiana, non solo ottocentesca e novecentesca ma anche con affondi nel passato. E' stata la perfetta conclusione di un secolo che si era aperto con Adolfo Venturi". 

 

 

L'opposizione a un modello predominante la si ebbe anche quando, all'interno della giunta Formentini a Milano, divenne assessore alla Cultura. Come osava prestare il fianco al destino anticulturale della Lega? – gli facevano notare. "Ma lui era diverso, fece una scelta coraggiosa. Se Celant era una divisa nera, lui era un personaggio alla Hitchcock. Girava con questi panciotti policromi e questi abiti a farfalla, molto più pittoresco di me. Aveva un solo obiettivo: che l'arte fosse comprensibile e in questo è stato uno dei migliori". 

 

Sgarbi tratteggia il suo percorso e quello di Daverio come "due vite parallele, due fratelli. In me vedeva una persona libera senza i pregiudizi che hanno caratterizzato i nove decimi della critica d'arte del nostro tempo. Non abbiamo mai scritto libri insieme ma è come se avessimo raccontato l'arte a 4 mani per decenni. Nemmeno un litigio, se non nella conquista della città di Ferrara, dove volevo coinvolgerlo ma lui durante le elezioni che hanno visto la Lega vincere dopo 74 anni di amministrazione di sinistra si candidò con la Bonino". 

 

 

Eppure 40 anni di frequentazione l'avranno esposta a qualche momento particolarmente tenebroso. "Abbiamo avuto centinaia di occasioni di dibattito, e lui aveva sempre queste uscite amene. Il momento in cui sembrò perdere questa sua bonomia fu quando lo nominai bibliotecario di Salemi nel 2008. Lì fece la cosa più antagonista della sua vita: si ribellò al popolo siciliano durante i festeggiamenti di Santa Rosalia. Capitò qualcosa e lui fu insultato dalla gente. Da quel momento concepì una prepotente antipatia per la Sicilia, che ha caratterizzato i suoi ultimi anni. Dopo aver lavorato come docente a Palermo e in rapporto con le istituzioni, smise di venire nell'isola. Il conflitto con i siciliani e la loro predisposizione al nichilismo fu il momento più drammatico e singolare della sua vita. E in quello c'è un volto nuovo: una dimensione diversa da quella conviviale, ironica, divertita, che si affaccia nella sua mente". 

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