Peter Bruegel il Vecchio, Trionfo della Morte

E se per una volta provassimo a interpretare in modo realistico l'apocalisse?

Sergio Belardinelli

Il destino del mondo e le letture fin troppo gnostiche

La parola apocalisse evoca in genere i famosi quattro angeli dell’omonimo libro di Giovanni, quindi significati oscuri e inquietanti, scenari che stravolgono il normale ordine delle cose: rivoluzioni, guerre, catastrofi naturali, pandemie, flagelli d’ogni tipo. Eppure, proprio l’Apocalisse di Giovanni vorrebbe essere soprattutto un libro di “rivelazione”, un libro di luce e di speranza, non di oscurità e di paura. Una luce tanto chiara che Giovanni può concludere il suo celebre libro profetico con una dichiarazione a dir poco perentoria: “A chi vi aggiungerà qualche cosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro”. Attenzione alle nostre parole dunque.

 

Dalla Bibbia sappiamo che la letteratura apocalittica nasce in tempi di crisi. Di fronte a un impero, quello romano, decisamente troppo potente per le forze d’Israele, non resta che confidare in un cambiamento cosmico, proveniente da Dio, che possa sconfiggere la famosa “Bestia dell’abisso”. L’Impero romano, reclamando per sé ciò che può essere soltanto di Dio, diventa per ciò stesso, agli occhi di Israele, la personificazione per eccellenza dell’anticristo. Ma la buona teologia ci dice anche qualcos’altro: sono i fondamentalisti a pensare che l’apocalisse esprima “l’ira violenta di Dio” e magari una chiamata alle armi in vista della battaglia definitiva; in realtà, l’apocalisse ci racconta soprattutto il sacrificio di Cristo, la vittima innocente, che salva gli uomini di tutti i tempi, smascherando una volta per tutte la violenza di tutti i poteri secolari, anche di quelli religiosi. Come dice il Vangelo di Marco, all’udire della nascita di Gesù, il re Erode “restò turbato”, quasi a presagire, giustamente, qualcosa di pericoloso per il suo potere e per tutti i poteri, qualcosa come una “potenza” disarmata, impossibile da sottomettere per chiunque, poiché rispondente a una logica che non è di questo mondo. “La violenza è contraria alla natura di Dio”, ha detto Benedetto XVI nel suo grande discorso di Regensburg. La spada di Dio non sta al servizio di nessun potere, meno che mai può essere utilizzata per accelerare il compimento della storia. Quest’ultimo infatti è già stato realizzato da Gesù Cristo nel modo “folle” che conosciamo: la sua crocifissione sul Golgota.

 

Svelando il senso della storia della salvezza, l’apocalisse si configura come una speranza possibile in ogni momento della storia, non come un criterio per misurare quanto una certa epoca sia vicina o lontana dal suddetto “compimento”. Non siamo di fronte all’annuncio di una catastrofe imminente; siamo piuttosto di fronte all’annuncio di una promessa: l’avvento della “Gerusalemme celeste” che si annuncia come certezza in mezzo al dolore e al sangue della storia; l’amore e la misericordia di Cristo come unica risposta a tutte le minacce, vere o presunte, del tempo nel quale ognuno di noi si trova a vivere. E’ questo il criterio alla luce del quale occorre saper leggere i cosiddetti “segni dei tempi”. Si tratta in fondo di guardare il proprio tempo con gli occhi di Gesù, di affidarsi alla semplicità della sua persona, non a un sapere da “iniziati”, accessibile soltanto a pochi privilegiati. In questo senso l’apocalisse va depurata di ogni possibile interpretazione gnostica e indirizzata invece verso un’interpretazione realistica capace di dare alle cose il loro giusto senso. Mi spiego.

 

Il mondo che abitiamo è indubbiamente attraversato da enormi pericoli. La violenza, l’ingiustizia, la fame, le pandemie e tanto altro ancora sono indubbiamente segni “apocalittici” del nostro tempo. Eppure realismo vuole che, anche di fronte a questi “segni”, non si perda la speranza. Realismo vuole che, proprio quando i fatti storici hanno dimensioni apocalittiche, occorre restare saldamente ancorati, diciamo così, a una “teologia dell’alleanza” tra Dio e l’uomo. Se le cose vanno tanto male, è certo per colpa di questo o di quello, ma anche perché tutti abbiamo in qualche modo contribuito a rompere l’alleanza con Dio. Riconciliamoci con lui, riscopriamo il suo amore, e anche il mondo diverrà migliore. Ecco un esempio di che cosa significhi un uso realistico dell’apocalisse. I cristiani debbono, sì, denunciare e contrastare le possibili catastrofi del tempo in cui vivono, ma debbono farlo, forti soprattutto della fede che il cosiddetto “mondo” è stato già vinto da Gesù e che in ultimo le porte degli inferi non prevarranno. Nonostante tutto, nonostante i tanti disastri della storia, è comunque con la storia, con la concreta realtà, che la fede cristiana è sempre chiamata a fare i conti, forte della convinzione che, quand’anche cascasse il mondo, ci sarà sempre la possibilità di fare il bene. Quello possibile, ovviamente, non quello che vorrebbe eliminare il male dal mondo.

 

Totalmente diverso è invece l’uso gnostico degli elementi apocalittici che viene fatto, ad esempio, sul fronte fondamentalista, dove, mescolando in modo esplosivo disperazione, eccitazione e risentimento, si vorrebbe trasformare il mondo intero in una enorme valle di Ermaghedon dove le forze del bene lottano contro quelle del male: un bene e un male “metafisici”, “astratti”, che hanno perduto qualsiasi riferimento alla realtà.

 

Lo gnosticismo ha sempre guardato con sospetto il senso comune, ossia il mondo che si vede, quello che sta sotto gli occhi di tutti; alla verità del senso comune ha sempre contrapposto qualcosa di arcano, visibile a pochi eletti, capaci di guardare dall’alto della loro “perfezione”, i sub-umani (gli “Untermenschen”) che continuano ad abitare il mondo del senso comune, il mondo delle “sicurezze” borghesi o quello della fede dei semplici.

 

Orbene, a me pare che ci sia in tutto ciò un inconfondibile odore di zolfo. Del resto il diavolo è “gnostico” fin dalla sua prima apparizione. Fin dall’inizio egli usa una presunta intenzione latente (Dio non vuole che diventiate come Lui), per distruggere quello che sembrava l’ordine manifesto (non si deve mangiare di quell’albero). E da allora l’effetto “divisivo” delle sue apparizioni è più o meno sempre lo stesso: spingerci, da un lato, a ritirarci in noi stessi, nella nostra solitudine, nell’anomia della prima persona e, dall’altro, a sospendere l’idea di un ordine e di una conoscenza oggettiva delle cose, senza la quale gli “illuminati” difficilmente avrebbero buon gioco con i loro deliri sulla realtà “nuova” e sugli uomini “nuovi”, preparati magari grazie alle tecnologie della vita e alla biopolitica. La realtà, lo sappiamo, è spesso tragica; il male, la violenza e l’ingiustizia la fanno il più delle volte da padroni; i lupi amano mascherarsi da agnelli; e alla fine ci aspetta la morte. Eppure Gesù ci promette che la morte non avrà l’ultima parola; ci esorta a lavorare come “servi inutili”, a fare tutto il bene possibile, senza pretendere che il destino del mondo dipenda da noi. E’ lui che ha vinto il mondo. Ed è precisamente questo che ci rivela l’Apocalisse.

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