Via con Tegamini, e un fiume di parole

Simonetta Sciandivasci

Content creator, blogger, influencer. Francesca Crescentini ci racconta quant'è bello chiacchierare di tutto su Instagram, cosa si può fare con le parole, quanto sono amabili e numerosi i lettori, quanto sono letterarie le cose

Una come lei, la porti al cinema d’estate e dorme sul finale; se chiude gli occhi, vede il mare senza andar lontano; ha un gatto sopra il letto e un uomo nudo ad aspettare. A Francesca Crescentini “Una come te” di Cesare Cremonini calza a pennello, specie per l’andare lontano, ovunque voglia, in un qualsiasi posto che non importa se esiste o no, restando dov’è. Chi è suo fan, seguace, lettore, ascoltatore lo sa: Crescentini, che tutti conoscono come Tegamini, legge e, quando ha finito, legge ancora. Le danno della bookblogger o bookinfluencer, e però sono paroline che le calzano un po’ meno. A voler essere precisi, Tegamini è una traduttrice e una content creator: “Per non farti ridere dietro da grandi e piccini e qualificarti con una certa precisione, se lavori sui social inventando cose che la gente può leggere e guardare, pare vada bene la locuzione content creator. Didascalico ma neutro, senza autocelebrazioni pretenziose, pulito, schietto, funzionale”.

 

Di certo chi la segue sui social, in particolare su Instagram, lo fa per ascoltarla raccontare libri. Perché Tegamini ne parla come fossero fatti suoi, amici e nemici suoi, coinquilini, compagni, bicchieri, appuntamenti, parrucchieri, massaggiatori; li racconta tra un caffè e un rimprovero al gatto, tra lo shopping su Zalando e il trasloco, tra il marito che cucina e un follower che le chiede di presentarsi al compleanno della sua ragazza per farla contenta (“ti segue sempre”), mentre cammina verso il ristorante o verso la partita di tennis.

 



 

Tegamini la si ascolterebbe su qualsiasi cosa, come poi è, come poi fa: parla di tutto e lo rende un racconto epico, mozzafiato, esilarante; non c’è momento della giornata che lei non sappia trasformare in una piccola saga. La ragione è una, semplice: parla uno splendido italiano, aulico e pop, solenne e giocherellone, vintage e fantasy. La sua avventura è il bel parlare, il piacere che si prova ascoltandola è il piacere della bella lingua – ricordate quello che disse Baricco del Gattopardo, che è un romanzo che ti fa pensare prima di tutto e per tutto il tempo a che incredibile lingua è l’italiano? Ecco, il successo di Tegamini è merito della bellezza dell’italiano, e della maestria che ha lei nel saperla mostrare.

 

Le domando se si esercita, se ha pagato un maestro di retorica, se è vissuta nell’Atene del V secolo, insomma come diavolo faccia, e mi risponde nel solo modo possibile: “Io parlo così da sempre. Sono troppo pigra anche solo per pensare di costruire un personaggio, o di elaborare un linguaggio preciso che lo faccia funzionare. Parlo con i miei amici e con la mia famiglia esattamente come parlo alla mia community, e ogni tanto qualcuno mi dice che mi ascolterebbe dire qualsiasi cosa, e io sono felice, mi sento sempre una specie di Gassman che legge il menù. Una volta ho letto in diretta Instagram le etichette dello shampoo, ci siamo divertiti tutti molto”.

 

Tu non segui nessuna delle regolette “per funzionare su un social network”, ed è come se fossi nata per starci sopra, quando il figlio dei Ferragnez sarà adulto vedremo se avrà la tua stessa destrezza (temo di no), ma intanto: come fai a sapere cosa e quanto funziona, di quello che fai e proponi al tuo pubblico?

 

“Basta vedere la tenuta delle visualizzazioni delle stories, e quanta parte della mia community le segue. In media, un terzo dei miei follower le guarda, e tutte. Il grosso del traffico si fa lì, si vede lì, però ci sono anche le interazioni private, che vedo soltanto io, e che sono una mole incomparabile ma molto interessante. Lì avviene lo scambio vero, mi rendo conto di chi sono le persone che mi ascoltano”. 

 

Chi sono?

“Mi capita che mi chiedano una mano per compilare bibliografie di tesi in letterature comparate, ma pure dove si comprino i libri”.

Signora mia!

 

“Non ci rendiamo conto mai abbastanza di quanto là fuori siano numerosi e diversi i livelli di comprensione della realtà, e di come sia questo, prima di tutto, a rendere il mondo così vasto e vario, e a rendere necessaria un’attenzione particolare a quello che si dice, di modo che chi ci ascolta calibri anche le sue pretese”.

 

Tu dici che influencer è una parola che non si può che usare in senso autodenigratorio ma è pure vero che Chiara Ferragni e Fedez sono stati massacrati per non essersi espressi sulla morte di George Floyd.

 

“E’ un bel paradosso. Da una parte ci si immagina che l’infuencer sia uno smidollato nullafacente con nulla da dire e nulla da fare se non fatturare mettendosi addosso abiti costosi, dall’altra si pretende che sia un opinion maker. Ma capita, è sempre capitato: chiunque è visibile viene attaccato per quello che fa o non fa, che dice o non dice, che pensa o non pensa. È uno dei molti modi per delegare, ignorare la responsabilità personale, affibbiare agli altri gli oneri morali ed etici o semplicemente civici, che invece sono personali”.

 

Ti senti mai obbligata a prendere una posizione?

 

“No. Però sento il dovere di pensare e ripensare a quello che dico perché ad ascoltarmi sono in tanti, naturalmente, ma anche perché è un fatto ovvio, di buona educazione: non si può dire sempre tutto, quando ci va e come ci va, e questo vale tanto online quanto offline. Mi interrogo su cosa dire e come farlo per senso di responsabilità, e l’effetto non è mai artificioso: mi sembra una pratica di rispetto più che necessaria. Io sono fortunata, ho un pubblico molto affettuoso, poco polemico, per niente aggressivo, quindi ho una grande libertà, parlo soltanto delle cose che ho a cuore e mi interessano, sono a mio agio a presentarmi in vestaglia, e mi rendo conto che è proprio questo che piace, e forse determina una specie di selezione all’ingresso. È chiaro che chi cerca un profilo patinato non sta nella mia community”.

 

Si può anche dire che il tuo pubblico è così garbato perché è fatto soprattutto di lettori? Ci terrei, sai, visto che da quando sono nata sento dire che i lettori sono in estinzione, e a me pare una sciocchezza, e penso pure che l’editoria stia meglio di quello che si pensa e di quello che dice chi ci lavora dentro.

 

“E’ vero, molte delle persone che mi seguono sono lettori, ed è bizzarro perché non ho un profilo verticale. Anzi. All’inizio volevo semplicemente chiacchierare e scrivere il mio blog, mi piaceva l’idea d’essere io stessa il contenuto narrativo. Poi, le cose si sono evolute in modo tale da rendere il mio un profilo di lifestyle, e nonostante questo l’interesse principale che ho sempre intercettato da parte della mia community era quello letterario. E così mi sono detta che di libri dovevo parlare, e tanto”.

 

E mai una polemica che sia una.

 

“Detesto le invettive. Nella maggior parte dei casi, chi le fa intende semplicemente incensarsi”.

 

Prima di mettersi in proprio, Tegamini ha lavorato molti anni per Einaudi, al marketing, poi s’è licenziata (aveva un indeterminato, ragazza pazza dell’85 – so che non si dice l’età delle signore, ma qui c’è un dato generazionale da sbugiardare, ché mica è vero che i millennial sbavano tutti per il posto fisso). Poi ha lavorato come copy in un’agenzia e ha cominciato a fare la traduttrice, e quando s’è resa conto che poteva contare su un corposo pacchetto di clienti, ha “fatto due conti, anche con Amore del cuore” (ADC, che sarebbe suo marito) e ha deciso di starsene a casa e fare la freelance. E non tornerebbe indietro.

 

“A me lavorare a casa piace enormemente. Mi si addice. So che non fa per tutti, ma so pure che le aziende italiane non sono capaci di rendere lo smartworking fruttuoso come invece potrebbe essere, perché nella maggior parte dei casi il capo pensa che se un dipendente è a casa, lavora di meno e quindi va tartassato di compiti, telefonate, riunioni del tutto inutili. Sono tutti modi di braccarlo, controllarlo. Lavorare a casa non è più o meno oneroso del lavorare in ufficio e, se fatto bene, nelle migliori condizioni, di certo aiuterebbe a rendere la produzione più flessibile. Durante la quarantena, se anche mio marito era in casa, doveva lavorare nelle classiche ore d’ufficio, e questo ha reso più complicato dividerci i compiti nella maniera più funzionale ed equa possibile”.

(Voce fuori campo: Caro governo, capisci? Le coppie capaci di dividere gli oneri domestici ci sono, vediamo di metterle in condizione di farlo)

 

Pensi mai che tutto questo ti annoierà?

 

“Eccome. E, prima ancora, penso al fatto che tra pochi anni potrebbe non esserci più”.

 

E a quel punto che farai?

 

“Quello che già faccio. Tradurrò libri”.

 

Ti hanno chiesto di scriverne?

 

“Moltissime volte. Ma ho sempre rifiutato perché mi proponevano di trasformare quello che faccio su Instagram o quello che c’è sul mio blog in un romanzo e io non trovo una ragione per farlo. Quello che sta online ha la sua forma e il suo perché online. Mi piacerebbe, invece, scrivere altro, ma non so se troverò mai il tempo, lo spazio mentale per dedicarmici”.

 

Io leggerei volentieri un tuo libro sulle cose. Guardo con medesima passione le tue stories sugli yogurt, su Jane Austen e su certi orecchini che ti hanno appena spedito.

 

“Ah, come mi piacciono le cose! Gli oggetti sono la mia grande passione. Anche i libri sono oggetti, mi capita di comprarne molti che so che non leggerò, per il semplice fatto che sono belli”.

 

Che succede quando consigli dei libri?

 

“Che qualcuno va a comprarli. Me ne accorgo dalla classifica di Amazon, che ha i suoi limiti come tutte le classifiche – l’editoria è governata dal mistero, ogni libro è un salto nel buio – ma ha un vantaggio: si sposta anche per poche decine di copie vendute, quindi è parecchio fotografica”.

 

E allora lo vedi che sei un’influencer.

 

“Forse. Ma c’è un altro dato. Io non parlo mai di libri appena usciti, mi capita spesso di tirar fuori vecchi romanzi, a volte anche difficili da trovare, e questo mi dimostra che l’interesse delle persone per i libri si può anche accendere in maniera del tutto indipendente dall’hype, dal clamore”.

 

Per quelli, in effetti, ci sono gli inserti culturali dei giornali, che però di copie non ne spostano molte.

 

“Per fortuna ci sono i libri degli youtuber, che cubano così tanto da permettere alle case editrici di guadagnare abbastanza per finanziare anche progetti più letterari”.

 

Lo so che vorresti dire “nobili”, ma ti trattieni.

 

“Ma no! Per me questo è un mercato, e i libri sono prodotti. Alcuni raffinati, letterari, narrativi, altri semplici passatempi, perfino giocattoli. Lo trovo inevitabile e, di più, giusto”.

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