“Amanti orientali” di August Macke

Gli Indiana Jones dell'oriente

Francesco Palmieri

Da Francesco Cimmino a Giovanni Vacca, fino all’emblema inarrivabile di Giuseppe Tucci. L’ansia di ricerca che fiorì un tempo in Italia, nel secolo magico degli studiosi dello spirito e del levante

Che vite meravigliose quelle degli orientalisti italiani, nell’arco di un secolo magico e che non fu breve. Cominciò almeno un paio di decenni prima del 900 e lo percorse, benché più flebilmente verso la fine, quasi tutto quanto. Che vite straordinarie di studiosi appassionati e a volte folli, cui non bastò consumarsi gli occhi su dizionari di idiomi sconosciuti, ma che si consumarono le scarpe per misurare remoti territori o per calcare eterogenei campi artistici.

 

Talenti dispari e poliedrici, che nell’innominabile attuale – come lo chiama Roberto Calasso – si sono estinti mentre la parcellizzazione delle conoscenze e il totem della mediazione culturale diventavano la regola nelle accademie.

  

Chi oggi potrebbe immaginare un professore di sanscrito dell’Università di Napoli che sia al contempo paroliere dei successi di Sanremo? E che esibisca in acclamate conferenze anche una minuziosa conoscenza di Torquato Tasso? Eppure Francesco Cimmino esistette. E nel 1905, mentre pubblicava due studi di teatro indiano (sui drammi Karpuramangari e Candakauçika), consegnava le parole della romanza Io son l’amore!: canzone notturna a Francesco Paolo Tosti, musicista di fama internazionale cui sovente prestò le rime. Nell’ottobre 1914 Cimmino succedette all’illustre indologo Michele Kerbaker nell’insegnamento del sanscrito, che esercitò fino al 1935. Dedicò gli ultimi anni di vita a tradurre le divine avventure di Rama, gli Uttararamcarita, opera pubblicata postuma solo nel 1983 e di cui non esisteva prima una versione italiana. Straniante, nella bibliografia del professore ricostruita da un nipote, è l’alternanza degli studi scientifici a titoli come Non canto per voi!, musica di Nicola Valente, o L’ultima canzone ancora per Tosti.

 


Chi oggi potrebbe immaginare un docente di Sanscrito dell’Università di Napoli che sia al contempo paroliere dei successi di Sanremo? La leggenda di follia aleggiante sui sinologi italiani del passato, emozionati più da Confucio e Laozi che dai dazi e dal pil


  

Cervelli dispari, sì, quanti ne contò l’orientalismo italiano in quel centinaio d’anni la cui coda, per sorte anagrafica, abbiamo fatto in tempo a intravedere ma che non s’impigliò nella porta del Novecento mentre si chiudeva.

 

Chi oggi potrebbe immaginare un sinologo al contempo matematico ed eccellente in utroque? Eppure Giovanni Vacca esistette (ed è stato padre del noto scienziato Roberto). Il futuro decano dei sinologi italiani, Lionello Lanciotti, ne fu allievo a Roma assieme a un’altra mantenuta promessa di questa disciplina, Giuliano Bertuccioli, all’epoca in cui solo sparuti stravaganti studiavano il cinese: “Una diceria accademica – avrebbe ricordato Lanciotti qualche anno fa – era che un docente di cinese ha solo due allievi, uno dei quali gli succederà nella cattedra, mentre il secondo commetterà il suicidio”. Così non accadde, forse perché la follia bussando a quella porta un po’ si vergognò. Giacché Vacca era il tipo che a un collega, nel giorno delle nozze, offriva in dono una formula matematica da lui appena scoperta. “Non so cosa penserà la sposa”, lo freddò il giovane Lanciotti con l’impertinenza taoista che l’avrebbe benedetto per tutta la vita.

 

Eppure la leggenda di follia aleggiante sui sinologi italiani del passato – emozionati più da Confucio e Laozi che dai dazi e dal Pil – qualche fondamento lo aveva. Ne fu convinto Renato Simoni, primo fra i critici teatrali e viaggiatore in Asia orientale, il quale oltre la Grande Muraglia s’era affacciato anche avendo cofirmato il libretto della Turandot di Puccini. “Per imparare a leggere il cinese occorrono dieci anni di studio indefesso. Si dice che – osservava – contemporaneamente a tutta questa dottrina penetrino nel cervello degli studiosi una dolce pazzia, una morbida irragionevolezza”. La didattica attuale e i suoi obiettivi pragmatici sterilizzano l’equilibrio dei cervelli, ma non fu così per il marchigiano Antelmo Severini, primo titolare di una cattedra italiana di Lingue dell’Estremo oriente a Firenze. Dopo avere sbalordito a Parigi un maestro come Stanislas Julien, strozzato nel vortice della sua stessa scienza concluse i giorni in manicomio nel 1909, lasciando le schede di un’incompiuta Clavis Sinica negli stipi di una biblioteca a Macerata dove ancora supponiamo che giacciano.

 

Chi oggi potrebbe immaginare, visto che il mainstream continua a delegare le avventure più affascinanti a volti americani, una biografia come quella del barone Guido Amedeo Vitale? Poliglotta con eccezionale padronanza del cinese e della lingua mongola (di cui redasse una grammatica), esuberò dal ruolo marginale di interprete nella legazione italiana di Pechino a quello di ospite prediletto dell’imperatrice vedova Ci Xi, che gli concesse per moglie una fanciulla della propria stirpe. Nativo di Torre Annunziata, il barone Vitale la condusse in patria con il nome nostrano di Maria Luisa, allorché saturo della diplomazia accettò la cattedra di Lingua cinese all’Orientale di Napoli, di cui diventò direttore nel 1916. Aveva assistito alle pericolose giornate della rivolta dei Boxer, s’era rivelato arguto corrispondente per La Tribuna con lo pseudonimo di Pekinese, era ormai padre di sei figli e aveva conquistato il riconoscimento scientifico. Eppure a questa fiaba tra Vesuvio, Città Proibita e ritorno mancò il “vissero felici e contenti”. Il 20 maggio del ’18, mentre l’Italia ha quasi vinto la guerra e Vitale sorseggia un caffè in Galleria Umberto, s’accende a pochi passi da lui una lite fra due delinquenti: uno estrae la rivoltella e spara, l’altro schiva la pallottola che raggiunge al cuore il professore. Non aveva compiuto quarantasei anni e nemmeno ebbe il tempo di capire che moriva. Lo seguì nel 1920 Maria Luisa, uccisa dalla febbre spagnola. A distanza di un secolo, i dispersi nipoti dei sei piccoli orfani si sono ritrovati con l’intento di rinverdire la memoria dell’avo, frattanto riscoperto dagli atenei cinesi per un insigne contributo: raccolse, nei volumi Pekinese rhymes e Chinese merry tales, filastrocche infantili e canzoncine che le mamme intonavano nelle strade della capitale, dove lui terminato il lavoro vagava di sera col taccuino e la curiosità del folklorista. La Cina di oggi avrebbe smarrito le voci delle proprie madri, snobbate dagli austeri letterati che le ritenevano immeritevoli di trascrizione, se non avessero trovato inaspettata immortalità grazie all’orecchio di un napoletano.

 

Avviluppati nella rete digitale e nel piatto comfort degli Starbucks, gli studiosi e i giornalisti d’oggi sono assai più schermati dalle voci di strada, mentre il destino resta vigile monocratico dei proiettili vaganti. Adesso come allora.

 

Questa sarebbe solo una quasi sentimentale carrellata di autorevoli eccentrici se un prezioso filo di broccato non ne avesse collegato, più o meno strettamente, la vita e le opere. Le loro disparate avventure furono accomunate perché interrogarono l’Oriente, nelle sue declinazioni di civiltà, idiomi e latitudini, con un’ansia di ricerca che restò prima di tutto spirituale. Credettero che la cultura fosse condizione necessaria per la comprensione tra popoli lontani, ma non la confinarono in un adusto scambio intellettuale. La resero piuttosto proficuo strumento per il paese, come spiegò meglio di tutti Giuseppe Tucci, che può considerarsi l’emblema inarrivabile degli orientalisti italiani: “Molta gente”, scrisse, “quando sente parlare di rapporti culturali, arriccia il naso come di cosa inutile. Vuole invece, senza preamboli, conclusioni pratiche, di valore immediato: ma ha torto, perché i primi contatti fra due popoli avvengono appunto nel campo della cultura, nel quale da un canto si avvertono le prime segnalazioni di quelle idee e di quelle tendenze che in un domani più o meno prossimo potranno concretarsi in fatti politici e si possono dall’altro canto anche volutamente determinare indirizzi capaci di modificare, entro certi limiti, le correnti dell’opinione pubblica”. E’ ciò che un giorno si sarebbe definito soft power, però queste parole risalgono al 1934, quando Tucci, per disporre di uno strumento più agile rispetto agli atenei tradizionali, aveva dato vita da un anno all’Ismeo sotto la presidenza di Giovanni Gentile, un’eredità giunta per strade tribolate all’attuale, omonima associazione dopo la parentesi dell’Isiao, l’Istituto per l’Africa e l’Oriente.

 

Se una volta a Roma passate per via Merulana, guardando la cospicua mole di Palazzo Brancaccio dov’ebbe sede il suo Istituto, potete immaginare Tucci ancora là in partenza o di ritorno da una spedizione a Lhasa e oltre. O potete immaginare l’esoterista Massimo Scaligero, sbrigativamente ricordato come “lo Steiner italiano”, salire e scendere per quelle scale dalla sede di East and West, rivista ufficiale dell’Ismeo di cui divenne caporedattore nel 1950. Ecco l’altro tratto distintivo di quell’orientalismo: l’apertura a personaggi di spiccata caratura cui non si domandava la padronanza di una singola, minuta branca del sapere ma un approccio di elevato umanesimo. Proprio su quella rivista, redatta in inglese poiché destinata alla comunità internazionale, Tucci aveva rimarcato la differenza tra intellectual man e intelligent man, commemorando nel 1970 il suo amico ambasciatore Giacinto Auriti. Il primo tipo, l’intellettuale, lo descrisse come “alcunché di ambiguo che scivola o s’intrufola tra la politica e i salotti, con una vaga consapevolezza dei suoi propri limiti, che rincorre la fama e il successo nei mutevoli eventi di una generazione tormentata”. Creatura assai diversa è l’uomo baciato dall’intelligenza, che “è sopra ogni cosa libertà, quindi gioioso e disinteressato esercizio, una cauta ricerca in cui s’alternano il fuoco dell’entusiasmo e la freddezza dello studio, uno stato di grazia in cui la mente e l’immaginazione si fondono in un abbraccio creativo”.

 


Francis Ford Coppola si sbloccò leggendo “Un’altra giovinezza”. Trovò il film che cercava, poi malmenato dalla critica. Interrogarono l’oriente nelle sue declinazioni di civiltà, idiomi e latitudini, con un’ansia di ricerca che restò prima di tutto spirituale


 

Troppo di Tucci e troppo poco è stato scritto, però sommuove schizzarne il ritratto con le righe ammirate che gli dedicò il massimo storico delle religioni del secolo scorso, Mircea Eliade, il quale per sempre lo avrebbe reputato un suo Cher Maître. Lo rammentò, in Diario d’India, nel 1929: “Non dormiva più di due o tre ore per notte. Si occupava a quel tempo della traduzione in sanscrito di alcuni testi di logica cinese. Camminava per la stanza col testo cinese in mano, e traduceva ogni frase a voce alta. Quando non riusciva ad azzeccare la parola esatta, lanciava contro la porta il pugnale con cui giocava. I suoi domestici credevano che invocasse gli spiriti e lo abbandonavano gli uni dopo gli altri”.

 

Al termine di una notte di molti anni dopo, ormai verso le cinque del 5 aprile 1984, Tucci domandò alla terza moglie Francesca ancora un foglio per scrivere ma non riuscì a impugnare la penna, perché i suoi occhi si chiusero per sempre alla soglia di novant’anni vissuti come se fossero stati tanti di più.

 

Già s’era assottigliata, erosa da un tempo in cui sempre meno si riconosceva, la milizia senza divisa di quegli uomini che una sola disciplina del sapere non poteva contenere. E’ doveroso peccato di spazio l’avarizia degli esempi. Ancora uno solo. Salvatore Mergé, chiamato da Tucci alla docenza del giapponese, gli premorì nel 1965. Aveva affinato quella lingua lavorando all’ambasciata a Tokyo, dove apprese anche l’Aikido. Fu l’unico allievo italiano del suo fondatore Morihei Ueshiba e avrebbe aperto per primo un corso a Roma negli anni Cinquanta. Mergé rappresentò un’epitome dell’irregolare: talentuoso anche in pittura, una sua pala d’altare abbellisce tuttora una chiesa in via Tuscolana. Di lui però chi s’occupa di esoterismo avrà sentito parlare come di Elis Eliah, nome iniziatico che assunse nella Schola di Giuliano Kremmerz del quale pure fu discepolo diretto dal 1920. (Dettaglio che chiude il mosaico: Mergé servì a lungo da semplice impiegato nelle Ferrovie dello Stato. Chissà in ufficio quanti capirono chi fosse).

 

Perduta l’insolente sicurezza della gioventù, è destino dei maestri inaridire la produzione per paura di sciuparsi la fama. Così avvenne a Francis Ford Coppola, che si sbloccò solo leggendo un romanzo di Mircea Eliade: glielo aveva consigliato un’ex compagna di scuola, Wendy Doniger, rinomata indologa. Quando scoprì Youth without Youth (in italiano Un’altra giovinezza), il regista trovò finalmente il film che cercava. All’inizio non credette fosse esistito quel professor Giuseppe Tucci incluso tra i personaggi della novella. Dopo avere trascorso una giornata all’Isiao scoprì quant’era vero. Un’altra giovinezza, presentato alla Festa del Cinema di Roma nel 2007, fu malmenato dalla critica proprio per l’eccessiva raffinatezza. Ma intanto Coppola vi aveva fatto recitare l’accademico Fabio Scialpi, fra gli ultimi allievi di Tucci e che mai avrebbe pensato di divenire attore. Al cinema si ripeteva così quell’imprevedibile idea dell’Oriente che fiorì un tempo in Italia e i cui uomini straordinari, nella loro Spoon River, all are sleeping, sleeping, sleeping on the hill. Tucci riposa sulla collina di San Polo dei Cavalieri a due passi da Roma, che – diceva – somiglia a un panorama tibetano. Gli altri dormono su scaffali fuori mano o negli atti ingialliti di qualche antico convegno, aspettando chi ne canti e li ridesti ancora.