La compagnia teatrale Globe Theatre di Londra si è esibita nell'Amleto nel campo profughi di Calais nel 2016 (LaPresse)

Classici e profeti

Philippe Forest

Il mondo è pieno di racconti sparpagliati a terra, che non sono proprietà di nessuno. Chiunque può impadronirsene a suo piacimento e farne quello che vuole. E’ nel teatro il principio di tutto

La mia biblioteca è così disordinata che ogni volta che cerco un libro ne trovo un altro. Qualche giorno fa, dovendo rispondere a una rivista che mi aveva interpellato in merito al romanzo europeo contemporaneo, siccome nessun esempio mi sembrava più adatto di quello di Peter Handke, volevo riprendere in mano Il mio anno nella baia di Nessuno. Impossibile! Ho messo tutto in aria. E, mentre cercavo, mi è caduto sotto gli occhi un vecchio romanzo di Hélène Cixous, Oro, del 1997, che non avevo mai letto, di cui avevo completamente dimenticato l’esistenza, che non mi ricordavo di aver comprato quando era uscito e che era andato a finire in uno scaffale dove non avrebbe dovuto trovarsi. L’ho aperto. Opportunamente, parlava del desiderio che coglie qualcuno che sta cercando un libro e che, proprio come succedeva a me in quel momento, lo induce a riaprire un testo – per Cixous si trattava del Giocatore di Dostoievski – che ha già letto varie volte ma di cui ha di colpo l’impressione che gli rivolga nuovamente un appello.

  

Cixous scrive: “Il desiderio mi giunge come un oracolo, come un messaggio divino rivolto personalmente a me: il suo oro irresistibile. Per questo amo i libri. Perché vanno e vengono muoiono e resuscitano nella mia stanza, nel mio studio, giorno e notte”.

   

C’è una Provvidenza per i lettori. Mette a loro disposizione un libro, a volte al posto di un altro, che contiene però proprio la risposta che non gli avevano chiesto alla domanda che tuttavia si ponevano. Una biblioteca viene così a essere come una grande macchina che produce oracoli. Un po’ come la Bibbia che interrogava, mi pare, aprendola a caso, il Robinson Crusoe di Daniel Defoe. O come l’I King, il Libro dei Mutamenti, che veniva anticamente usato in Cina per cercarvi il commento agli esagrammi divinatori proposti dal caso i quali, in maniera sibillina, svelano il destino di chi li consulta. O, anche, come la foresta mitica di Dodona, laddove, nel santuario dedicato a Zeus, il vento mormorava le sue profezie scuotendo le foglie sui rami delle querce nello stesso modo in cui si fanno scorrere tra le dita le pagine di un vecchio volume. Quest’ultima similitudine l’ho trovata in Peter Handke: non nel libro che stavo cercando, Il mio anno nella baia di Nessuno, e che non sono riuscito a ritrovare, ma in un altro, Ieri in cammino, che mi sono messo a sfogliare in mancanza del primo e in cui lo scrittore racconta il viaggio che fece alla fine del secolo scorso attraverso l’Europa e che lo condusse verso i siti sacri della Grecia antica.

   

“Esiste, si chiede Handke, un oracolo sotto forma di domanda?”.

   

E’ la letteratura quell’oracolo – in cui ogni risposta prende la forma di una domanda – come pure quella foresta – nella quale di libro in libro, perdendoci, tracciamo un cammino che è casuale e però ci porta proprio là dove, senza che necessariamente lo sapessimo, dovevamo andare.

   

Caratteristica dei libri, è che ritornano. Certi lo fanno più volentieri di altri. Sono i cosiddetti classici. Scritti in un passato così lontano che appartengono quasi al tempo immemorabile delle leggende di cui è lecito pensare che non sia mai esistito. Ma non appena qualcuno li riapre, acquisiscono una presenza talmente forte da far svanire qualsiasi coscienza del mondo circostante e da farli apparire come “contemporanei”. L’eternità è il loro dominio. Il domani li concerne. In ogni momento, se ne vanno, schizzano in avanti rispetto al resto che viene scritto e trascinano la massa di tutti i libri verso l’avvenire che loro inventano. A volte, spesso, io dubito della letteratura. Ma qualche verso di Omero o di Dante, di Hugo o di Rimbaud, di Eliot o di Yeats, qualche frase di Proust o di Joyce, di Faulkner o di Céline bastano a restituirmi una fiducia provvisoria in quello che faccio.

   

“Ritornare” è la parola adatta. La si usa per i fantasmi. I grandi autori del passato sono come degli spettri. Li convochiamo, li evochiamo. Non è del tutto necessario credere negli dei che si invocano per affidarsi ai riti a loro consacrati. Un lettore è come un augure che interroga i segni cercandoli nelle interiora di un uccello o osservando il volo che il suo passaggio traccia in cielo. Ma è allo stesso tempo un negromante che, dando a bere alla terra il sangue di un montone sacrificato, fa emergere dagli inferi le ombre di coloro che il suolo un tempo inghiottì restituendoli provvisoriamente alla luce della vita.

  

Il teatro esprime tutto questo in maniera esemplare. La tragedia greca o il no giapponese – che in fondo non mette in scena altro che storie di fantasmi. Senza parlare di Shakespeare e del suo Amleto – di cui Joyce, nell’Ulisse, ha detto quello che c’era da dire. Sono convinto che arrivi tutto di lì, dal teatro dal quale qualunque letteratura proviene e verso cui poi torna. Sono abbastanza – e sempre più – sicuro che ogni libro, qualunque sia la forma che prende, dispone nel vuoto come un palco di carta su cui le parole vengono a presentarsi mettendosi a recitare quella liturgia cui si dà il nome di poesia. Era un’idea di Mallarmé, il quale sosteneva che le cose del mondo non esistono se non per andare a finire in un bel libro – anche se poi lui ebbe la prudenza di lasciare il suo incompiuto e di regalare al futuro lettore solo il rimpianto di quello che sarebbe stato – immaginando quel bel libro sotto forma di un puro teatro di carta.

   

Per quel che mi riguarda, io scrivo al solo scopo di far esistere lo spazio sul quale possano tornare tutte le storie del passato. Perché hanno bisogno della rappresentazione, con cui riprenderanno corpo ancora una volta, una volta di più, in modo tale che non si perda il racconto notturno che esse dispiegano, srotolandolo nel buio.

    

Non è mai esistito, non esiste, non esisterà mai altro che un’unica storia che ogni scrittore a turno richiama alla vita pur credendo di averla inventata e di averla estratta dal niente in cui si trovava. Molti grandi autori l’hanno detto: Proust o Borges, per esempio. Anche Calvino ne parla in Se una notte d’inverno un viaggiatore. In un mio romanzo, Il gatto di Schrödinger, anche io l’ho raccontata e l’ho chiamata “la storia perfetta”. Quella storia è il classico per eccellenza. Diciamo pure il classico dei classici. Qualunque racconto non ne è in fondo che la riscrittura – necessariamente imperfetta, e che proprio per questo deve essere continuamente ripresa, ancora e ancora. Scrivere significa pronunciare le parole, compiere i gesti, disporre i segni che permetteranno alla storia di manifestarsi nel presente e di avanzare sulla strada che la porta verso il domani – che non finirà.

   

Nel mio nuovo romanzo, faccio ancora una volta l’esperimento. Il titolo viene da Shakespeare: “Resto re delle mie pene”. Più precisamente da una battuta del Riccardo II. Il monarca destituito si paragona a un pupazzo di neve che si sta sciogliendo e di cui a terra resta solo una pozza di lacrime. Hanno potuto privarlo della corona, del titolo e persino del nome e del volto. Resta, ciò nonostante, sovrano delle pene che lo affliggono. La sua storia è la nostra. Ognuno di noi vi ritrova la sua. Uno scrittore la fa di nuovo sentire, per la millesima volta, come se fosse la prima.

   

La pagina di un romanzo che comincia, che ricomincia, dispone sul bianco della carta la scena ancora vuota sulla quale compariranno tutti i fantasmi del passato, in modo tale che possano tornare e riprendere la stessa storia di amore e di morte, di desiderio e di lutto, di cui parlavano i classici del passato e di cui parleranno per sempre, finché esisterà quella cosa che chiamiamo “letteratura”, i libri di domani.

Il prologo del romanzo di cui sto parlando inizia così.

Ne do lettura per finire, o per cominciare.

RESTO RE DELLE MIE PENE

PROLOGO

   

1. Tutte le storie del mondo sono sparpagliate a terra. Non sono proprietà di nessuno. Chiunque può impadronirsene a suo piacimento. Farne quello che vuole. Senza dover render conto a nessuno. Se non a se stesso. Incurante di quello che vogliono dire, dà loro il significato, indegno o glorioso, che più gli piace. Le trasforma in un racconto curioso che crede gli appartenga. Non rendendosi conto che ognuna di loro appartiene a tutti.

   

Nessuna sfugge alla regola.

Perché nessuna storia è di una sola persona.

Neppure la sua.

    

A partire da un certo punto, la propria vita, invecchiata, si pensa quasi di averla sognata. Non ha più valore di quella del proprio vicino, da cui spesso è ormai difficile distinguerla. Assume l’aspetto di un’antica leggenda. Assomiglia a un racconto che, nel passare di bocca in bocca, è stato troppe volte ripetuto. Nessuno sa più chi ne era l’autore e di chi parlava inizialmente. Si fa fatica a pensare che riguardasse noi. Tutto ciò che ci appartenne ci sfugge di mano e cade a terra là dove, tra tutte le storie ammassate, si riesce a malapena a riconoscere la propria.

     

Parlo così certamente per via dell’età. Non l’ho pensato sempre. In un tempo lontano, ho creduto di avere una vita, anch’io. Avrebbero potuto togliermi tutto, lei mi sarebbe sempre rimasta. Ne ero convinto. Una storia, la mia storia. A tal punto singolare che non mi sembrava simile a nessun’altra.

     

Mi sbagliavo.

Una storia resta.

Ma non si tratta mai della propria. La casa in cui si vive è aperta a tutti i venti. Una persiana sbatte sulla finestra mal chiusa da cui l’aria s’infiltra. Sbatte la porta, che dà sul grande fuori del mondo dove i propri passi si perdono.

     

2. Le storie sono più vecchie degli uomini che le vivono, più vecchie di coloro che le raccontano. Li precedono. Li aspettano. Vivono più di loro. Quando loro scompaiono, le storie continuano da sole. Fino a che non arrivino altri, a prendere il testimone, che ancora una volta si mettano a interpretare i ruoli di cui i loro predecessori si erano creduti padroni.

Come accade a teatro.

Dove nessuno possiede niente di durevole, dove anche le parole che si pronunciano non sono mai le proprie e dove sono sempre dei nuovi arrivati a prestare i loro volti mutevoli ai personaggi di un repertorio immutabile.

    

Sotto la luce che li illumina appena, gli attori avanzano sul palcoscenico. La trama cui si prestano rimane oscura. Il testo che recitano gli attori, si fa fatica a non credere di averlo già letto o sentito da qualche parte. Ma non si è in grado di ricordare dove né quando.

    

Ogni tanto, a certi scampoli di battute cui si appiglia una sembianza di senso, si crede di riconoscere la storia che viene raccontata. Poi però, quasi subito, cambia aspetto. Lo spettacolo segue il suo corso cui ci si abbandona, rinunciando a scoprire dove porti e che cosa voglia dire.

     

Tutto assume quell’aria incomprensibile che in fondo è quella, familiare, della vita.

La storia non significa nulla.

Ed è per questo, questo solo, che si è certi che dice la verità.

    

3. La vita, la mia vita, l’ho sempre vista così: come una specie di spettacolo. O più esattamente: come le prove di quello spettacolo.

Nel senso che si dà a questa parola in teatro dove, stranamente, indica qualcosa che viene prima della rappresentazione. Come se si ripetesse solo ciò che deve ancora succedere. Il tempo, il suo senso, ne risultano rovesciati. Un’immagine dell’avvenire si riflette senza fine nello specchio che il passato gli tende. O qualcosa del genere.

   

Tutto è accaduto in un lontano passato. Così tanto tempo fa che non me ne ricordo più. Gli stessi fatti si ripetono incessantemente. Sarei incapace di dire quando sono successi per la prima volta. Mi sembra che anche se riuscissi a ricordarlo, scoprirei immediatamente che la storia cui assisto, era ancora anteriore. Nessuna nuova peripezia che non sia l’eco di una precedente la quale, a sua volta, già ne imitava un’altra.

E però, la rappresentazione vera e propria è sempre rinviata. Perennemente rimandata al giorno successivo. Tutto quello che avviene ne è sempre solo la promessa. O meglio la preparazione. E più gli anni passano più ci si mette a pensare, naturalmente, che non verrà mai il momento in cui, sotto i propri occhi, le cose prenderanno finalmente forma. Per lo meno, non nel corso della propria vita. Né del resto, a ben pensare, nel corso della vita di chi verrà dopo di noi.

   

La storia si cerca. Si riprende, si trasforma, si corregge, prova in successione tutte le sembianze che può assumere senza che mai nessuna vada davvero meglio di quella precedente o di quella successiva. In fondo esiste solo come somma di tutti i possibili cui potrebbe prestarsi. Tutte le storie del mondo contenute in una sola che vale per qualunque altra, che non dice niente di più né niente di meno rispetto a una qualsiasi di loro e che non smette mai di cominciare, di ricominciare.

Adesso.

    

4. “La vita, la mia vita, l’ho sempre vista come fosse una prova”, dice una voce di cui, di colpo, ci si chiede da dove venga e a chi appartenga.

Come tutte le altre, la frase che precede, in realtà, la si sarebbe dovuta intendere, non appena è risuonata nel vuoto, come se fosse stata declamata su una scena ancora deserta nell’attesa che l’azione cominci e che arrivino gli attori.

   

D’un tratto, si realizza che si era a teatro. Certo, lo si immaginava, più o meno. Ma, non avendo capito la convenzione che il drammaturgo aveva adottato, non si sapeva che si era tenuti a saperlo. Non si pensava che lo spettacolo fosse cominciato già da un po’ e che tutto quello cui si era assistito, curiosamente, ne facesse già parte.

Diciamo che parlo di un sogno che ho fatto e che spesso nella notte ritorna: qualcosa si agita nella penombra in cui credo di discernere l’immagine più giusta della mia vita, la più giusta che sia dato a un uomo contemplare. Sogno e capisco che la storia cui assistevo nel sonno assomiglia alle prove di cui dicevo: in cui tutto ritorna in maniera oscura, prendendo l’aspetto di un racconto decantato, che resta tuttavia eternamente da raccontare e di cui inevitabilmente il risveglio, presto o tardi, verrà a interrompere il corso fino alla notte successiva.

    

Ma chi dice, ora, quelle parole?

   

La voce che si sentiva, che si immaginava venire dal nulla e non esser di nessuno, ci si accorge d’un tratto che è quella di un attore il quale, certamente, prima, parlava dalle quinte. A meno che non sia rimasto nell’ombra dove la sua figura, benché massiccia, non si scorgeva. Avanza verso la sala, si presenta in proscenio. Parla con voce grave e affettata quanto basta per conferire la giusta solennità all’enfasi delle sue frasi.

   

5. Qualcuno si accinge a raccontare la sua vita di cui dice tuttavia che potrebbe anche essere quella di chiunque altro. L’attore cui è stato riservato il ruolo principale. L’autore forse. Voglio dire l’interprete incaricato d’impersonarlo e che porta al pubblico la sua parola. O più semplicemente quello che un tempo veniva chiamato il “prologo” – quando in teatro vigevano ancora questo tipo di convenzioni affinché il testo potesse prendere forma umana e presentarsi sulla scena di persona.

    

Perché lo spettacolo cominci, è necessario il suo imbonimento. Fornisce i moniti d’uso – indispensabili ma che nessuno prende troppo sul serio e cui non si crede mai fino in fondo. Proclama così a chi vuole ascoltarlo che nulla di ciò che verrà detto dovrà essere preso né per vero né per falso. Ogni interpretazione sarà totalmente a carico del pubblico. Lo spettatore penserà a proprio rischio e pericolo che si stia parlando di lui quando di fatto è questione della storia di un altro. Libero di riconoscersi se lo desidera. D’altronde, conosce già il racconto che sta per ascoltare. E’ venuto per vederlo, per sentirlo, come fanno i bambini che chiedono ogni sera la stessa fiaba prima di addormentarsi nel buio. Nessuno pretende che sia nuovo. La trama è consumata fino alla corda. E’ sempre la stessa da secoli. Esigere che cambi non sarebbe ragionevole. E di sicuro nessuno ne trarrebbe alcun vantaggio.

    

Inesauribile, l’attore continua, ripetendo ancora che lo spettacolo che viene offerto non proporrà al pubblico nessuna morale cui si possa fare riferimento una volta usciti dalla sala o che si potrebbe applicare alla propria vita. Nessuna filosofia può esserne ricavata. L’unico scopo dello spettacolo è quello di distrarre il pubblico. A nome dei suoi compagni, preventivamente, l’attore che parla gli presenta le sue scuse nel caso in cui non dovesse riuscirci. A suo dire, tuttavia, questo rischio non c’è. Verranno trattati argomenti importanti e autorevoli. Non mancheranno le peripezie. Cavalieri di bell’aspetto e belle dame, nei loro costumi sontuosi, verranno a pavoneggiarsi sotto gli occhi dello spettatore. Passeranno per essere dei grandi personaggi, principi e profeti, pittori o poeti. Pronunceranno ogni sorta di discorsi definitivi sull’esistenza di cui diranno, a vantaggio di chi li ascolta, di quale senso – o mancanza di senso – essa sia forse provvista.

     

6. “Tutte le storie del mondo sono sparpagliate a terra” diceva. E aggiungeva che non ce n’è nessuna che sia di una persona sola. Lo spettacolo cominciava con queste parole. A meno che non ce ne siano state altre che le hanno precedute. Impercettibili, difficilmente distinguibili dal mormorio che risuona sempre in un teatro quando la sala si riempie a mano a mano che la gente entra. Quando l’attore racconta, ad esempio e senza che nessuno gli presti attenzione, una fiaba, un aneddoto, una piccola parabola di cui nessuno, lì per lì, ha colto il senso né, soprattutto, l’utilità, ma che tutti intuiscono debba avere importanza più avanti e capiscono quindi che è meglio sistemarlo comunque in un angolo della propria mente.

    

Ma perché sia sentito da coloro cui lo rivolge, l’attore riprende il suo testo con voce più forte. Ritorna all’inizio e commenta il discorso preliminare che ha fatto prima. Fino a che ci sia finalmente silenzio e nell’aria risuoni, sola, la sua voce.

Che adesso dice: “In un tempo lontano, ho creduto di avere una vita, anch’io”. E tutto quello che viene dopo.

Senza che ci sia modo di sapere di chi sia la vita, di chi la voce. La sua o quella di un altro. Potrebbe trattarsi di voi oppure di me, se volete e come vi parrà. Ma chi dice “voi” e chi dice “me”?

Poco importa, dopo tutto, se ognuno deve dire dell’altro: “Io sono quell’uomo, lui è ciò che io sono”.

    

Le parole che prende a prestito all’autore, l’attore, mentre recita il prologo che il primo ha scritto per lui, le fa dire a un uomo che è forse un principe, un profeta, un pittore o un poeta, qualcuno – tutti, nessuno o chiunque – cui l’autore aveva già rubato la vita, raccogliendo a terra la storia che ha fatto sua e di cui non si sa mai bene a chi appartenga perché è, come diceva lui stesso, o forse ero io? quella di tutti: la storia di un cuore ferito, ferito come quello di ognuno e il cui sacrificio, offerto a un dio assente o al quale nessuno più crede, basti però a farne uno spettacolo in grado di soddisfare, a quel che pare, la comunità curiosa degli uomini cui d’un tratto lui si rivolge.

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