Ludwig Wittgenstein e il suo capanno norvegese, davanti al fiordo di Skjolden

Le case di Ludwig

Sergio Garufi

Ritratto filosofico di Wittgenstein, nato 130 anni fa, attraverso i suoi luoghi “sui limiti del mondo”

E’ possibile vivere in un mondo fatto a immagine e somiglianza del Tractatus Logico-Philosophicus? Se lo chiedeva anche David Foster Wallace, insistendo sulla necessità di trasportare dal piano della pura teoria a quello della pratica l’opera maestra di Ludwig Wittgenstein, spesso resa più oscura e criptica di quanto non fosse già dai suoi numerosi e solerti seguaci. E che tipo di mondo sarebbe, chi potrebbe abitarlo? Forse quello nel quale era immerso il suo capanno norvegese, davanti al fiordo di Skjolden, un mondo solipsistico e nominalista rievocato alla Fondazione Prada di Venezia l’anno scorso in occasione della mostra Trois machines à penser, dove erano stati ricostruiti tre mitici capanni di pensatori, appunto il rifugio di Wittgenstein, la baita di Heidegger nella Foresta Nera e l’eremo di Adorno (mancava solo il casotto canadese di Malcolm Lowry, ma lui era un romanziere)? Oppure la casa di Kundmangasse a Vienna, progettata per la sorella Margaret, quella ritratta da Klimt, una villa immersa nella pulsante vita cittadina e dalle linee rigorose e asciutte come le sette proposizioni del Tractatus, perché entrambi condividevano lo stesso principio etico-estetico del “simplex sigillum veri”?

 

La specola norvegese aggettante sul nulla era la sua utopia personale da cui era insieme attratto e respinto, se la costruì da solo e ci soggiornò più volte come tradendo un’acuta nostalgia per un al di là della parola, per una redenzione dal linguaggio senza altro te absolvo che il linguaggio stesso, forse perché solo sporgendosi oltre il linguaggio si “vede rettamente il mondo”, ci si ritrova al cospetto dell’ineffabile e del mistico. Ma fino a che punto era disposto a ritrarsi dal mondo, a farne a meno come se non lo riguardasse? Non le sue pompe ovviamente, alle quali aveva rinunciato senza sforzo come alla favolosa eredità paterna, donata alle sorelle, ma la fitta rete di relazioni, le abitudini, gli stimoli, l’accudente routine; cioè fino a che punto era disposto a separare sé stesso e il suo destino dagli altri e a pensarli solo in termini astratti? Probabilmente meno di quanto si creda, come dimostra il fatto che in quel capanno lontano da tutto abitò sempre per meno tempo di quanto aveva programmato (e in un’occasione lo lasciò per farsi ospitare da una vicina, tanto pesante era il fardello di quella solitudine).

 

Il mondo è composto di fatti, e la vita di relazioni, e per ancorare alla realtà quelle riflessioni così profonde e complesse non c’è niente di meglio di una biografia per immagini, come quella edita da Carocci e curata da Michael Nedo, il direttore del Ludwig Wittgenstein Trust di Cambridge, che mostra il legame tra la vita e l’opera del filosofo viennese “fondamentale per la comprensione della sua filosofia” (come afferma il curatore nella prefazione). Attraverso una messe impressionante di immagini riguardanti la sua famiglia, i suoi taccuini, le sue lettere e mille testimonianze di amici e parenti che accompagnano le illustrazioni, a partire dalla sorella Hermine, il libro di Nedo ci restituisce il mondo che Wittgenstein abitò, non a immagine e somiglianza del Tractatus ma il mondo nel quale il Tractatus nacque e prese forma. Dal primo ritratto di Ludwig bambino, con l’espressione imbronciata, alla maschera mortuaria e alla lapide spoglia nel cimitero di St. Giles a Cambridge, tutta la parabola artistica e umana del grande pensatore austriaco è documentata in quelle pagine.

 

“Ho avuto una vita meravigliosa”

In mezzo c’è la Vienna asburgica in cui crebbe, la famiglia numerosa, il padre ricco e severo, gli artisti della Secessione che gravitavano intorno a casa sua, poi la Realschule di Linz in cui incrociò Hitler, il Trinity College di Cambridge e le sue amicizie illustri, Bertrand Russell, John Maynard Keynes, la prima abitazione in Rose Crescent, il documento militare e l’esperienza della Grande Guerra, le lettere dal campo di prigionia in Italia, i suoi studenti di Ottertal, il convento presso cui lavorò come giardiniere, l’esule Piero Sraffa, gli appunti della prima lezione e ancora Cambridge, il plagiatore Carnap e poi l’epilogo, con il libro degli ospiti del dottor Edward Bevan, che aveva acconsentito a ospitarlo già tre mesi prima, dopo aver constatato il rapido peggioramento del tumore alla prostata e per evitargli il ricovero in ospedale. Qui morì pochi giorni dopo aver compiuto 62 anni.

 

Non mancano le testimonianze degli amici presenti, come Maurice O’Connor Drury, che riferisce le discussioni sull’opportunità o meno di chiamare un prete, dal momento che Wittgenstein stava per spirare ma aveva già perso conoscenza, e le perplessità su come andasse organizzato il funerale. Ma la più toccante di tutte è quella di Joan Bevan, la padrona di casa, alla quale Wittgenstein sussurrò le sue ultime parole destinate al gruppo fedele di amici e discepoli raccolti nella stanza attigua: “Dite loro che ho avuto una vita meravigliosa”.

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