Conformista e abietto, il Lecchino non è mai stato a proprio agio come adesso

Marco Archetti

Un libro di Antimo Cesaro per La Nave di Teseo

Immersi nello sterco fino alla punta dei capelli: Dante, i leccaculo, non li perdona. A occhio dovrebbe bastare questo quadretto – la fetida immersione, il guazzo escrementizio, l’amareggiata incredulità del Poeta davanti alla zazzera inzaccherata di Alessio Interminei da Lucca nel XVIII canto dell’Inferno – a far impietrire sul ciglio dell’atto leccatorio anche il più audace dei ruffiani. Invece no, non basterà, del resto non è mai bastato, perché il vero, grande Leccaculo, cui Antimo Cesaro dedica questo “Breve trattato sul lecchino” (La nave di Teseo, 106 pagine, 13 euro) è una creatura indomabile, proteiforme e tetragona, invincibile sintesi di disposizione e arte, di attitudine e abilità, di genio e capacità adattative, e dotata di insospettabili resistenze, ferree lungimiranze e malleabilità riprovevoli finché si vuole, ma a prova di bomba. Perché ogni azione del Lecchino è transitiva; ogni sua azione, cioè, è rivolta a uno scopo. Ammettiamolo: non parte mai col favore dei pronostici, ma alla fin fine ha sempre buone probabilità di vincere (un premio Strega, una candidatura alle elezioni, una cattedra).

 

In questo colto e divertentissimo excursus sulla figura mitologica del Lecchino che comincia con un “venghino, signori venghino!” e termina con un opuscolo del Settecento, Antimo Cesaro ci guida con ironia alla scoperta non solo di una tipologia umana, ma della forza insospettabile della debolezza. Pagina dopo pagina emerge quanto il Lecchino di carriera sia spesso una creatura solitaria e indefessa, un Sisifo stercorario armato esclusivamente della propria inflessibile volontà, disarmato di vero potere contrattuale e sguarnito in un mondo di guarniti, ambizioso in un mondo di mille altri ambiziosi spesso più corazzati in mezzo ai quali non solo deve sopravvivere, ma sui quali deve per forza trionfare.

 

Per riuscirci, il Lecchino può contare solo su se stesso, ma attenzione, non è poco: ha dalla sua una grande resistenza, un’atletica capacità di umiliarsi, un’estenuante disposizione a conformarsi e a farsi abietto quando il caso lo richieda (lo richiede sempre). Sintesi strabiliante di mammifero (sugge mammelle altrui), di uccello (muta periodicamente a seconda della stagione e ha ossa prive di midollo), di anfibio (è viscido e compatibile con ogni ambiente) e di rettile (striscia), è pronto a cogliere ogni occasione per mettere in moto l’instancabile e saettante muscolo volontario della sua lingua. E non va sottovalutato. Già il barone Paul-Henry d’Holbach, autore del noto “Saggio sull’arte di strisciare” – testo di riferimento per Cesaro, come dicevo pubblicato in appendice al testo – sosteneva che il Cortigiano (leggasi il Lecchino) vive una vita non da tutti, fatta di impegno sfibrante e di rincorsa continua, giacché non può permettersi, come gli altri uomini, di avere solo un’anima, ma molte di più. “Un cortigiano è ora insolente, ora plebeo; ora sudiciamente avaro, ora smodatamente avido, ora prodigo a iosa; ora francamente audace, ora vergognosamente codardo; ora arrogante oltre maniera, ora studiatamente cortese. In una parola, egli è un Proteo, un Giano, meglio ancora un Dio indiano a sette facce.”

 

Chiaro? Non provateci da casa, è pericolosissimo, non bastano elasticità dei lombi, flessibilità della schiena e altre innominabili propensioni per pensare di riuscire al primo colpo in tali acrobazie, in tanta inconcepibile capacità di riduzione dell’attrito – avete idea di cosa significhi lavorare contro le leggi della fisica e averne spesso ragione? Homo ligens assai pratico di rinuncia quotidiana alla propria dignità, mercificatore della propria anima, barattatore di qualunque valore in cambio di un privilegio anche miserabile e, soprattutto, efferato tornacontista (sa che si lecca oggi per incassare domani) il Lecchino si muove nella nostra contemporaneità – anche social – con agio insospettabile, trovandovi un habitat ideale per la sua forza paziente: un mondo gerarchizzato, fondato sull’apparenza, e governato da logiche utilitaristiche. Schiavetto e galoppino, ratificatore e lusingatore alieno da ogni opinione in quanto capace di averne una sempre diversa, conosce bene la frase di Aristotele secondo cui l’attività del Lecchino sarà sempre fiorente perché “la maggior parte degli uomini preferisce essere amata che amare”. E ha in Larcio Licinio il suo definitivo padre nobile: mediocre oratore dell’età di Tiberio, gli si deve l’invenzione della claque, cioè di quel gruppo di persone retribuite appositamente per applaudire ed esultare.

 

Ma che ne è di un Lecchino quando non ha più nessuno da leccare e ha trionfato? Nulla. Destino di solitudine. Cessazione delle attività. Sarà tenuto in vita giusto dall’odio per i Lecchini da cui a quel punto verrà circondato, Lecchini che lo avvilupperanno untuosamente tra le spire della loro interessatissima e sfinente benevolenza. Per lui il contrappasso è già in terra: specchiarsi nella miserabilità di chi gli somiglia – essere amato tanto, essere amato senza amore.

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