Artisti in fiera
Perché le fiere d’arte che all’estero sono un business in Italia sono un mezzo flop. Idee
Roma. Il mercato delle Fiere d’arte ha conosciuto, a livello globale, un periodo di forte crescita, sia da un punto di vista di pubblico sia da un punto di vista di gallerie partecipanti (e, di conseguenza, anche di fatturato). In Italia, tuttavia, questo tipo di trend, nonostante segnali positivi, è stato soltanto parzialmente recepito. Se nel 2016, infatti, i visitatori delle 5 più importanti fiere d’arte al mondo hanno visto la partecipazione di più di 400 mila visitatori, in Italia, le uniche due presenti nella Top20 (Artissima e Artefiera Bologna) sono state visitate, cumulativamente, da circa 90 mila. Nonostante il mercato delle fiere d’arte rappresenti uno dei canali di vendita principali per le gallerie (secondo alcuni report, il 46 per cento delle vendite avviene proprio in fiera), e nonostante il ricco calendario di fiere d’arte nel nostro paese (secondo l’Art Fairs Service, dei prossimi 141 appuntamenti, più del 10 per cento è proprio in Italia: Mercante in Fiera, ArtVerona, Step ArtFair, The Others Art Fair, Artissima e ArtePadova gli appuntamenti fino al 2018), assistiamo a una difficoltà di affermare il nostro sistema culturale a livello internazionale.
Che esista una patologia (e in particolare per il settore dell’arte contemporanea) è dunque un dato di fatto. Questo ha portato, negli ultimi anni, al moltiplicarsi di riflessioni sulle riviste specializzate con ricette e prescrizioni che sembrano tutte rivolte a imputare la causa della malattia ad un fattore ambientale. Secondo tale visione, in Italia le fiere stentano a causa di uno scenario non favorevole: lacci e lacciuoli burocratici, regimi fiscali non proprio favorevoli, contesti culturali che non lasciano emergere la nostra scena artistica come centro propulsivo o anche soltanto di essere apprezzata dalle schiere di collezionisti (nuovi e vecchi) globali. Nulla di sbagliato in queste vedute, se non un’assenza di visione generale: la realtà è che nella visione manageriale la prospettiva dovrebbe essere in grado di inquadrare tutti questi fattori (in qualche modo “esogeni”) all’interno di un’analisi più ampia, che riesca a guardare anche ai fattori “endogeni”. E’ indubbio, ad esempio, che le nostre fiere d’arte non abbiano creato, nel tempo, un vero e proprio rapporto con il territorio: spesso frutto di un’intensa attività curatoriale e di locazione degli spazi, le fiere d’arte oggi non sono né il riflesso del territorio, né un centro di attrazione per lo stesso. Sembrano piuttosto “non luoghi”, per usare una citazione cara ad una certa élite culturale. Responsabili sono coloro che nella fiera vedono, pur con toni più democratici e sfumati rispetto alla seconda metà del ’900, l’espressione di quell’establishment del mercato che nella nostra ancienne Europe, non ha mai trovato una vera e propria legittimazione. Allo stesso modo responsabili sono coloro che non rivendicano per la fiera il ruolo puro e desiderabile dell’espressione di un mercato senza il quale, l’Arte, oggi più che mai, avrebbe sincere difficoltà ad emergere.
Se l’arte è fatta anche da oggetti, e tali oggetti sono in vendita e possono essere acquistati, allora lasciare che sempre più persone inizino ad acquistare arte vuol dire favorire la diffusione dei valori dell’arte è portavoce.
Atteso ciò, e assolti con i dovuti toni gli argomenti la cui ripercussione culturale è alla base di un missmatch tra la sezione aulica e quella prosaica dell’arte, si può dunque passare ad analizzare con maggiore rigore manageriale le ulteriori debolezze (failure) del nostro attuale sistema fieristico: 1) Struttura organizzativa inadeguata (fondata dalla collaborazione tra gli aspetti curatoriali e commerciali e contraddistinta molto spesso da un’assenza di aree di management); 2) Inappropriatezza degli investimenti (che troppo spesso si basano sullo stantio dout des della comunicazione e della desiderabilità sociale e non prevedono scenari temporali pluriennali di crescita); 3) Mancata definizione del target (rappresentato spesso da un non meglio definito “collezionismo consolidato”); 4) Elevate barriere di ingresso sul lato della domanda (l’assenza di percorsi che mirino all’affermazione di un nuovo collezionismo, non necessariamente giovane e non necessariamente cheap); 5) Reiterazione di un modello di busines che nel tempo non è stato in grado di garantire margini di sviluppo adeguati; 6) Potenziale disinteresse da parte degli enti fiera nei riguardi delle fiere d’arte.
A ben vedere, così come tanti altri settori della cultura le variabili che, potenzialmente, hanno inciso (o non inciso) sul nostro mercato, sono numerosissime ed eterogenee.
Queste condizioni, che per molti sono state sinora paralizzanti, rappresentano piuttosto un’opportunità. L’incidenza dell’una sulle altre non è regolata attraverso meccanismi ingegneristici e ciò lascia aperti una serie di scenari di miglioramento che potrebbero, in concreto, cambiare le condizioni attuali.
Probabilmente basterebbe che qualcuno osasse rischiare sul serio, piuttosto che restare a fantasticare di essere il primo ad innovare salvo poi desistere, perché “non ne vale la pena”, “il rischio non vale la candela”, “l’uva è troppo acerba”.
Intervista a Gabriele Lavia