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Lo zainetto di Renzo Piano, il (giovane) Re Artù dello spazio architettonico

Francesco Bonami

Alla Royal Aacademy una grande mostra dedicata a “Pianograd”

In fila davanti a me, mentre attendo il mio turno per entrare all’anteprima della mostra “The Art of Making Building” sulle architetture di Renzo Piano alla Royal Academy di Londra, mi sbatte addosso lo zainetto di un signore allampanato che chiacchiera con tizio e caio, riconosco accanto a lui Milly, la moglie di Piano, e così mi accorgo che il rompicoglioni con lo zaino è lui, l’archistar in persona colui che sull’understatement, tradotto liberamente potrebbe essere umiltà snob o semplicità mitica, ha costruito una mitologia. Quando ci vediamo lui si fa chiamare “Geometra” e chiama me “culatol” invece di curatore, visto che collaboro con il suo studio RPBW a un progetto per un centro d’arte a Huanzhou in Cina, dove in effetti mi chiamano davvero “culatol” senza doppi sensi. Il fatto che Piano fosse in fila per entrare alla sua mostra la dice lunga sull’età interiore del personaggio, quell’età che Luciano De Crescenzo considerava assolutamente indipendente dall’età anagrafica.

 

Renzo Piano ha appena compiuto 81 anni ma si comporta come uno di 18. Fuori della mostra una riproduzione in scala 1:1 di un giunto rosso del Centre Pompidou, l’edificio che rimane tutt’oggi la prima notte di vero sesso con l’architettura del Geometra, condivisa con il compagno di merende Richard Rogers. Fra Rogers e Piano c’è la stessa differenza che c’era fra Braque e Picasso. Il primo aveva inventato il Cubismo, l’altro lo aveva divorato digerito e trasformato in tante cose diverse meno ideologiche e più aperte al mondo. Due grandi pittori due grandi architetti. Uno più pessimista, Rogers, l’altro ottimista. Dell’ottimismo di Renzo Piano la gente ne abusa. Ogni volta che c’è un problema, vedi la tragedia di Genova, si va da lui a chiedere una soluzione e si pretende che ce l’abbia come se fosse il mago Merlino de “La Spada nella Roccia” di Disney. Piano non ha sempre una soluzione ma certo è uno di quelli che sicuramente meglio di altri, in modo molto laico, riesce ad individuare il percorso verso una possibile soluzione.

 

A volte la sua semplicità può sembrare sconcertante al limite della banalità ma è sempre incontestabile, tipo quando dice che un ponte non deve crollare o che i computer sono un po’ stupidi perché bisogna sempre dirgli tutto. La mostra alla Royal Academy è come tutte le mostre di architettura: insoddisfacente un po’ come lo sono le mostre sulla moda. La moda è fatta per essere indossata, l’architettura vissuta. Metterle in scena, senza il corpo, la moda, e senza lo spazio e la scala, l’architettura, rende l’esperienza monotona e paradossalmente piatta. Ma Renzo Piano oltre a tutte le altre qualità è pure furbo e pacificamente aggressivo. Dribbla il problema piazzando al centro della mostra , circondato da schermi con una sua intervista, un plastico scala 1:1000 dove troneggia lo Shard, il grattacielo-scheggia più alto d’Europa che si alza nello skyline di Londra. Istintivamente quindi si pensa che il plastico sia della capitale Britannica, sennonché a poco a poco s’iniziano a individuare altri edifici simbolo realizzati da Piano e dal suo studio e ci si rende conto che quel plastico non è altro che quella che io ho battezzato “Pianograd” o più familiarmente “Renzopoli” ovvero una città composta dal numero incredibile di edifici pensati dalla stessa persona, progettati e costruiti assieme alla sua squadra. Si capisce a colpo d’occhio quanto tentacolare sia stata in mezzo secolo l’attività e l’influenza di questo architetto che tuttavia, nonostante la sua fama globale non ha rinunciato a un grammo della sua italianità. Il plastico deve essere comunque per alcuni suoi colleghi un colpo sotto la cintura. Chi può non rimanere impressionato dalla vastità del Piano Empire? Un impero tuttavia tenuto sempre dentro una scala e una dimensione umana. Infatti a dimostrazione di questa human scale l’edificio più piccolo è proprio lo studio del maestro sulle colline che guardano il mare di Vesima subito fuori Genova con il suo ascensore a cremagliera. Un nido, un covo, la centrale che gli architetti avversari dovrebbero bombardare con un drone come il fortino di Bin Laden se volessero provare ad arrestare la creatività ancora in espansione di questo Space Lord. Infatti la qualità migliore di Renzo Piano, e appunto la mostra, per i problemi che abbiamo detto, non riesce a rendergli giustizia, è il suo senso dello spazio. All’esterno può darsi che le forme dei suoi edifici non piacciano sempre e siano naturalmente anche un po’ datate ma all’interno è molto raro che facciano cilecca. A parte lo Shard, ma li era una questione urbanistica e più che un edificio è un tappo su uno snodo di mobilità urbana che gli sta sotto, Piano ha sempre evitato, a differenza di molti suoi colleghi, gesti di priapismo architettonico o di pornografia formale alla Fuksas. A lui piace l’orizzontalità, posizione per altro che può nascondere bene anche il priapismo più estremo. Edifici come colline, non montagne, e per accentuare questa idea da Pianograd si alza un aroma studiato appositamente dalla profumologa Giovanna Zucconi, che rende ancora più scaltramente immateriale la presenza fisica di tutte queste architetture che lì sospese nel profumo e nello spazio sembrano ancora idee e pensieri, sogni progettuali. Un paradiso con tante anime di forme e dimensioni diverse dove il peso della materia scompare.

 

E’ difficile dire se Renzo Piano sia un geometra che la gente vorrebbe Re o un Re che vorrebbe tornare a fare il geometra. Proprio come il giovane scudiero de “La Spada nella Roccia”, quando è diventato Re Artù. Forse la risposta più vicina alla verità è che Renzo Piano può portare sia la corona che lo zainetto, o forse dentro lo zainetto c’è la corona.

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