Mario Praz, curioso di microcosmi e stili, li trasformava in metafisica di oggetti

Alfonso Berardinelli

Citazioni e intarsi attorno a un grande critico. Il libro di Raffaele Manica

Nell’ottavo e ultimo volume della sua Storia della critica moderna dal 1750 al 1950, René Wellek concludeva il capitolo molto autobiografico su Mario Praz con queste parole: “Io non dimenticherò mai l’uomo e lo scrittore. La fertilità e la vastità della sua opera sono probabilmente uniche non solo nella letteratura italiana ma quasi ovunque anche in Europa. La sua memoria non deve morire”. Anche Edmund Wilson, coetaneo di Praz, lo considerava un critico e saggista raro e singolare arrivando a definire “prazzesco”, tanto inusitato e bizzarro quanto inconfondibile, il mondo che “il genio di via Giulia” aveva raccontato nella sua vasta opera ubbidendo alle proprie idiosincrasie.

 

La memoria di Praz non doveva morire e in effetti non muore. Ora che il Novecento, il cosiddetto secolo della critica, si allontana, appaiono sempre più nitide sullo sfondo dei sui decenni più avventurosi, inventivi e drammatici, soprattutto due figure di critici italiani: Giacomo Debenedetti e Mario Praz. Non si potrebbero immaginare due uomini più diversi, due menti e due stili più reciprocamente impermeabili. Debenedetti, con Proust, Kafka e Freud, scende in profondità cercando di diagnosticare il destino morale e sociale dell’uomo novecentesco, individuo orfano della tradizione che insegue al buio il proprio mito chiarificatore. Praz, in confronto, è piuttosto un estroverso viaggiatore, mobile e curioso: un descrittivo collezionista di figure stilistiche, di microcosmi, delle molte scenografie fisiche e morali di cui è fatta la Storia, ma che nello stesso tempo ne scompongono l’unità sottraendola all’idea dialettico-progressiva che se ne fanno i filosofi storicisti. Entrambi postcrociani e anticrociani, Debenedetti e Praz ricominciano a esplorare sia la profondità dell’io che la varietà del mondo, tenendo a distanza le sintesi concettuali con l’uso di metafore gnoseologiche o mitiche e di imprevedibili descrizioni obiettive.

 

Indagatore della “prosa nascosta” (come dice il titolo di un suo libro) e innamorato del genere saggistico come pochi altri fra i nuovi critici italiani, Raffaele Manica aggiunge ora all’introduzione scritta da Giorgio Ficara per il Meridiano Praz un nuovo ritratto del grande anglista, collezionista e viaggiatore. Manica parte giustamente da Wilson, che vedeva in Praz più uno scrittore che un critico, più un ritrattista che un analista, anche se (e questo lo dice Manica) “c’è spesso un punto negli articoli e nei saggi di Praz dove il lettore vede i fatti fisici trasformarsi in qualcos’altro, come se fosse di fronte a una metafisica degli oggetti”.

 

E’ questa, mi sembra, l’intuizione centrale del libro di Manica, il punto in cui Praz, per un momento, fa pensare a Walter Benjamin, un Benjamin che per ipotesi sia del tutto immune da meditazioni marxiste e messianiche. Una metafisica degli oggetti è infatti proiettata dall’umore melanconico che accomuna Praz e Benjamin, dato che gli oggetti, sotto lo sguardo del collezionista, ci parlano silenziosamente del preciso momento e ambiente in cui furono creati; ma ne parlano fuori del tempo, in una temporalità sospesa, in quella specie di paradossale, ipnotica “eternità storica” di fronte alla quale gli esseri umani appaiono e si sentono malinconicamente effimeri.

 

In cinque capitoli intarsiati di citazioni e congetture, Manica esplora il labirintico, stratificato mondo di Praz, con Alberto Savinio uno degli scrittori più misteriosi, manieristici e colti della letteratura del Novecento. Un critico per il quale la critica letteraria è solo uno degli ingredienti e strumenti per esplorare il mondo delle forme nelle quali gli esseri umani si chiudono per vivere e difendersi dalla vita.

Praz stesso confessa di avere nel suo guardaroba culturale più manie che idee, più curiosità che metodo. Il suo autore elettivo, il romantico sette-ottocentesco Charles Lamb, diventò presto per lui un maestro e il modello ispiratore della sua saggistica. Tra umorismo e lirismo, Lamb viene descritto da Praz con queste parole: “Lo stile ha la capricciosità del carattere dell’autore: talora solenne e togato, grave di gemme e d’ori massicci di gusto secentesco (…) o nobilmente e soavemente sentenzioso (…) talora succinto e senza pretese, quasiché, spogliandosi del broccato pesante, indossasse l’abito nero e dimesso dell’impiegato…”.

Righe che sono un buon esempio dello stile di Praz e quasi, almeno allusivamente, un veloce autoritratto pieno di sapore e di colore, che trapassa dal figurativo al letterario e al sociopsicologico. Ricco di inaspettati fasti eruditi, di capricciose ricercatezze, lo stile di Praz è anche, fondamentalmente, “succinto e senza pretese”, aristocratico e borghese nello stesso tempo. Uno stile per il quale la Storia, quella europea e soprattutto italiana, è un passato senza futuro.

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