Le suffragette e quelle lotte troppo complesse per stare in un hashtag

In Inghilterra i festeggiamenti per il centenario del diritto di voto alle donne riaprono il dibattito tra chi vuole perdonarle per i loro crimini e chi pensa che sono state straordinarie proprio perché bombarole, violente, fuorilegge e determinate

Cristina Marconi

Londra. Con il centenario del diritto di voto per le donne britanniche - certe donne, le possidenti o laureate di almeno trent'anni - che cade in questo 2018 di soluzioni radicali, era inevitabile che i sacrosanti festeggiamenti fossero almeno in parte inquinati dal dibattito bipolare tra chi vuole che le suffragette vengano perdonate per i loro crimini - bombe e incendi, mica robetta - e chi pensa che no, che la storia non vada epurata e che quelle donne sono state straordinarie proprio perché bombarole, violente, fuorilegge e determinate.

 

Per la ministra dell'Interno Amber Rudd ci sono degli ostacoli tecnici sulla via del perdono, è complicato, non è come Alan Turing che aveva come unica colpa quella di essere omosessuale, qui ci sono danni e feriti. E menomale che almeno questo santino a due dimensioni non si può fare, secondo una come Caroline Criado Perez, femminista fattiva che ha ottenuto che Jane Austen finisse sulle banconote da 10 sterline: “Non erano vittime inconsapevoli. Hanno usato deliberatamente la violenza per difendere il loro punto di vista”.

 

 

E in quanto tali vanno rispettate. La May ha traccheggiato e il laburista Jeremy Corbyn ha fatto presente che se fosse lui a Downing Street le suffragette sarebbero state già perdonate.

 

Non erano vittime e non erano iconette da social network, le suffragette: rileggendone la storia c'è più di un elemento tale da far accapponare la pelle agli snowflakes incapaci di gestire le contraddizioni del mondo contemporaneo, figurarsi del passato. La leggendaria Emmeline Pankhurst si è candidata sì a un certo punto, ma con i conservatori, nel 1927, un anno prima della sua morte, e ha rotto per sempre con la figlia antiviolenta spedita in Australia (poi Adela, pacifista convinta a differenza della madre, si è messa a simpatizzare con Hitler salvo poi diventare socialista: se avesse avuto Twitter l'avrebbero bannata tutti a metà del suo tortuoso percorso).

 

Inoltre come notato da un'altra voce del femminismo britannico, Laurie Penny, più in linea con i temi dei ventenni e tendente al genere “più puro che ti epura”, le donne di estrazione sociale inferiore e nere sono state discriminate dal movimento. Oltre al fatto che il 6 febbraio del 1918 ottennero il diritto di voto tutti gli uomini e solo certe donne e che per il suffragio universale nel Regno Unito bisognerà aspettare il 1928: anche questo è stato notato da chi vorrebbe una storia recente più a misura di hashtag.

 

 

Della loro storia viene spesso offerta una versione ingentilita, che renda più accettabili e più asettici loro e il mondo nel quale si muovevano. Poi certo, c'è il filmato di Emily Davison che entra in pista alla corsa di cavalli di Epsom e viene travolta. Era il 1913, lei morì quattro giorni dopo, il suo martirio fu uno dei momenti più importanti verso il diritto di voto, le zampe del cavallo del re che le passò addosso ancora risuonano mentre nelle aziende si lotta per la parità di salario e una arrivatissima come Laura Kuenssberg, editor politico della BBC, si chiede come mai sia spesso l'unica donna nella stanza.

La Kuenssberg ha scritto un bel pezzo sulle donne cresciute tra gli slogan di Mrs Banks, la mamma suffragetta di Mary Poppins, e le spalline di Sue Ellen e costrette a riconoscere che, a quarant'anni, resta molto da fare nella strada verso la parità, anche a livello di rappresentanza politica. Nicola Sturgeon ha promesso un fondo da 500mila sterline per aiutare le donne ad essere più coinvolte nella politica, magari per farle somigliare tutte a lei e alla conservatrice Ruth Davidson, una più agguerrita dell'altra.

 

E poi oggi ha parlato quella che dovrebbe essere la più femminista di tutte - seconda premier nella storia del paese, fiera sostenitrice delle donne in politica e indimenticabile indossatrice di una una t-shirt storica, e che invece si ritrova a festeggiare l'anniversario da una posizione di debolezza profonda: la premier Theresa May, che da Manchester, luogo di nascita della Pankhurst, ha fatto un lungo discorso per parlare del “inasprimento” del dibattito pubblico e ha chiesto più regole per garantire un “vero dibattito pubblico pluralista per il futuro”, riferendosi soprattutto agli abusi online che colpiscono le donne che vogliono fare politica e che vengono dissuase dalla violenza degli attacchi. Sacrosanto, eh, per tutti, uomini donne e bambini. Peccato averlo sollevato proprio nell'anniversario della vittoria del femminismo arrembante di Pankhurst e sorelle, che non si facevano intimidire da niente.

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