Turisti a Venezia (foto LaPresse)

Io odio il turista

Antonio Gurrado

Invade, banalizza. J’accuse contro una cruciale ma insopportabile risorsa nazionale

Indovinello: chi è il trombone passatista che ha detto quanto segue? “Non si dovrebbe mai viaggiare per turismo, perché è il contrario esatto del viaggio. Bisogna sempre viaggiare per gli antichi motivi: per lavoro, per conquistare spazi, per pellegrinaggio. Il pellegrinaggio è il più nobile dei motivi ma anche il mercanteggiare è un motivo degno. Ma il turismo no, il turismo lo concepisco solo in gita scolastica”. Risposta sbagliata. Sono parole di Jovanotti che già nel 2010 (in “Viva tutto!”, add editore) esprimeva ostilità verso le masse di turisti; è significativo che lo facesse un pensatore pop e mainstream, precursore dell’accanimento che oggi appare dominante su vasta scala. Tutti odiano i turisti. A Barcellona gli indigeni si sono spinti fino ad assalire autobus di comitive e a forare le ruote delle bici che il comune mette a disposizione di chi vuole girare liberamente per la città. Altrettanto emblematico il caso di Venezia, di cui hanno parlato con accuratezza su queste pagine Sofia Silva e Alberto Brambilla. L’allarme del New York Times, secondo cui la città rischia di diventare una Disneyland lagunare, tanto quanto l’argomentazione di Jovanotti è un pensiero mainstream spacciato per atteggiamento snob. Come si spiega il paradosso che tutti sentano di appartenere a una élite in diritto di deprecare il turismo aperto a tutti? Non è una specie di protesta contro sé stessi?

 

Nello stesso 2010 di “Viva tutto!”, benché mi senta di escludere mutuo influsso, in “Constructing cultural tourism” i ricercatori britannici Keith Hanley e John K. Walton hanno individuato il padre del turismo culturale di massa in John Ruskin, che a metà Ottocento pubblicò i tre ponderosi volumi di “The stones of Venice”, seguiti da “Mornings in Florence”. Ruskin però era un esteta oltre che un raffinato connoisseur. Come si è arrivati da lui all’ultima copertina di Panorama, con un enorme giapponese che sovrasta il Colosseo in bermuda, camicia a quadrettini, cappello piscatorio e (forse desueta) macchina fotografica? Come si è arrivati a riferire ai turisti il titolo “Visitors”, come il telefilm anni Ottanta sull’invasione di rettili che assumono sembianze umane onde ingannare gli abitanti della Terra convincendoli che sono venuti in pace salvo poi divorarli? C’è un filo che da Ruskin, attraverso Walter Pater, arriva fino a Oscar Wilde ovvero all’esteta eccentrico per antonomasia, cantore della propria irripetibilità. Li accomunava la teoria che la pietra – il quadro, la decorazione – fosse non più testimonianza del Passato ma dell’Arte, e che questi due campi dall’iniziale maiuscola non comunicassero. Andare in Italia o in Grecia a guardare panorami od opere d’arte non aveva valore documentaristico bensì emotivo. Era dunque possibile, per mezzo dell’osservazione diretta, provare l’identica sensazione che un artista aveva fatto provare ai suoi contemporanei per mezzo dello stesso prodotto che aveva attraversato i secoli più o meno intatto.

 

Il turista globale non accetta più la divisione del mondo in quotidiano e straordinario, e mira a esportare il suo stile di vita

Adesso l’eccentricità è digerita su vasta scala; brandelli di estetismo sono reperibili in qualsiasi vita individuale, poiché è sufficiente un profilo Instagram così così. Si sono massificate la volontà e la possibilità di replicare l’esperienza esclusiva dell’osservazione. Così come lo intendevano Ruskin e i suoi epigoni, nei modi e negli intenti il turismo era più simile al pellegrinaggio. Esemplare al riguardo è il declino del cammino di Santiago, svuotato di spiritualità e riempito di ateismo cialtrone, che nel suo tramutarsi in passeggiata ricreativo-agonistica può essere considerato l’epitome della decadenza del turismo di matrice ruskiniana: un turismo ridotto a mera ritualità svincolata dal movente da cui aveva tratto principio. Non a caso il pellegrinaggio viene svilito dall’Organizzazione Mondiale del Turismo che oggi lo derubrica fra le diverse forme di villeggiatura, al pari del visitare parenti o intraprendere un ciclo termale.

 

Il motivo per cui le masse si riversano a Venezia, magari a vomitare nei canali o a copulare nelle calli, è l’inconsapevole tentativo di emulare Ruskin; ma proprio per questo loro riversarsi in massa i turisti si precludono l’un l’altro la possibilità di provare quella sensazione unica benché cristallizzata del tempo rilevata da Ruskin dinanzi alle pietre di Venezia. Le condizioni economiche mettono a disposizione di tutti ciò che ha valore solo come appannaggio di una minoranza. Sarà per questa privazione che tutti odiano i turisti ora che tutti possono essere turisti? “Da quando esiste il turismo, il turista non ha mai goduto di buona stampa”, spiega Corrado Del Bò, autore di “Etica del turismo. Responsabilità, sostenibilità, equità” (Carocci), contattato dal Foglio mentre si trova in coda in autostrada nei giorni da bollino nero sotto il solleone a quaranta gradi. “Il turista”, spiega, “invade, mercifica, banalizza, corrompe: lo si dice oggi ma lo si diceva anche un secolo fa, agli albori del fenomeno, quando l’élite dei pochi che potevano viaggiare iniziava a vedere scossi i propri privilegi. In effetti il turismo non è che la democratizzazione del viaggio, con gli svantaggi che comporta, tra cui quel che alcune città iniziano a lamentare: di essere pensate per i turisti e non per gli abitanti. Del resto non possiamo pensare di prendercela coi turisti ma diventare tolleranti quando i turisti siamo noi”.

 

Il volume di Del Bò contiene anche un’utile ricognizione storica su come distinguere il turista dal viaggiatore, che parte ovviamente dal Grand Tour dei figli maschi della nobiltà inglese, caratteristico di tutta l’età moderna ma con un significativo distinguo: nel Seicento durava anni, nell’Ottocento si era ridotto a pochi mesi. Il turismo moderno – cosiddetto “mordi e fuggi” – è un coerente sviluppo di questa tendenza, alla quale si è affiancata la maggiore disponibilità di risorse che ha portato al turismo di massa. Esso però oggi è superato, in quanto siamo piuttosto nell’epoca del turismo globale. Nel primo caso, tipicamente novecentesco, tutti avevano la possibilità di spingersi a vedere ciò che un tempo era meta esclusiva della classe alta. Nel secondo caso, invece, tutto è stato già visto da tutti e il turismo è mera coazione a ripetere; non più inseguimento dell’emozione artistica di Ruskin bensì della sua riproducibilità tecnica potenzialmente infinita.

 

"Bisogna sempre viaggiare per gli antichi motivi: per lavoro, per conquistare spazi, per il nobile pellegrinaggio" (Jovanotti)

Un’altra ragione di decadenza del turismo può essere individuata nel motivo stesso per cui è stato inventato. Il colpevole è Thomas Cook, ideatore della prima agenzia viaggi, che verso la fine dell’Ottocento sfruttò a scopo edificante la concessione del giorno di riposo settimanale ai lavoratori. Piuttosto che farli ubriacare tutta la domenica in una bettola, meglio una gita. Con Cook il turismo diventa l’investimento volto a non rendere dannoso il tempo libero e, in prospettiva, a ottimizzarlo. Il viaggio assume scopo educativo se non a tratti punitivo, così che le tappe forzate del turismo appaiano un rito di espiazione collettiva. Il turista accetta uno stato di minorità: nella scelta della destinazione, nell’organizzazione delle attività, nello scopo a cui viaggiare. Deve visitare determinati musei, deve fotografare determinati istanti, deve rincasare con determinati souvenir a mo’ di bottino di guerra. Deve trovare bello ciò che non apprezza o che non capisce. Non può permettersi la reazione di Lord Balfour quando, portato controvoglia a visitare New York, alla notizia che il grattacielo Woolworth fosse alto cinquantotto piani e completamente a prova di incendio, rispose: “Che peccato”.

 

Vent’anni fa il sociologo Jean-Didier Urbain, in “L’idiot du voyage”, aveva coniato il termine “turistofobia”. Gli episodi di Venezia e di Barcellona dimostrano che oggi siamo alla turistofobia di massa, inevitabile reazione al turismo globale. Tradizionalmente infatti il turista veniva identificato come chi svolgeva in un luogo estraneo un’attività che non svolgeva nel quotidiano: nell’epoca del turismo di massa, chi andava in villeggiatura andava a sfogare un’attività che preclusioni e abitudini gli avevano compresso nell’animo per tutto l’anno. Grazie all’aumento del tempo libero di qualità e delle risorse disponibili nell’arco lavorativo, invece, il turista globale non accetta più la divisione del mondo in quotidiano e straordinario. Ritenendo invece che il suo quotidiano meriti sempre l’etichetta di straordinario, mira a esportare il proprio modo di vivere in qualsiasi luogo raggiunto, ed essendo ormai scevro da vincoli e pudori lo fa in maniera rutilante e aggressiva. Il paradosso è che chi protesta contro i turisti lo fa perché riconosce in essi non più un comportamento eccezionale, festivo, bensì l’esaltazione all’ennesima potenza dei comportamenti feriali che caratterizzano anche lui. Il cittadino protesta contro il turista perché sente minacciata la distinzione consolatoria fra sé e l’altro; è la rabbia di Calibano che riconosce il proprio viso in uno specchio.

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