Enzo Bettiza era un combattente come non ne esistono più
Maestro coraggioso, anticomunista e giornalista per caso. Ritratto di un uomo sprezzante verso ogni forma di correttezza politica, da quando non era di moda, che salvava sempre o quasi sempre le buone maniere
Un maestro dovrebbe aspettare un momento prima di morire, anche a novant’anni. Enzo Bettiza, il barone Bettiza come era chiamato dai suoi amici, ha avuto un moto di impazienza o, come diceva il suo caro amico Alberto Ronchey, si è distratto. E Jas Gawronski, che lo ha visto nel letto di morte, annota che era elegante come sempre, quasi sorridente, molto bello come spesso sono gli impazienti e i distratti. Maestro era Bettiza, notevole scrittore, pittore a tempo perso, pater familias di una combriccola allargata, una specie di accademia domestica luterana, capace con Laura Laurenzi, da lui infinitamente amata, e con i suoi figli e amici e discepoli di bellissimi discorsi a tavola, cibi grassi, succulenti, vini spessi, come se fosse sopravvissuta la dimora spalatina di “Esilio”, la sua autobiografia prodigiosa e vitale, in cui c’erano in cucina entrate diverse per le carni e per i pesci.
Fu innanzitutto maestro in questo, che si poteva e si doveva, essendo stati comunisti, farsi anticomunisti senza complessi, e pazienza se il tuo racconto sulla campagna elettorale gareggiava con quello di Italo Calvino da Einaudi, pazienza se Gallimard aveva pubblicato di slancio il tuo “Il fantasma di Trieste” a Parigi, pazienza se il tuo stile di vita era quello di un conservatore liberale e riformatore, magari un uomo di sinistra in disguise, un borghese di incerta etnia, un mitteleuropeo prima che la Mitteleuropa fosse scoperta dalle servette della filosofia e della letteratura e dal generico consumo culturale, bisognava imbrancarsi con Montanelli contro il compianto Piero Ottone e la Giulia Maria Crespi, imbrancarsi con i piccoli liberali italiani e con Craxi, sopra tutto con Craxi, il cinghialone, il tedesco, l’anticomunista di rango della storia italiana, che l’ha pagata cara. Era un uomo fatalmente coraggioso, e un giornalista assoluto ma per caso, per curiosità politica, questo romanziere manniano del lunghissimo Novecento, con le sue duemila pagine sui “Fantasmi di Mosca” di cui era fiero, orgoglioso, con il suo “Mistero di Lenin” che forse era dottrinalmente debole, e chissenefrega, ma pura pittura, gli occhi mongoli, la cattiveria storica del bolscevismo che lui aveva potuto apprezzare in lunghi anni di corrispondenza dalla frontiera di Vienna e poi da Praga e da Mosca.
Bettiza era un combattente, razza praticamente estinta, un uomo sprezzante verso ogni forma di correttezza politica, da quando non era di moda, e salvando sempre o quasi sempre le buone maniere. Alla fine era entrato in una specie di lento e aureo mutismo, almeno nelle relazioni sociali, ma per otto decenni, dai primi vagiti “morlacchi” (e il Morlacco è il soprannome del suo amato Pietro, fratello di Sofia e di Gregorio), i suoi giudizi erano fulmini, sprazzi di elettricità storica e politica, e la sua immensa vanità uno strumento affinato per tenere a distanza chi non ha alcuna ragione per vantarsi. Mangiava come una mannequin, come diceva spiritosa Laura, ma amava i “sapori pericolosi” e considerava l’insalata “una perdita di tempo”. Aveva qualcosa di Herzog, Moses Herzog, l’eroe di Saul Bellow, nel suo appetito divorante per le donne che, appunto, “mangiano insalata e bevono sangue” e nel suo saper mescolare letteratura, filosofia, arte e solo infine giornalismo, che era quello che gli dava da vivere sempre al di sopra dei suoi mezzi, come un vero barone mediterraneo.
Antifascismo per definizione