Trevor Phillips (foto Heinrich-Böll-Stiftung via Flickr)

Così il politicamente corretto diventa benzina per il populismo

Stefano Basilico

Un documentario del giornalista Trevor Phillips sulle follie del politically correct in un'epoca in cui la libertà di parola è ormai una chimera

Il politically correct è diventato folle? Se lo è chiesto Trevor Phillips, giornalista nero e laburista, in un documentario su Channel 4. Il tema è rovente, nella nazione in cui lo Speaker’s Corner di Hyde Park è stato soppiantato dai “safe spaces”. Come scritto da Melanie Phillips, altra emarginata dalla supremazia culturale liberal, l’identità nazionale ora confusa col nazionalismo xenofobo è stata il collante della democrazia e dei valori liberali. Ora l’occidente bianco-giudaico-cristiano è la pietra dello scandalo, messo in castigo da ideologie anti-capitaliste, femministe, multiculturaliste e relativiste, sostiene. Se a dirlo sono due esponenti della cultura di sinistra, forse il problema sussiste.

 

Il percorso di Trevor Phillips inizia a Birmingham, nel parcheggio di un’area industriale che ospita un comizio di Pegida. Il giornalista si domanda se già il confinare certe idee, per quanto discutibili, nella periferia della periferia non sia già una forma di discriminazione che, mettendo un discorso ai margini, al tempo stesso ne rafforza il potere evocativo.

 

 

Come avvenuto a Barking & Dagenham, roccaforte UKIP, dove Phillips incontra un sindacalista e un trans che hanno votato Leave. “Si è ancora autorizzati a dire tutto” raccontano “il problema sono le conseguenze: dire che il matrimonio è tra uomo e donna può metterti nei guai”. Sono rischiose pure le barzellette: “un inglese, un irlandese e uno scozzese” sono ritenute categorizzazioni offensive. Nelle interviste alla gente comune si parla di tutto, sesso, religione, razza, politica. “Termini che 20 anni fa non erano offensivi per la comunità gay ora lo sono” racconta qualcuno. Farage, intervistato nel corso del programma, sostiene che “il problema non sono i politici convenzionali, ma le convenzioni della politica.” Le stesse che vorrebbero bandire un pilastro del femminismo come Germaine Greer dall’Università di Cardiff perché non ritiene i trans delle donne. Negli atenei, il grembo della cultura, si gioca la partita. In un “esperimento sociale” effettuato con alcuni studenti, i costumi utilizzati nelle serate studentesche per goliardia, dal sombrero al vestirsi da donna, da Pocahontas al tingersi il viso di nero, sono classificati come offensivi e proibiti. Il confine è labile, tanto da portare Phillips a chiedersi se sia lo stesso, “se si possa”, per i bianchi ascoltare brani rap e poesie contenenti la “N word”.

 

La libertà di parola, nell’epoca in cui un tweet può scatenare minacce di morte, di stupro o licenziamenti, è ormai una chimera.

Eppure come rileva lo stesso Phillips, “bandire parole e immagini può farci sentire migliori, ma occorre ripensare la politica dell’identità, che confonde la forma con la sostanza e imparare a convivere con l’offensivo”. Istituzioni, gruppi di pressione, intellettuali ed accademici stanno spingendo sempre più in alto l’asticella della sensibilità in una “dittatura della virtù”, lontana dal sentire comune dell’opinione pubblica e forse da quanto necessario alle minoranze per sentirsi rispettate, vanificandone gli sforzi. Le élites arroccate nelle torri d’avorio degli atenei e delle redazioni rischiano di rendere ridicole, portandole oltre, le legittime battaglie per l’uguaglianza di chi viene quotidianamente discriminato. Ci sono due mondi, sostiene Farage, uno interno e uno esterno all’M25, la tangenziale di Londra. Oltre la cortina d’asfalto, un universo che sente di non potere più dire nulla senza essere messo al muro e si rifugia nel voto di protesta, con il pol corr che diventa benzina ad infiammare il fuoco del populismo.

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