Il dito nella diga

Maurizio Crippa

Quell’immenso muro protettivo è diventato la metafora perfetta delle nostre paure. “Fare diga” si può?

Di statue del bambino che tiene infilato il dito tutta la notte nel buco che si è fatto strada nella diga, affinché il terrapieno non esploda da questa parte, portandosi dietro tutto il mare e il fango del mondo sopra le case del villaggio, è piena l’Olanda. Ogni volta che ci si avvicina al limitare di un polder, il limite della vita. Il nome del bambino leggendario varia un po’ nelle grafie e per toponomastica, di solito è Hans di Haarlem, a volte è Hansje, più raro, forse un cattivo traduttore, Hendrick. Le statue sono quasi sempre di bronzo o pietra grigia, la sabbia si sfarinerebbe a contatto con l’acqua, ma a Madurodam ce n’è una cattelanesca e postmoderna, a dimensione naturale, arrampicata sulla scarpata erbosa per tappare l’acqua che zampilla. L’invenzione dell’eroe d’Olanda è leggendaria, ma l’invenzione del suo dito idraulico e ingegneristico è un’immagine dell’etica e della filosofia. Volendo, dell’etica protestante – le prime leggende affondano all’epoca delle grandi guerre europee – e dell’eroismo civile, più tardi etica weberiana del lavoro.

 

Volendo, è un po’ il contrario riformato della leggenda del bambino di sant’Agostino, che voleva svuotare il mare con il secchiello. Questa era impossibilità logica e teologica, fatalismo naturale. Un dito che toppa la falla della diga è invece possibilità della buona volontà e dell’impegno morale, scommessa sull’ottimismo del fare, del resistere, del mondo da cambiare. Da un po’ di tempo – o da molto tempo, nel paese del Vajont – la diga è diventata la figura consueta del nostro spavento. L’immagine metaforica dei nostri peggiori incubi. Ieri gli ingegneri statunitensi che collaborano alla manutenzione della diga di Mosul sono stati richiamati in patria dall’Iraq per correre in California, al capezzale della diga di Oroville, ai piedi della Sierra Nevada, dove le piogge gonfie di stagione e i danni a un canale di scarico (il buco nella diga) minacciano di causare un’inondazione biblica e duecentomila persone sono state già evacuate.

 

Le immagini spettacolari prese dall’alto e gli appelli del Servizio meteorologico nazionale, “non è un’esercitazione. Ripetiamo: non è un’esercitazione”, come nei disaster film, stanno appagando la fame di spavento mediatico del mondo. Chissà che ne sarà nel frattempo delle paure degli abitanti della valle di Ninive, se mai il cedimento dell’immensa diga sul Tigri dovesse annunciarsi, e spazzare via con sé un intero disastro umano, storico e antropologico, persino geopolitico. Il lago di Campotosto in Abruzzo non tracimerà, non ci sarà, così pare, “l’effetto Vajont” predetto con spavento persino dai tecnici della Protezione civile. Ma l’immagine è quella, e non c’è chi salga su verso Cortina che non alzi lo sguardo in alto a destra, nella maledetta valle stretta. La diga non è più sempre progresso, è anche colpa. Obama ha commemorato le dighe che avevano tracimato a New Orleans: “Quello che era cominciato come un disastro naturale si è trasformato in un disastro provocato dall’uomo”. Forse qualcuno si ricorda che la parola “tracimazione” (“superamento della cresta di un argine o di una diga da parte dell’acqua che ne è contenuta”) entrò nel lessico comune degli italiani nel 1987, quando una gigantesca frana formò una diga naturale in cima alla Valtellina, e l’Adda divenne un lago scuro, che minacciava, appunto, di tracimare giù, su uomini e case.

 

L’eco del Vajont, per noi italiani. E l’immagine della diga come minaccia o come salvezza. Oggi la parola diga è la metafora inconscia, perciò perfetta, dei nostri terrori rispetto a ciò che di sconosciuto ci può piombare addosso, travolgerci. Tracimare è ormai un termine tecnico, da inviati di sventura del telegiornale, o diluito nell’uso quotidiano quando una schiuma di birra si sversa dal bicchiere. Invece “fare diga”, costruire dighe, è diventata moneta del linguaggio comune, anche politico. Bisogna far diga contro il populismo, serve una diga contro l’immigrazione, servirebbe un diga al linguaggio violento che rotola sempre più in basso. L’euro sarà una diga contro la disoccupazione? E quando non ci sarà più la diga monetaria di Draghi? Persino nel calcio non si gioca più in difesa, ci sono giocatori incaricati di “fare diga” a centrocampo, di fermare gli avversari come fossero i barbari. Ma forse nel calcio ci credono ancora, noi forse un po’ meno, all’ingegneria idraulica del nostro dito nella diga, o nella piaga.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"