Una silent disco, in cui tutti ballano ascoltando musica dalle cuffie

Come sfatare il mito dei ragazzi zombie con gli auricolari

Eugenio Cau
Per colpa delle cuffie, la musica non è più quella di una volta. Nessuno la ascolta più in compagnia, è diventata un fenomeno autistico e isolato, simbolo dell’apatica generazione dei millennial. Ma le cose non stanno così, dice la neuroscienza

“Sdraiati”, viziati e snombie. I giovani, i millennial o comunque li si voglia chiamare sono visti dai più anziani come creature dalle strane devianze sociali, legati più al loro smartphone che agli amici, incollati allo schermo al punto da camminare per strada ricurvi, gli occhi fissi sul device, con un’andatura da morti viventi che ha fatto coniare il termine snombie. Complemento perfetto dello snombie sono le cuffiette. Infilate dentro le orecchie, o appoggiate ai lati della faccia con gli enormi padiglioni auricolari delle cuffie da dj, sono il simbolo dell’apatia e dell’isolamento sociale del millennial. Sono passati i tempi in cui la musica era fenomeno di condivisione e socialità, i tempi dei concerti oceanici e della musica da camera da ascoltare in compagnia, dalle musicassette registrate dalla radio da risentire con gli amici. Le maledette cuffiette hanno trasformato la musica in un’esperienza privata, autistica, e i fruitori di musica si sono trasformati di conseguenza. Sono diventati zombie, appunto.

 

L’attore Marco Paolini, in uno dei suoi celebri monologhi, ha detto che perfino l’attivismo politico e l’impegno civile sono stati uccisi dall’invenzione del walkman. I ragazzi, che prima camminavano per strada, vedevano i problemi e si chiedevano come risolverli, dopo il walkman hanno iniziato ad andare curvi e chiusi, la musica che avevano nelle orecchie era così bella che non gli importava nient’altro. Preoccupati per l’astensione giovanile? Incolpate le cuffiette.

 

L’epifenomeno perfetto di questa tendenza sono le cosiddette “silent disco”, discoteche in cui tutti hanno delle cuffie alle orecchie e ballano ascoltando la propria musica, mentre nella sala c’è il silenzio completo. Esperienza surreale e folle che dice tutto: cuffie, cuffiette e auricolari hanno rovinato il modo in cui si ascolta la musica, fino a renderci ridicoli da vedere come i ragazzi che vanno alle silent disco.

 

Daniel A. Gross, giornalista di Nautilus, raffinata rivista culturale, ha cercato di indagare se davvero le cuffie hanno rovinato l’esperienza sociale della musica. Le tirate contro gli smombie isolati nelle loro playlist sono giustificate? Secondo Gross e secondo la neuroscienza sembra di no. Bisogna considerare innanzitutto il dato storico. Le lamentele sul fatto che i dispositivi per la musica privano del vero piacere sociale dell’ascolto musicale risalgono niente meno che al Diciannovesimo secolo e al fonografo di Thomas Edison. I critici dissero che l’invenzione avrebbe danneggiato il tessuto sociale perché si sarebbe iniziata ad ascoltare la musica in casa propria anziché tutti insieme, socializzando, nelle sale da concerto e da ballo. Da quel momento, a ogni nuova invenzione sono tornate le stesse critiche. Quello che adesso si dice degli iPod e degli iPhone lo si diceva senza differenze dei primi, giganteschi walkman negli anni Ottanta.

 

Il discorso si fa più tecnico quando Gross scende nel campo della neuroscienza. La musica è da sempre un fenomeno sociale. Dalla ninna nanna di una madre al canto di guerra degli eserciti fino ai concerti rock, la musica serve a comunicare, esprimere sentimenti, imparare. Il fatto centrale, però, è che gli studi mostrano che dal punto di vista del nostro cervello che noi ascoltiamo in mezzo a una folla oceanica o chiusi in una stanza con le cuffie, la qualità intrinsecamente sociale della musica non cambia. C’entrano i neuroni specchio, cioè quei neuroni nel nostro cervello che ci consentono di comprendere le azioni altrui ed imitarle. Secondo gli studi, tutte le volte che ascoltiamo musica, dal vivo o con le cuffie indosso, i neuroni specchio si attivano e percepiscono un’intenzione esterna, come se qualcuno stesse cantando o suonando per noi, interagendo con noi. Scrive Gross: “Nel momento in cui senti quella sequenza di suoni astratti organizzati gerarchicamente che chiamiamo musica, una moltitudine di associazioni si attiva nel tuo cervello. Questo può includere memorie, emozioni e anche le impressioni del movimento di suonare uno strumento. Tutti insieme possono implicare la sensazione di un’azione umana. Questa sensazione è ciò che rende la musica differente dagli altri tipi di suoni”. “Il cervello interpreta la struttura della musica come un atto intenzionale proveniente da un agente umano”, dice a Gross Istvan Molnar-Szakacs, neuroscienziato dell’Università della California. “Questo, combinato con tutte le associazioni evocate dalla musica, è ciò che rende l’esperienza sociale”.

 

Ci sono variazioni di opinioni tra gli scienziati, ma più o meno questo è quello che avviene nel nostro cervello: con o senza cuffiette, l’esperienza della musica non cambia. Ma al di fuori? La musica è diventata un’esperienza sociale e di condivisione in modi nuovi e diversi. Attraverso il digitale la musica è scambiata, amata e commentata, e non è un’esperienza meno sociale di vent’anni fa. Gli smombie impressionano i passanti, le cuffie sono il simbolo dell’apatia generazionale. Ma sotto le cuffie non siamo più isolati di prima.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.