“A diciotto anni me ne andai di casa, ero la disperazione dei miei genitori. Lo ero anche a scuola, ero una grandissima rompicoglioni” 

A tu per tu

Telecamera con vista

Salvatore Merlo

Chi è Simona Ercolani, la ragazza che ha iniziato arraffando immagini all’ultimo congresso del Pci e poi s’è inventata un modo di fare tivù di racconto e di ascolti.

La sua più grande abilità è forse raccontare storie. E di questa qualità ha fatto una professione, non priva di soddisfazioni intellettuali, e anche materiali. “A un certo punto inquadrai questa scena”, dice. “C’erano Occhetto, D’Alema e Veltroni che parlavano a mezza bocca sotto il palco del congresso. E Occhetto si faceva sempre più scuro in volto, e D’Alema e Veltroni si facevano sempre più concitati, seri, contriti. Tirava una strana aria. Ma ecco che Occhetto li lascia, li molla lì, avanza a testa bassa verso di me, verso la telecamerina: i tratti induriti, gli occhi vacui, persi. Più lui avanza, più io rinculo, finché d’improvviso non si infila nel bar affollato di delegati, tutti con il loro bravo cartellino al collo. Ordina un whiskey e lo manda giù, d’un fiato”. Rimini, 1991. Il Pci diventava Pds e Achille Occhetto, padre della svolta, usciva clamorosamente sconfitto dalla rielezione a segretario. “Io non lo sapevo, non sapevo niente, avevo vent’anni, ero una pischella. Ma Veltroni e D’Alema, in quei secondi che avevo registrato, avevano appena annunciato a Occhetto che avrebbe perso la segreteria del Partito comunista. Da lì a dieci minuti, in quella sala, così calma fino a un attimo prima, sarebbe scoppiata una tragedia, uno psicodramma collettivo”.
Ma è anche l’inizio di una storia professionale, quella di Simona Ercolani, autrice e produttrice televisiva tra le più note d’Italia, la signora che ha inventato “Sfide”, il programma della Rai, l’elegia eroica nel racconto sportivo. Quelle immagini di sfacelo avrebbero fatto la sua fortuna. “Mi ricordo che a Rimini c’era Filippo Ceccarelli, allora scriveva per la Stampa, era la prima firma politica. ‘Ma che ci fai qui con ’sta telecamera?’. Mi aveva notata perché ero una specie di bambina che girava su e giù per i saloni, i corridoi, dalla mattina alla sera, non spegnevo mai la telecamerina, entravo dovunque, e nessuno faceva caso né a me né a quell’aggeggino Sony, che così piccolo com’era quasi scompariva nelle mie mani, in anni in cui le telecamere mediamente erano grosse come una cassetta per gli attrezzi”.

 

E insomma c’era Ceccarelli. “Sì, che scrisse un articolo dove mi citava dall’inizio alla fine: era il crepuscolo del Pci visto dagli occhi di una giovane militante. Da me. Il giorno dopo tutti conoscevano il mio nome, e sapevano quello che avevo ripreso. Così capita che la mattina dopo il congresso, ero a lavoro, in quel periodo facevo la schiava in una sottospecie di casa di produzione, e ricevo una telefonata inattesa. Squilla il telefono. ‘E’ Giuliano Ferrara’, mi dicono. ‘E che cazzo vuole da me Ferrara?’. Voleva offrirmi dieci milioni di lire per le immagini che avevo ripreso: le avrebbe mandate in onda all’‘Istruttoria’, il programma che conduceva per la Fininvest. Andai pure a incontrarlo. Mi accompagnava ‘Rondolo’, Fabrizio Rondolino, che oggi è mio marito, ma allora era un cronista dell’Unità che mi batteva i pezzi. E Ferrara quel pomeriggio mi dice: ‘Voglio l’esclusiva del materiale’. E io pensavo, tra me, preoccupata: ‘Ma che diavolo ho girato?’. Gli dissi di no. Che non gli davo nulla. Ero comunista, forse un po’ tetragona, scema, non lo so, ma lui per noi era il nemico, con i tratti del traditore da melodramma. Era passato dal Pci al Psi. Ora mi viene da ridere a pensarci. Ma allora non potevo mica dargli quelle immagini che descrivevano lo sfacelo del mio partito e della classe dirigente. Non a lui. Ero una militante”.

 

E allora che facesti? “Telefonai al segretario della mia sezione, Giorgio Arlorio, che era anche sceneggiatore, e collaborava con ‘Chi l’ha Visto’. Gli raccontai tutto. Dopo un po’ mi richiamò dicendomi: ‘Tra un’ora vieni a Viale Mazzini 14. Ti aspetta Guglielmi’. Cazzo. Angelo Guglielmi! Che dirlo a una come me era come dire, all’incirca: Dio”. Era il direttore di Raitre, un compagno. “E insomma vado da Guglielmi. Entro nella stanza e c’erano Balassone, il vicedirettore, e tutti i capoccia della rete. E si mettono con me a guardare questo materiale che avevo girato. Ogni tanto annuivano, indicavano, facevano ‘uhm’, poi dicevano ‘ah’, poi mormoravano un ‘vedi, vedi’. E in quelle scene c’era qualsiasi cosa. C’era Chicco Testa che faceva la linguaccia, c’era Petruccioli che s’abbandonava a un trenino un po’ sbracato, c’era gente che sbadigliava, chi si metteva le dita nel naso, chi si grattava di qua e di là. Alla fine Guglielmi mi chiese di montare 17 minuti di video, e mi fece un contratto per 18 milioni di lire. Una bella cifra. ‘Appena hai fatto’, mi disse, ‘mettiti in contatto con Enrico Ghezzi per consegnargli la cassetta’. E così fatto il montaggio vado da Ghezzi, negli uffici della messa in onda. Lui, il papà di ‘Blob’, guarda il mio lavoro e comincia a fare, con l’aria del semiologo: ‘Belle queste panoramiche destra-sinistra. Sembra che tu voglia dire che la storia va al contrario’ (ma io in realtà avevo fatto quelle riprese al contrario solo perché sono mancina, o meglio ambidestra. Non volevo comunicare un cazzo, ovviamente). E poi c’erano anche un sacco di scene fuori fuoco, mezze sfocate… Ma Ghezzi: ‘Belle, bellissime queste scene sfocate. E’ l’incertezza del momento!’. Alla fine andò in onda alle 20, su Raitre, dentro ‘Schegge’. Tornai al mio lavoro di schiava, ma dopo tre mesi, per caso, reincontrai Ghezzi in un bar. ‘C’è Anna Amendola che ti vorrebbe vedere. Le tue immagini sono piaciute. Chiamala’. Anna Amendola faceva un programma che si chiamava ‘Storie vere’. Ci andai e…”.

 

E cominciò così una lunga carriera nella televisione, “pensata e realizzata”, costellata di soddisfazioni professionali, riconoscimenti, anche di denaro ovviamente, e pure potere, un’aura che adesso precede Simona Ercolani, ma che pure lei dissimula, occulta, con la sua aria di simpatico, inesauribile ciclone di parole, fantasie, motti di spirito, risolini che scoppiettano. La sua è un’aria da ragazzaccia, ma conosce tutti quelli che contano e tutti la conoscono, è padrona di quello che si chiama “ambiente”, il che significa porte aperte in ogni dove. “Verrebbe da dire che le relazioni sono tutto nel mio mestiere”, dice. “Ma non è vero. Quando ho cominciato non conoscevo nessuno. E questa idea che le relazioni servano diventa un alibi per coprire la mediocrità. Se non hai talento non ce la fai”. Sei molto amica di Lucio Presta, il boss degli agenti televisivi. “Ma che boss? E’ un agente. Punto. Fa un lavoro essenziale. Il problema in Italia, semmai, è che ne sono troppo pochi”. Vivono del talento altrui, sono sensali, mezzani. “Proteggono il talento, anche da se stesso talvolta”.

 

E a cinquantadue anni Simona Ercolani è disinvolta, possiede quell’intelligenza rapida, forse disordinata, quell’impazienza ilare ma tenace, quell’estroversione che se applicata all’obiettivo giusto può fare il successo di una persona, ma anche portarla a sbandare. “A diciotto anni me ne andai di casa, ero la disperazione dei miei genitori. Lo ero anche a scuola, ero una grandissima rompicoglioni. Sette in condotta. Fisso. Mi ero iscritta a Ragioneria, ma solo perché la scuola era lontanissima da casa, po passai al Classico, facendo un esame. A diciotto anni andai a vivere da sola al Trullo, periferia estrema di Roma. La mattina distribuivo volantini porta a porta, nelle cassette della posta. Ancora adesso conosco meglio la periferia che il centro della città. Poi la sera facevo la barista al ‘Folk Studio’, un locale famosissimo. Lì avevano esordito anche Venditti e De Gregori. Stavo al bancone, e se c’era bisogno andavo a prendere gli artisti all’aeroporto, li accompagnavo. Prendevo diecimila lire a serata, lavoravo dalle 18 alle 2 del mattino. Una notte ospitai a casa mia Susan Vega, la cantante americana, quella di ‘My name is Luka’. Al Trullo. Camera e cucina. Te lo immagini? Forse dormiva per terra”.

 

Tuo marito, Fabrizio Rondolino, è stato portavoce di Massimo D’Alema, a Palazzo Chigi, quando D’Alema era presidente del Consiglio. “Passammo un periodo in cui ci fecero a pezzi, ma sul serio, massacrati, quando uscì un suo romanzo che tutti definirono ‘pornografico’, solo perché c’era un po’ di sesso. E insomma D’Alema era a Palazzo Chigi quando uscì questo libro, e io invece facevo un programma che si chiamava ‘Passioni’. Un giorno mi chiama Giancarlo Perna, che conoscevo bene perché collaborava con me a questo programma, e mi propone di fare un’intervista per Panorama. ‘Dimmi la verità’, mi dice Perna, ‘sei tu la protagonista femminile, quella per cui il protagonista perde la brocca?’. E io, credendo di scherzare con un amico: ‘Eccerto che sono io’. E lui: ‘E le cassette pornografiche le guardate davvero, come nel romanzo?’. E io, cretina, con un’ironia che non mi dovevo consentire: ‘Ovvio’, gli dico, ‘abbiamo l’armadio pieno di cassette pornografiche. Non lo sai che mio marito è un gran porco?’. La verità è che stavo cazzeggiando con uno che credevo amico. Morale: Panorama uscì con una foto enorme di D’Alema con sopra questo titolo, le mie parole tra virgolette: ‘A me piace la pornografia’. Fabrizio si dovette dimettere. Dopo sei mesi c’era ancora mia suocera che parlava di quell’armadio con le videocassette. Andò persino sui tg. E tieni conto che le mie figlie andavano a scuola in quel periodo, figurati… i compagni di classe, le mamme… Guarda, sono ancora incazzata. Al papà di Fabrizio, un pomeriggio, si avvicinò un tipo, una specie di molestatore: ‘Lei è il padre del famoso pornografo?’. Un incubo”.

 

E questa donna, mamma di due figlie poco più che ventenni, è forse, soprattutto, “Sfide”, il programma della Rai che le ha dato successo di pubblico e di critica, la sublimazione della retorica emozionale nello sport. Ma lei è anche l’inventrice della “Fattoria”, della “Pupa e il secchione”, di “Sconosciuti”, della versione italiana di “16 anni incinta”, ed è poi stata autrice dei Sanremo con Morandi e con la Clerici, persino regista della campagna elettorale per le primarie di Pier Luigi Bersani. Ha scritto Aldo Grasso, sul Corriere della Sera: “La vera Ercolani qual è? Quella di ‘Sfide’ o quella de ‘La pupa e il secchione’? L’unica risposta irricevibile è anche la più scontata: l’Ercolani è tutt’e due, l’alto e il basso, il cuore alla Rai e il portamonete a Mediaset. No, bisogna stabilire in fretta quale delle due mente”. Risponde lei: “Grasso è il migliore, e ogni sua critica è stata uno stimolo, anche a correggersi. Ma non c’era niente di disdicevole nella ‘Pupa e il secchione’. Edmondo Berselli paragonò quel programma alla commedia sexy italiana. Io lì raccontavo un mondo che esiste, quello delle ragazze che puntano tutto sulla vacuità, sull’apparenza e su null’altro. Quando le scegliemmo mi accorsi che erano pure diplomate, qualcuna persino laureata. Ed è da allora che mi faccio delle domande sulla scuola italiana”.

 

Ogni tanto i giornali la indicano nel totonomine, nel gioco dei candidati ai ruoli direttivi nella Rai. Dicono che le vogliano dare un canale, forse il terzo. “Ho un’azienda con più di venti persone impiegate. Faccio un lavoro che mi piace. Nella vita ho fatto tante cose d’istinto, di slancio. Ma mi diverto a fare quello che sto facendo adesso”, dice lei. Ma cosa faresti se fossi a capo di una rete? “Ridurrei la durata dei programmi in prima serata, che sbrodolano solo perché così si mantengono bassi i costi. Poi farei investimenti sulla seconda serata, dove si può sperimentare, allevare conduttori e autori nuovi. Le cose che funzionano poi le porti in vetrina, in prima serata. Ci vogliono risorse, ovviamente. E i soldi sono pochi. Ma ci vuole anche un po’ di fantasia. Guglielmi addestrò nelle seconde serate Lerner, Deaglio, Ferrara. Sono durati trent’anni. La Rai dovrebbe fare da volano all’industria televisiva, e invece funziona così: se non hai mai lavorato in Rai non puoi lavorare in Rai. E io mi chiedo: ma così le novità dove le prendi, se ci sono?”.

 

Cosa ti piace in tivù? “Mi piace ‘X Factor’, che è la meritocrazia fatta spettacolo. Mi piaceva ‘Doc’ di Renzo Arbore, che portava la scena musicale di alta gamma nel pomeriggio televisivo. Mi piace ‘Gazebo’, che tratta l’attualità, vista da sinistra, ma con ironia e buona musica”. ‘Gazebo’ non fa grandi ascolti. “A volte l’ascolto va unito a un criterio di qualità. E la Rai queste cose se le deve poter permettere. Anche perché fanno scuola”. Maria De Filippi? “La più brava a fare la televisione popolare”. Cosa non ti piace? “Il pomeriggio televisivo. E’ occupato da ‘contenitori’, talvolta morbosetti. E’ sempre meglio essere ‘oggetto’ che contenitore”. Perché le fiction italiane sono mediamente brutte, diciamo bruttissime? “Perché non abbiamo sceneggiatori e perché siamo poveri. I nostri budget sono un trentesimo di quelli americani. Ma ‘Gomorra’ era bello, e pure coraggioso, perché poteva andargli male. Le ultime fiction della Rai, quelle sceneggiate da Ivan Cotroneo, tipo ‘Tutti pazzi per amore’, secondo me funzionano, modernizzano il linguaggio. Non fa proprio tutto schifo. Ma c’è un problema industriale, in genere, nella tivù italiana: abbiamo tanti bravi realizzatori e pochi autori. E la ragione sta nel fatto che non c’è una politica dell’originalità, ovvero non viene richiesto d’inventare, non ci sono nemmeno incentivi a farlo. E questo porta la nostra televisione, per esempio, ad acquistare soprattutto format dall’estero”.

 

[**Video_box_2**]D’Alema l’avrai frequentato, visto a cena, a casa. “Come no”. Ed è antipatico anche in privato? “A me sta simpatico. Anzi, guarda, D’Alema è proprio simpatico”. Nella sua ultima intervista, ad Aldo Cazzullo, D’Alema rivela un po’ di malanimo nei confronti di tuo marito e anche di Velardi, Latorre, Orfini, tutti suoi collaboratori passati con Renzi. “Ti devi mettere dal suo punto di vista. Io lo capisco D’Alema. Sarebbe strano se non fosse arrabbiato. Però, se lui avesse fatto altre scelte, se per esempio avesse deciso di fare il padre nobile di un nuovo corso, se si fosse fatto da parte con sapienza e generosità, forse sarebbe stato tutto diverso. Forse”. Tu hai fatto la campagna elettorale per Bersani, alle primarie. “Quelle che ha vinto”. Poi è arrivato Renzi. “E il segretario adesso è lui. Sarò forse un po’ comunista, ancora, ma io credo che ci sia un partito, credo che questo partito abbia discusso, che al suo interno ci si sia contati, e che adesso tocchi a Renzi. Punto”.

 

E mentre parla sul suo viso mobile vanno e vengono scintille e ombre che alla fine rivelano la sua più costante espressione: l’entusiasmo, forse una vena di follia, da irregolare. Ci sono infatti delle simpatiche stranezze nella vita di Simona Ercolani. Nel 2011 si è costruita con suo marito una casa nel deserto del Nevada, in mezzo al nulla. E la cosa dev’essere sembrata singolare anche agli americani, visto che il New York Times mandò un giornalista e un fotografo a vedere com’erano fatti questi italiani che s’erano comprati quaranta acri di sabbia, e senza aria condizionata in un posto dove fanno quaranta gradi all’ombra. “La ragione è romantica”, dice lei. “Mio padre faceva il capo elettricista, lavorava nel mondo del cinema e aveva lavorato con Michelangelo Antonioni alla realizzazione di ‘Zabriskie Point’. Verso la fine dei suoi giorni s’era ammalato di Alzheimer, non riconosceva più nemmeno le sue figlie. Ma ogni tanto farfugliava due parole, pronunciate con chiarezza: ‘Zabriskie Point, Zabriskie Point’. Che strano. Quando morì ritrovai una scatola, dentro c’erano foto di scena, lettere, filmini. Erano cose del 1968, quando lui era andato per sei mesi in America, con Antonioni, a fare sopralluoghi. Allora guardai tutto quel materiale e improvvisamente capii. ‘Zabriskie Point’, e quel viaggio nell’ovest americano, erano stati la grande avventura della sua vita. Così quando mio padre morì lo feci cremare e andai a portare un sasso nella Death Valley, lì dove avevano girato ‘Zabriskie Point’, come fanno gli ebrei per commemorare la scomparsa delle persone care. Quando vidi il deserto pensai che a papà sarebbe piaciuto avere un casa lì. E’ finita che ce la siamo comprata noi. Era un sogno. E realizzare un sogno trovo che sia una cosa molto consolante”.

 

La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli (19 febbraio 2014), Ezio Mauro (22 febbraio 2014), Giancarlo Leone (1° marzo 2014), Flavio Briatore (7 marzo 2014), Fedele Confalonieri (15 marzo 2014), Giovanni Minoli (29 marzo 2014), Luca di Montezemolo (3 aprile 2014), Urbano Cairo (10 maggio 2014), Claudio Lotito (2 luglio 2014), Giovanni Malagò (26 luglio 2014), Beppe Caschetto (9 ottobre 2014), Bruno Vespa (29 novembre 2014), Vincino (10 gennaio 2015), Marco Carrai (13 febbraio 2015), Ettore Bernabei (17 marzo 2015), Umberto Bossi (5 aprile 2015), Paolo Del Debbio (8 settembre 2015).

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.